Rubo il titolo italiano (l'originale sarebbe Brittle Innings) di un affascinante romanzo di Michael Bishop (pubblicato ormai più di venti anni or sono da Fanucci e riguardante il mostro di Frankenstein e il gioco del baseball) per introdurre una riflessione riguardo alle troppe serie TV che cadono prematuramente sotto la scure affilata dell'audience statunitense e lasciano migliaia (talora centinaia di migliaia) di fan con un pugno di mosche e la sensazione di aver buttato via numerose ore della loro vita dietro una serie che scompare senza finire (ovvero, con la tale assenza di un qualsivoglia finale che non spinga ad andare a cercare gli sceneggiatori per farli a pezzettini e darli in pasto ai criceti).
Scrivo queste righe con ancora la rabbia per la (non) conclusione di una serie - Cult - che sì sapevo destinata a concludersi molto presto (l'avevano già tagliata e ridotta a web series dopo soltanto 6 o 7 puntate della prima - e unica - stagione), ma speravo (proprio per il fatto che comunque la si era voluta mandare in onda avendola già girata) che si potesse provare non dico a concluderla come volevo io, ma almeno in maniera dignitosa. Invece, ovviamente, gli sceneggiatori vaneggiano fino in fondo e concludono con una serie di domande ancora più interessanti di quelle poste in precedenza (come quasi sempre avviene in mystery mistico-esoterici come quelli in esame, si tende a svaccare molto presto, a mettere sul fuoco molta più carne di quanta se ne possa cucinare, e a dimenticarsene poi del tutto nelle successive puntate). Non svelo altri particolari per i pochi appassionati che volessero provare a guardarla (in lingua originale, temo, visto che non credo che - considerato il suo esito - verrà doppiata e trasmessa in italiano), ma l'amaro in bocca rimasto al temrine della tredecisima e ultima puntata è tanto, tanto, tanto.
Cult non è certo l'unica - e neppure la migliore - delle serie TV che mi avevano interessato in passato e delle quali sono rimasto prematuramente orfano. Quella che più mi dispiace in assoluto che abbiano tagliato è senz'altro Endgame (variante scacchistica di Monk, della quale avevo parlato anni fa sulle pagine dell'ottimo blog di Chiara e Lapo, Serie Poco Serie - al quale rimando se volete saperne di più), ma qui tutto sommato, la mancata spiegazione della trama portante della serie è relativamente poco interessante per il sottoscritto, mentre lo era molto di più il personaggio. Quella che invece mi ha lasciato ancor più irritato di Cult, è Happy Town (anch'essa recensita su Serie poco Serie), troncata in modo ancora più infame.
C'è poi, ovviamente da citare il caso di Alphas, la discreta (alla lunga mi cominciava a stancare) serie super-eroistica sui generis su di una specie di novelli X-Men (andate sempre su Serie poco Serie se non la conoscete - nel frattempo questa è giunta anche da noi, su Rai4), della cui cancellazione sulla base della madre di tutti i cliffhanger (il finale della seconda - e ultima - stagione è assolutamente devastante quanto a cliffhanging) ha avuto modo di disquisire perfino Sheldon Cooper in un'esilarante puntata della sesta stagione di Big Bang Theory (che forse qualcuno di voi avrà visto). Be' senza dubbio la reazione di Sheldon è perfino misurata, rispetto a quello che vorrei fare io a quelli che hanno deciso la cancellazione di Cult e Happy Town nel modo in cui sono avvenute.
Ormai, per tutti gli appassionati di telefilm del mondo, sarebbe forse meglio attendere una, forse due stagioni complete prima di cominciare a vedere una nuova serie, se non si vuol correre il rischio di aver buttato via parecchie ore della propria vita in attesa di una soluzione finale che non arriverà mai. Ma forse siamo tutti in fondo in fondo un po' masochisti, ci piace soffrire, e così continueremo disperatamente a vedere tutte le serie che ci piacciono dal principio, nella speranza (troppe volte vana) che quella sia la serie giusta, quella che arriva a una conclusione degna, alla conclusione che avremmo scritto noi stessi, ce ne fosse stata data l'opportunità.
venerdì 30 agosto 2013
mercoledì 28 agosto 2013
Un pulp al giorno: Murder Aisle
Concludiamo la nostra disamina del numero di febbraio del 1934 di Dime Detective Magazine, con un discreto racconto di ambientazione ferroviaria di Oscar Schisgall (autore piuttosto attivo nei mystery magazines di quegli anni).
In poco più di venticinque pagine, l'autore riesce nella non semplice impresa di allestire un murder mystery all'interno di un solo vagone (la vittima è una giovane stella della radio), con tanto di rapinatore di banca in fuga coinvolto suo malgrado nella vicenda, sbandata abbandonata all'altare che viaggia di nascosto e un detective ferroviario che riuscirà a scoprire il colpevole (in modo piuttosto forzato, secondo me, ma comunque coerente). Ben scritto e ben ritmato, anche se in parte un po' ripetitivo, il raccontorientra a pieno titolo nel fortunato filone dei delitti sul treno (esisteva almeno un pulp completo dedicato a questo genere di racconti - forse anche più di uno) e completa in modo dignitoso un numero della rivista di livello piuttosto buono.
Credo che ne leggerete - insieme a me - molti anni nei mesi a seguire, visto che la Radioarchives sembra intenzionata a ristampare tutti i 273 numeri della rivista!!
In poco più di venticinque pagine, l'autore riesce nella non semplice impresa di allestire un murder mystery all'interno di un solo vagone (la vittima è una giovane stella della radio), con tanto di rapinatore di banca in fuga coinvolto suo malgrado nella vicenda, sbandata abbandonata all'altare che viaggia di nascosto e un detective ferroviario che riuscirà a scoprire il colpevole (in modo piuttosto forzato, secondo me, ma comunque coerente). Ben scritto e ben ritmato, anche se in parte un po' ripetitivo, il raccontorientra a pieno titolo nel fortunato filone dei delitti sul treno (esisteva almeno un pulp completo dedicato a questo genere di racconti - forse anche più di uno) e completa in modo dignitoso un numero della rivista di livello piuttosto buono.
Credo che ne leggerete - insieme a me - molti anni nei mesi a seguire, visto che la Radioarchives sembra intenzionata a ristampare tutti i 273 numeri della rivista!!
domenica 25 agosto 2013
Tradurre è un po' tradire: il caso Montale - Dickinson
Post decisamente anomalo per questo blog, ma che sovviene necessario al mio ego (necessariamente alquanto ciceroniano, ergo alquanto protervio e pieno di sé) dopo un paio di giorni di riflessioni e controlli, su un curioso caso capitatomi durante una ripetizione di italiano.
L'altro giorno infatti, cercando di preparare adeguatamente all'esame di settembre una mia allieva estiva, che seguo oltre che in latino anche in italiano, abbiamo ripreso alcuni dei testi poetici che deve portare all'esame.
Bene, affrontati senza particolari problemi alcuni testi di Saffo e di Catullo (che adesso nel biennio vengono regolarmente studiati anche in Italiano, visto che lo studio della poesia nelle sue varie forme e tematiche rientra nel piano di studi - scelta che ritengo piuttosto intelligente e azzeccata, ma che mi spinge a chiedermi, perché allora non affrontare lo stesso percorso anche per la narrativa? Forse lo fanno, ma nella mia pur limitata esperienza nell'ambito - mi capitano tante ripetizioni di latino durante l'anno, ma molto meno di italiano e la sola esperienza del doposcuola salesiano non mi ha troppo illuminato in questo senso - anche lì tanta poesia, anche straniera, ma pochissima narrativa - non ho riscontri adeguati), giungiamo a una poesia della Dickinson (poetessa americana a me nota sostanzialmente quasi solo di nome e di periodo storico - come forse alcuni lettori di questo blog sapranno, per me arte e letteratura potevano chiudere con il Rinascimento fiorentino, a parte rare eccezioni e forme narrative diverse, quali horror, fantascienza e fantastico in generale), Tempesta (che non è il personaggio degli X Men). Poesia breve, di sensazioni, a giudizio personale nulla di particolare (ma ripeto, i poeti potevano chiudere grosso modo con Dante... e solo perché e di Firenze, altrimenti fermarsi a i lirici Greci e, vai esageriamo, giusto a Orazio e Virgilio - perché già Ovidio lo trovo superato - per i Romani, sarebbe già stato segnale positivo per il sottoscritto), testo sul quale francamente non trovo molto da dire. Leggo con l'allieva il paio di paginette che accompagnano il testo, dove, aldilà della osannatissima e sbandieratissima sublime traduzione di Montale, si dice ben poco d'altro che sia utile per lo studente (a malapena si introduce la Dickinson, che dubito che lo studente italiano di seconda superiore sappia seppur vagamente chi sia - uno parecchio più anziano, stile il sottoscritto, ma anche più antico, potrebbe pensare, sentendo il cognome all'interprete del sergente Pepper - ma anche di ottimi western - nel telefilm anni Settanta, ovvero Angie Dickinson; uno studente che almeno meriti il mio rispetto da metallaro sentito il cognome lo abbinerebbe subito a Bruce, pochissimi, se non nessuno alla problematica - nel senso della sua esistenza - poetessa statunitense). Ora, fin qui non ci sarebbe neppure nulla di troppo strano, considerato il livello dei testi liceali contemporanei; il bello viene con le domande relative al testo, che assurdamente, vertono in gran parte sulla valenza stilistica del testo, sulle sensazioni che suscita, e compagnia cantante.
Se a qualcuna, che pure a me darebbe adito a contestazioni, si può grosso modo rispondre, altre sono il trionfo dell'assurdo, perché si riferiscono al testo italiano - sublimemente tradotto da Montale (notate dell'ironia? Chi sono io per schernire un nobel per la letteratura? A parte il fatto che hubrys is my middle name e che Eschilo avrebbe dovuto inventare le Erinni per il sottoscritto e non per il povero Oreste - dimenticandosi tra l'altro delle Eumenidi, perché non mi sento affatto pentito - l'ironia è in questo caso rivolta non tanto al poeta - che pure come vedrete a breve non è esente da colpe - quanto a chi ha scritto il libro e si è sentito in dovere di continuare a battere il tasto sull'eccezionale qualità della traduzione di Montale) - che è inevitabilmente diverso dal testo inglese originale.
E qui si arriva al punto focale di questo sfogo (che immagino ben pochi siano riusciti a sostenere sin qui, se non animati da masochismo all'ennesima potenza o dalla morbosa curiosità di vedere fin dove posano spingersi i tasti del sottoscritto quanto lascia libero sfogo alla tracotanza - fin troppo spesso, in realtà): la resa di una poesia in una lingua diversa dall'originale. E porgo subito la mia risposta: nonostante quello che si è fatto e si continua a fare, trovo in linea di principio assolutamente sbagliato affidare a poeti di eccezionale livello qualitativo la traduzione di poesie straniere di livello paragonabile. La poesia, nella gran parte dei casi e comunque indubitabilmente nella poesia lirica, è espressioni di sentimenti individuali, personali, in taluni casi solipsistici (nel senso che derivano dalla visione individuale del mondo di ciascuno di noi, diversa da quella di chiunque altro, qualunque cosa si voglia sostenere di diverso, a livello filosofico o meno: per me non esiste un mondo delle idee socratico/platonico, ma un singolo iperuranio per ciascuno di noi, influenzato da quello di ogni altra esperienza si venga in contatto, ma sempre indubitabilmente individuale; è ciò che rende straordinaria l'esperienza umana e che rende possibile che un singolo individuo sia un genio per alcuni e un vero cialtrone per molti altri; è il numero delle persone che ti ritengono un genio o che ti ritengono un cialtrone a segnare tutta la tua esistenza, non la tua qualità intrinseca - che ammetto, ovviamente, possa essere incredibilmente diversa. Ma sto divagando troppo... basta così al riguardo), e viene espressa dall'autore nella lingua che meglio conosce, con il linguaggio che meglio esprime - a suo unico e indiscutibile parere - i sentimenti che prova. Se il poeta è mirabile, riesce a farlo nel migliore dei modi, non lo si può migliorare, non lo si può toccare, non lo si può rendere in un'altra lingua. Una qualsiasi di queste operazioni infetta il testo originale, l'intento poetico, lo scopo ultimo dell'autore. Secondo me, quindi, una poesia si può realmente apprezzare soltanto nel testo originario in cui è stata scritta, conoscendo quindi più che degnamente la lingua. Altrimenti, se ne legge soltanto un'eco lontana, una copia che per quanto ben fatta, per quanto sublime (per tornare all'aggettivo che tanto mi ha disturbato), risente inesorabilmente del traditore che l'ha tradotta: che il tradimento sia macroscopico o infinitesimale è solo una questione di sfumatura, l'infezione c'è e comunque la si vede (se se ne hanno le capacità - e qui riemerge possente l'hubrys da poco sopita).
E quest'infezione - ed eccomi ad andare giù peso - si sente in modo assolutamente maggiore quando è un grande poeta a usare la sua lingua per tradurre quella di un suo pari di epoca, tradizione e lingua diversa.
Per non svolgere un vero e proprio trattato - che appare distonico rispetto all'ambiente in cui scrivo al momento - il problema del grande poeta che traduce un suo simile è quello di essere troppo bravo e troppo grande di suo per poter rendere un suo pari senza sentire il bisogno di far sentire la propria interpretazione (necessariamente elevata perché straordinaria è la competenza semantica e la capacità di espressione del poeta traduttore). Così avviene, per fare un esempio che mi rendo conto sia alquanto fuori tema, ma non posso esimermi dal fare (hubrys dove mi porterai), nel caso delle versioni italiane di molte canzoni inglesi o americane degli anni Sessanta e Settanta. Quando Mogol scrive Senza Luce per i Dik Dik, partendo da A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum (se non le conoscete - a parte il fatto di essere probabilmente troppo giovani o musicalmente ignoranti, nel senso semantico del termine- correte ad ascoltarle, perché altrimenti avrete perso dei capolavori), compie un vero e proprio delitto semantico, ma scrive un grandissimo testo, da unirsi in questo caso a una musica talmente bella da risultare straordinariamente efficace sia in italiano che in inglese. Lo stesso avviene quasi sempre quando un grande poeta traduce un altro grande poeta: può venirne fuori un altro capolavoro - raramente - o comunque una bella poesia, di rado però in grado di trasmettere le stesse sensazioni intese dall'autore - e che spesso possono venir percepite pienamente - e si torna al solipsismo e all'iperuranio individuale di cui sopra - soltanto da chi li scrive.
Per completare il quadro, mettere le ciliegine sulla torta e abbandonare questo post delirante al giudizio dei posteri - notate l'allitterazione e il differente significato semantico, assolutamente casuali - qualche riga bisogna spenderla anche sulla sublime traduzione di Montale (e vai che si colpisce il nobel!): prima di tutto, eccovi il testo di Montale e sotto quello della Dickinson
Con un suono di corno
il vento arrivò, scosse l'erba;
un verde brivido diaccio
così sinistro passò nel caldo
che sbarrammo le porte e le finestre
quasi entrasse uno spettro di smeraldo:
e fu certo l'elettrico
segnale del Giudizio.
Una bizzarra turba di ansimanti
alberi, siepi alla deriva
e case in fuga nei fiumi
è ciò che videro i vivi.
Tocchi del campanile desolato
mulinavano le ultime nuove.
Quanto può giungere,
quanto può andarsene,
in un mondo che non si muove!
it quivered through the grass,
and a green chill upon the heat
so ominous did pass
we barred the windows and the doors
as from an emerald ghost;
the doom's electric moccasin
that very instant passed.
On a strange mob of panting trees
and fences fled away
and rivers where the houses ran
the living looked that day.
The bell within the steeple wild
the flying tidings whirled.
How much can come
and much can go,
and yet abide the world!
Emily Dickinson
Ora, senza dilungarmi in modo eccessivo, è evidente anche con una conoscenza non troppo approfondita - e non poetica - della lingua inglese, che Montale ha operato diverse modifiche alle scelte semantiche della poetessa statunitense, alcune pertinenti, altre decisamente meno (usare un arcaico toscanismo come "diaccio" per rendere "chill"? O peggio, rendere "electric moccasin" - la sinuosità serpentiforme del fulmine - con "elettrico segnale"? Già qui, ci vedo ben poco di sublime...), ma con un minimo di attenzione si coglie anche un grosso errore terminologico, che guasta del tutto - e non si limita ad infettare - il senso della poesia della Dickinson.
Il termine "abide" non vuole indicare l'immobilismo, l'impermeabilità del mondo, pur sottoposto al Giorno del Giudizio (che Montale si sente di ingrandire e nobilitare oltre l'intento della Dickinson con una maiuscola, assente nell'originale, per caratteristica intrinseca della poetessa), quanto invece la sua capacità di perdurare, di resistere a ogni insulto, a ogni dileggio scagliatogli dal Cielo (e qui sì, si può usare la maiuscola, comunque si voglia intenderla).
E infatti, una traduzione trovata in rete di un semplice appassionato di poesia italiano (tanto semplice appassionato, in realtà non deve essere, visto che si è preso la briga di tradurre l'intero corpus della poetessa americana... i miei complimenti a Giuseppe Ierolli!!), non certo noto e sbandierato come Montale (nel libro di testo scelto a perenne ludibrio per la scarsa qualità dei testi scolastici nostrani), rende in modo forse meno poetico, ma per me molto più aderente all'originale il testo della Dickinson (che comunque ha alcune lievi modifiche, specialmente nell'uso delle maiuscole).
Venne un Vento come di Buccina -
Vibrò attraverso l'Erba
E un Verde Brivido sulla Calura
Passò così sinistro
Che sbarrammo Porte e Finestre
Come per uno Spettro di Smeraldo -
L'elettrico Mocassino del Giudizio
Proprio in quell'istante passò -
Un'insolita Turba di Alberi ansimanti
E Steccati divelti
E Fiumi in cui correvano le Case
Questo vide chi era vivo - quel Giorno -
La Campana nella torre sconvolta
Le volanti notizie riferiva -
Quanto può venire
E quanto può andare,
Eppure il Mondo perdurare!
E' grosso modo come l'avrei tradotta io (senz'altro peggio... rinovvo i complimenti al bravissimo traduttore - altro che Montale!).
E con questo, dopo aver gettato palate di sterco su di un premio Nobel per la letteratura (ed aver nel contempo esaltato la qualità letteraria e l'abilità di traduttore di una persona a me assolutamente - e immeritatamente - sconosciuta) e ancor più sul libro scolastico origine di questo lunghissimo - e forse inutile - post - mi congedo da voi, invitandomi a farmi sapere cosa ne pensate dei punti salienti di questo mio fin troppo arzigogolato pensiero.
L'altro giorno infatti, cercando di preparare adeguatamente all'esame di settembre una mia allieva estiva, che seguo oltre che in latino anche in italiano, abbiamo ripreso alcuni dei testi poetici che deve portare all'esame.
Bene, affrontati senza particolari problemi alcuni testi di Saffo e di Catullo (che adesso nel biennio vengono regolarmente studiati anche in Italiano, visto che lo studio della poesia nelle sue varie forme e tematiche rientra nel piano di studi - scelta che ritengo piuttosto intelligente e azzeccata, ma che mi spinge a chiedermi, perché allora non affrontare lo stesso percorso anche per la narrativa? Forse lo fanno, ma nella mia pur limitata esperienza nell'ambito - mi capitano tante ripetizioni di latino durante l'anno, ma molto meno di italiano e la sola esperienza del doposcuola salesiano non mi ha troppo illuminato in questo senso - anche lì tanta poesia, anche straniera, ma pochissima narrativa - non ho riscontri adeguati), giungiamo a una poesia della Dickinson (poetessa americana a me nota sostanzialmente quasi solo di nome e di periodo storico - come forse alcuni lettori di questo blog sapranno, per me arte e letteratura potevano chiudere con il Rinascimento fiorentino, a parte rare eccezioni e forme narrative diverse, quali horror, fantascienza e fantastico in generale), Tempesta (che non è il personaggio degli X Men). Poesia breve, di sensazioni, a giudizio personale nulla di particolare (ma ripeto, i poeti potevano chiudere grosso modo con Dante... e solo perché e di Firenze, altrimenti fermarsi a i lirici Greci e, vai esageriamo, giusto a Orazio e Virgilio - perché già Ovidio lo trovo superato - per i Romani, sarebbe già stato segnale positivo per il sottoscritto), testo sul quale francamente non trovo molto da dire. Leggo con l'allieva il paio di paginette che accompagnano il testo, dove, aldilà della osannatissima e sbandieratissima sublime traduzione di Montale, si dice ben poco d'altro che sia utile per lo studente (a malapena si introduce la Dickinson, che dubito che lo studente italiano di seconda superiore sappia seppur vagamente chi sia - uno parecchio più anziano, stile il sottoscritto, ma anche più antico, potrebbe pensare, sentendo il cognome all'interprete del sergente Pepper - ma anche di ottimi western - nel telefilm anni Settanta, ovvero Angie Dickinson; uno studente che almeno meriti il mio rispetto da metallaro sentito il cognome lo abbinerebbe subito a Bruce, pochissimi, se non nessuno alla problematica - nel senso della sua esistenza - poetessa statunitense). Ora, fin qui non ci sarebbe neppure nulla di troppo strano, considerato il livello dei testi liceali contemporanei; il bello viene con le domande relative al testo, che assurdamente, vertono in gran parte sulla valenza stilistica del testo, sulle sensazioni che suscita, e compagnia cantante.
Se a qualcuna, che pure a me darebbe adito a contestazioni, si può grosso modo rispondre, altre sono il trionfo dell'assurdo, perché si riferiscono al testo italiano - sublimemente tradotto da Montale (notate dell'ironia? Chi sono io per schernire un nobel per la letteratura? A parte il fatto che hubrys is my middle name e che Eschilo avrebbe dovuto inventare le Erinni per il sottoscritto e non per il povero Oreste - dimenticandosi tra l'altro delle Eumenidi, perché non mi sento affatto pentito - l'ironia è in questo caso rivolta non tanto al poeta - che pure come vedrete a breve non è esente da colpe - quanto a chi ha scritto il libro e si è sentito in dovere di continuare a battere il tasto sull'eccezionale qualità della traduzione di Montale) - che è inevitabilmente diverso dal testo inglese originale.
E qui si arriva al punto focale di questo sfogo (che immagino ben pochi siano riusciti a sostenere sin qui, se non animati da masochismo all'ennesima potenza o dalla morbosa curiosità di vedere fin dove posano spingersi i tasti del sottoscritto quanto lascia libero sfogo alla tracotanza - fin troppo spesso, in realtà): la resa di una poesia in una lingua diversa dall'originale. E porgo subito la mia risposta: nonostante quello che si è fatto e si continua a fare, trovo in linea di principio assolutamente sbagliato affidare a poeti di eccezionale livello qualitativo la traduzione di poesie straniere di livello paragonabile. La poesia, nella gran parte dei casi e comunque indubitabilmente nella poesia lirica, è espressioni di sentimenti individuali, personali, in taluni casi solipsistici (nel senso che derivano dalla visione individuale del mondo di ciascuno di noi, diversa da quella di chiunque altro, qualunque cosa si voglia sostenere di diverso, a livello filosofico o meno: per me non esiste un mondo delle idee socratico/platonico, ma un singolo iperuranio per ciascuno di noi, influenzato da quello di ogni altra esperienza si venga in contatto, ma sempre indubitabilmente individuale; è ciò che rende straordinaria l'esperienza umana e che rende possibile che un singolo individuo sia un genio per alcuni e un vero cialtrone per molti altri; è il numero delle persone che ti ritengono un genio o che ti ritengono un cialtrone a segnare tutta la tua esistenza, non la tua qualità intrinseca - che ammetto, ovviamente, possa essere incredibilmente diversa. Ma sto divagando troppo... basta così al riguardo), e viene espressa dall'autore nella lingua che meglio conosce, con il linguaggio che meglio esprime - a suo unico e indiscutibile parere - i sentimenti che prova. Se il poeta è mirabile, riesce a farlo nel migliore dei modi, non lo si può migliorare, non lo si può toccare, non lo si può rendere in un'altra lingua. Una qualsiasi di queste operazioni infetta il testo originale, l'intento poetico, lo scopo ultimo dell'autore. Secondo me, quindi, una poesia si può realmente apprezzare soltanto nel testo originario in cui è stata scritta, conoscendo quindi più che degnamente la lingua. Altrimenti, se ne legge soltanto un'eco lontana, una copia che per quanto ben fatta, per quanto sublime (per tornare all'aggettivo che tanto mi ha disturbato), risente inesorabilmente del traditore che l'ha tradotta: che il tradimento sia macroscopico o infinitesimale è solo una questione di sfumatura, l'infezione c'è e comunque la si vede (se se ne hanno le capacità - e qui riemerge possente l'hubrys da poco sopita).
E quest'infezione - ed eccomi ad andare giù peso - si sente in modo assolutamente maggiore quando è un grande poeta a usare la sua lingua per tradurre quella di un suo pari di epoca, tradizione e lingua diversa.
Per non svolgere un vero e proprio trattato - che appare distonico rispetto all'ambiente in cui scrivo al momento - il problema del grande poeta che traduce un suo simile è quello di essere troppo bravo e troppo grande di suo per poter rendere un suo pari senza sentire il bisogno di far sentire la propria interpretazione (necessariamente elevata perché straordinaria è la competenza semantica e la capacità di espressione del poeta traduttore). Così avviene, per fare un esempio che mi rendo conto sia alquanto fuori tema, ma non posso esimermi dal fare (hubrys dove mi porterai), nel caso delle versioni italiane di molte canzoni inglesi o americane degli anni Sessanta e Settanta. Quando Mogol scrive Senza Luce per i Dik Dik, partendo da A Whiter Shade of Pale dei Procul Harum (se non le conoscete - a parte il fatto di essere probabilmente troppo giovani o musicalmente ignoranti, nel senso semantico del termine- correte ad ascoltarle, perché altrimenti avrete perso dei capolavori), compie un vero e proprio delitto semantico, ma scrive un grandissimo testo, da unirsi in questo caso a una musica talmente bella da risultare straordinariamente efficace sia in italiano che in inglese. Lo stesso avviene quasi sempre quando un grande poeta traduce un altro grande poeta: può venirne fuori un altro capolavoro - raramente - o comunque una bella poesia, di rado però in grado di trasmettere le stesse sensazioni intese dall'autore - e che spesso possono venir percepite pienamente - e si torna al solipsismo e all'iperuranio individuale di cui sopra - soltanto da chi li scrive.
Per completare il quadro, mettere le ciliegine sulla torta e abbandonare questo post delirante al giudizio dei posteri - notate l'allitterazione e il differente significato semantico, assolutamente casuali - qualche riga bisogna spenderla anche sulla sublime traduzione di Montale (e vai che si colpisce il nobel!): prima di tutto, eccovi il testo di Montale e sotto quello della Dickinson
La Tempesta
Trad. di Eugenio Montale (1953)Con un suono di corno
il vento arrivò, scosse l'erba;
un verde brivido diaccio
così sinistro passò nel caldo
che sbarrammo le porte e le finestre
quasi entrasse uno spettro di smeraldo:
e fu certo l'elettrico
segnale del Giudizio.
Una bizzarra turba di ansimanti
alberi, siepi alla deriva
e case in fuga nei fiumi
è ciò che videro i vivi.
Tocchi del campanile desolato
mulinavano le ultime nuove.
Quanto può giungere,
quanto può andarsene,
in un mondo che non si muove!
The Storm
There came a wind like a bugle;it quivered through the grass,
and a green chill upon the heat
so ominous did pass
we barred the windows and the doors
as from an emerald ghost;
the doom's electric moccasin
that very instant passed.
On a strange mob of panting trees
and fences fled away
and rivers where the houses ran
the living looked that day.
The bell within the steeple wild
the flying tidings whirled.
How much can come
and much can go,
and yet abide the world!
Emily Dickinson
Ora, senza dilungarmi in modo eccessivo, è evidente anche con una conoscenza non troppo approfondita - e non poetica - della lingua inglese, che Montale ha operato diverse modifiche alle scelte semantiche della poetessa statunitense, alcune pertinenti, altre decisamente meno (usare un arcaico toscanismo come "diaccio" per rendere "chill"? O peggio, rendere "electric moccasin" - la sinuosità serpentiforme del fulmine - con "elettrico segnale"? Già qui, ci vedo ben poco di sublime...), ma con un minimo di attenzione si coglie anche un grosso errore terminologico, che guasta del tutto - e non si limita ad infettare - il senso della poesia della Dickinson.
Il termine "abide" non vuole indicare l'immobilismo, l'impermeabilità del mondo, pur sottoposto al Giorno del Giudizio (che Montale si sente di ingrandire e nobilitare oltre l'intento della Dickinson con una maiuscola, assente nell'originale, per caratteristica intrinseca della poetessa), quanto invece la sua capacità di perdurare, di resistere a ogni insulto, a ogni dileggio scagliatogli dal Cielo (e qui sì, si può usare la maiuscola, comunque si voglia intenderla).
E infatti, una traduzione trovata in rete di un semplice appassionato di poesia italiano (tanto semplice appassionato, in realtà non deve essere, visto che si è preso la briga di tradurre l'intero corpus della poetessa americana... i miei complimenti a Giuseppe Ierolli!!), non certo noto e sbandierato come Montale (nel libro di testo scelto a perenne ludibrio per la scarsa qualità dei testi scolastici nostrani), rende in modo forse meno poetico, ma per me molto più aderente all'originale il testo della Dickinson (che comunque ha alcune lievi modifiche, specialmente nell'uso delle maiuscole).
Venne un Vento come di Buccina -
Vibrò attraverso l'Erba
E un Verde Brivido sulla Calura
Passò così sinistro
Che sbarrammo Porte e Finestre
Come per uno Spettro di Smeraldo -
L'elettrico Mocassino del Giudizio
Proprio in quell'istante passò -
Un'insolita Turba di Alberi ansimanti
E Steccati divelti
E Fiumi in cui correvano le Case
Questo vide chi era vivo - quel Giorno -
La Campana nella torre sconvolta
Le volanti notizie riferiva -
Quanto può venire
E quanto può andare,
Eppure il Mondo perdurare!
E' grosso modo come l'avrei tradotta io (senz'altro peggio... rinovvo i complimenti al bravissimo traduttore - altro che Montale!).
E con questo, dopo aver gettato palate di sterco su di un premio Nobel per la letteratura (ed aver nel contempo esaltato la qualità letteraria e l'abilità di traduttore di una persona a me assolutamente - e immeritatamente - sconosciuta) e ancor più sul libro scolastico origine di questo lunghissimo - e forse inutile - post - mi congedo da voi, invitandomi a farmi sapere cosa ne pensate dei punti salienti di questo mio fin troppo arzigogolato pensiero.
sabato 24 agosto 2013
Un pulp al giorno: The Faceless Horror
Il terzo viaggio fra le pagine del numero di febbraio del 1934 di Dime Detective Magazine ci porta oggi a incontrare un autore non particolarmente noto e dal nome curioso - J.J. Des Ormeaux - attivo anche nei pulp generalisti più prestigiosi, quali Argosy e Short Stories. Il fuorviante titolo del racconto, che fa pensare a un sano horror vecchio stile - ci introduce invece a una complicata vicenda di ricatti e contro-ricatti, ai quali due investigatori per il procuratore distrettuale devono dare una soluzione. Fra ragazze strangolate con un brandello di assegno in mano, poliziotti corrotti e direttori di banca in cerca di espiazione per il padre, il racconto giunge a un'inattesa, quanto molto improbabile soluzione, che seppure dotata di un certo fascino (l'artefice di tutto il complotto è lo stesso losco cinese - siamo nel '34, ricordate? Il pericolo giallo è all'ordine del giorno - che ne ha denunciato inizialmente l'esistenza), fa pensare un po' troppo a un trucco narrativo troppo ex machina per risultare gradevole.
Non propriamente nelle mie corde, il racconto presenta comunque alcuni passaggi e alcune situazioni molto ben descritte (come uno degli scagnozzi del villain ucciso da un colpo di pistola fra le mani del detective narratore, che sente la vita dell'altro sfuggirgli lentamente fra le mani) e rientra a pieno titolo fra i possibili esempi di narrativa pulp poliziesco-investigativa.
Tra pochi giorni, ultimo pezzo da questo numero. Restate sintonizzati
Non propriamente nelle mie corde, il racconto presenta comunque alcuni passaggi e alcune situazioni molto ben descritte (come uno degli scagnozzi del villain ucciso da un colpo di pistola fra le mani del detective narratore, che sente la vita dell'altro sfuggirgli lentamente fra le mani) e rientra a pieno titolo fra i possibili esempi di narrativa pulp poliziesco-investigativa.
Tra pochi giorni, ultimo pezzo da questo numero. Restate sintonizzati
giovedì 22 agosto 2013
Un pulp al giorno: Shoes for the Dead
Il secondo viaggio tra le pagine del numero di febbraio 1934 di Dime Detective, ci porta a trovare quella che sembra una cupa storia di divinità pellerossa, il famigerato Wendigo, o di curiosi vampiri strappacuore (nel senso che strappano letteralmente il cuore delle loro vittime), per poi rivelarsi - come quasi sempre accade in tutti i racconti dell'epoca - una trama molto più terrena e ben poco soprannaturale.
Il racconto in questione, scritto dal non molto noto J.Paul Suter - piuttosto attivo, a quel che si riesce a trovare in rete, anche su riviste prestigiose come Weird Tales e Black Mask - e ambientato nei boschi a cavallo fra Minnesota e Canada, introduce una coppia di personaggi che non so se hanno altre avventure al loro attivo: si tratta del "becchino" Horace Humberton - un simpatico imbalsamatore di cadaveri miope come una talpa e il vezzo del detective amatoriale - e il vero detective vecchia scuola Jim Clyde, spalla armata e più capace della media di tali personaggi del nostro Humberton. Chiamati da un vecchio amico fra i boschi settentrionali sul finire dell'estate, i due si trovano coinvolti in una triste vicenda di cadaveri smembrati e antiche leggende locali, fino a scoprire come tutto sia opera di un furfante che ha intrapreso in mezzo ai boschi una sua attività di falsario.
Un po' datato nello sviluppo e nelle caratterizzazioni, ma comunque godibile, il racconto si lascia leggere sino in fondo, e risulta solo un po' deludente nel finale e in qualche lungaggine di troppo nella parte mediana.
Il racconto in questione, scritto dal non molto noto J.Paul Suter - piuttosto attivo, a quel che si riesce a trovare in rete, anche su riviste prestigiose come Weird Tales e Black Mask - e ambientato nei boschi a cavallo fra Minnesota e Canada, introduce una coppia di personaggi che non so se hanno altre avventure al loro attivo: si tratta del "becchino" Horace Humberton - un simpatico imbalsamatore di cadaveri miope come una talpa e il vezzo del detective amatoriale - e il vero detective vecchia scuola Jim Clyde, spalla armata e più capace della media di tali personaggi del nostro Humberton. Chiamati da un vecchio amico fra i boschi settentrionali sul finire dell'estate, i due si trovano coinvolti in una triste vicenda di cadaveri smembrati e antiche leggende locali, fino a scoprire come tutto sia opera di un furfante che ha intrapreso in mezzo ai boschi una sua attività di falsario.
Un po' datato nello sviluppo e nelle caratterizzazioni, ma comunque godibile, il racconto si lascia leggere sino in fondo, e risulta solo un po' deludente nel finale e in qualche lungaggine di troppo nella parte mediana.
lunedì 19 agosto 2013
Un pulp al giorno: Skeleton without arms
Dopo una lunga pausa, dovuta alle ferie dei miei datori di lavoro alla Radioarchives, ecco tornare la rubrica principe di questo blog. Iniziamo con oggi la lettura dei racconti contenuti nel numero di febbraio del 1934 di Dime Detective Magazine, e partiamo con un gradito ritorno, quello di Frederick C.Davis, che abbiamo conosciuto su queste pagine diversi mesi or sono.
Il racconto in questione, Skeleton Without Arms, è un discreto esempio di hard boiled non troppo noir, con tanto di investigatore e assistenti (una rossa tutto pepe e un picchiatore dalla parvenza aristocratica) e poliziotto continuamente scocciato dai suddetti. In realtà, però, nessuno dei classici protagonisti è l'archetipo di quello che sembra, e questo rende la lettura molto più gradevole del previsto. Davis è un autore di buonissima qualità e la vicenda che racconta in questa storia, ambientata nella Hollywood dei primi anni del cinema sonoro, è, seppur limitatamente banale sotto molti aspetti, sintomatica dei pregi e dei difetti della fiction investigativa di quel periodo.
La vicenda riguarda la sparizione di un giovane aspirante attore dagli studi - anche radiofonici - di una casa di produzione, apparentemente per un rapimento. Seguono però due misteriosi e truculenti omicidi: altri due giovani attori sono rimasti uccisi mentre trasmettevano in radio, perché dentro di loro sono esplosi dei fulminanti, ingeriti attraverso delle pillole alle erbe. Tra belle attrici rimaste sfregiate in un incidente d'auto che si sono ricavate un nuovo lavoro come erborista esotica, direttori di studio sopraffatti da amori che resteranno solo platonici, e rabbiosi padri elettrotecnici divorati dal rimorso e dalla gelosia, il giallo scorre molto bene verso la conclusione, e lega abilmente uno spunto simil-fantascientifico (l'utilizzo di onde radio concentrate per aumentare la temperatura corporea delle potenziali vittime e farne esplodere i fulminanti involontariamente ingeriti) a un movente piuttosto meschino e deboluccio (la volontà di eliminare i concorrenti del figlio al ruolo di attore di punta della casa di produzione) per regalare una lettura alquanto piacevole, con momenti di semi-ilarità contrappuntati da descrizioni quasi da shudder pulp (nelle parti relative alle morti delle persone esplose da dentro).
Oke Oakley (questo il nome del detective) è un discreto personaggio, uno dei tantissimi creati da Davis, ed è apparso in una decina di diversi racconti fra il '34 e il'35. Un volume che ne raccoglie la saga completa è stato edito qualche anno fa dalla Altus Press, e potrebbe valere la pena raccoglierlo (specialmente se ne faranno un ebook). Ci penserò un po' su.
Il racconto in questione, Skeleton Without Arms, è un discreto esempio di hard boiled non troppo noir, con tanto di investigatore e assistenti (una rossa tutto pepe e un picchiatore dalla parvenza aristocratica) e poliziotto continuamente scocciato dai suddetti. In realtà, però, nessuno dei classici protagonisti è l'archetipo di quello che sembra, e questo rende la lettura molto più gradevole del previsto. Davis è un autore di buonissima qualità e la vicenda che racconta in questa storia, ambientata nella Hollywood dei primi anni del cinema sonoro, è, seppur limitatamente banale sotto molti aspetti, sintomatica dei pregi e dei difetti della fiction investigativa di quel periodo.
La vicenda riguarda la sparizione di un giovane aspirante attore dagli studi - anche radiofonici - di una casa di produzione, apparentemente per un rapimento. Seguono però due misteriosi e truculenti omicidi: altri due giovani attori sono rimasti uccisi mentre trasmettevano in radio, perché dentro di loro sono esplosi dei fulminanti, ingeriti attraverso delle pillole alle erbe. Tra belle attrici rimaste sfregiate in un incidente d'auto che si sono ricavate un nuovo lavoro come erborista esotica, direttori di studio sopraffatti da amori che resteranno solo platonici, e rabbiosi padri elettrotecnici divorati dal rimorso e dalla gelosia, il giallo scorre molto bene verso la conclusione, e lega abilmente uno spunto simil-fantascientifico (l'utilizzo di onde radio concentrate per aumentare la temperatura corporea delle potenziali vittime e farne esplodere i fulminanti involontariamente ingeriti) a un movente piuttosto meschino e deboluccio (la volontà di eliminare i concorrenti del figlio al ruolo di attore di punta della casa di produzione) per regalare una lettura alquanto piacevole, con momenti di semi-ilarità contrappuntati da descrizioni quasi da shudder pulp (nelle parti relative alle morti delle persone esplose da dentro).
Oke Oakley (questo il nome del detective) è un discreto personaggio, uno dei tantissimi creati da Davis, ed è apparso in una decina di diversi racconti fra il '34 e il'35. Un volume che ne raccoglie la saga completa è stato edito qualche anno fa dalla Altus Press, e potrebbe valere la pena raccoglierlo (specialmente se ne faranno un ebook). Ci penserò un po' su.
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