Oggi peschiamo un'altro racconto dalle pagine di Detective Dime Novels 1 dell'aprile del 1940. Si tratta di un brioso e vivace racconto di una firma di punta del mystery e dell'hard boiled del periodo, quel Robert Leslie Bellem, creatore fra le altre cose dell'Hollywood Detective, un personaggio che si è meritato nel tempo perfino un pulp tutto suo, ed è stato protagonista di centinaia di avventure.
In questo caso invece, il protagonista della storia di Bellem è uno stuntman hollywoodiano (evidentemente l'autore conosceva bene quell'ambiente e cercava di sfruttarlo in ogni circostanza), Nick Ransom, presto coinvolto in una vicenda riguardante un ex gangster di Chicago, che, uscito di galera, cerca di rimettere in piedi la baracca nella Mecca del cinema. Sfortunatamente la sua ex, una collega di Ransom, lo riconosce, e viene presto messa a tacere, coinvolgendo al contempo il suo avventuroso e testardo datore di lavoro in una sequenza di rapimenti, attentati dinamitardi e sparatorie.
Narrato in prima persona con un senso del ritmo del parlato e dell'azione parimenti molto sviluppato, il racconto di Bellem è un ottimo esempio di poliziesco del periodo, fatto di splendide damsels in distress, di poliziotti vecchio stampo, di battute efficacissime in uno slang spesso trabordante (bellissima quella in cui Ransom, intenzionato a fare irruzione nella villa del malvivente, chiede al poliziotto che lo accompagna se aveva gli attrezzi per scassinare le serrature o la chiave universale per entrare, oppure se una cosa del genere succede solo nei romanzi gialli, e quello gli risponde di averle, e che forse quindi era lui stesso parte di un romanzo giallo). Ben vengano racconti di questo calibro, nonostante la soluzione - dovuta forse alla brevità del testo, poco meno di una ventina di pagine - sia telefonata e si capisca subito. Non è certo questo che si deve andare a cercare in un prodotto del genere, quanto invece l'abilità affabulatoria e la fantasia descrittiva di Bellem, che qui si dimostra comunque notevole.
Alla prossima vicenda, tratta sempre dalle pagine della stessa rivista.
giovedì 30 maggio 2013
Un pulp al giorno: Crime Nest
Approfondiamo allora quanto indicato nel post precedente, dedicato al dottor Thaddeus Clay Harker.
Il romanzo breve d'esordio del personaggio, apparso come abbiamo visto sul primo numero di Detective Dime Novels nell'aprile del 1940, ci racconta di una piccola città nello sterminato Midwest americano, Abbottsville, che nelle intenzioni dei suoi leader (sindaco, capo della polizia, proprietario del giornale, etc.) doveva diventare un posto dove i malviventi di tutto il paese potessero svernare e starsene tranquilli a prosperare sui precedenti misfatti, in cambio di una tangente concessa ai gestori della città. Sono gli avvisi che un vecchio compagno di scuola di Harker a mettere in azione l'eccentrico personaggio. Mandata sotto copertura la bellissima Brenda qualche mese prima, Harker giunge in città con il suo caravan itinerante, dietro la maschera del venditore di panacee, accompagnato dal fido autista e uomo di fiducia, Hercules Jones (un po' sempliciotto e ingenuo, ma estremamente fedele e degno di fiducia per quasi ogni incarico - con un debole per i mitra da gangster). Poco prima dell'arrivo, la coppia si imbatte in uno strano incidente, tra un coupé e una berlina, che forse era un inseguimento tra banditi. Poi, Harker si presenta nel residence dove ha preso alloggio e subito mostra tutto il suo fascino sudista alla bella vedova che lo gestisce. Pian piano cominciano a spuntare defunti, tutti inesorabilmente strangolati con una corda di pianoforte: devono ballare molti soldi, ma tanti davvero e Harker non ci metterà poi molto a capire tutto l'intricato intreccio della vicenda, fatta di gangster in cerca di una seconda chance per vivere onestamente, finte vedove dal cuore d'oro, malviventi senza scrupoli e su tutto l'alone di charme che circonda il buon dottore e i suoi sottoposti.
Aiutato da una prosa briosa e affascinante, fatta di descrizioni attente e quasi maniacali (non meno del suo protagonista) e di dialoghi pungenti e talora spassosi, il romanzo è narrativa pulp di prima qualità, con tutto quanto rendeva quella letteratura - seriale e ripetitiva quanto si vuole nella sua parte più modesta, ma invece inventiva e straordinaria nelle sue numerose gemme - lo svago preferito di centinaia di migliaia di persone in anni per certi versi anche peggiori di quelli che stiamo vivendo.
Non svelo altro dell'intreccio, perché spero che qualcuno di voi si metta in cerca del prodotto originale (tra poco sarà disponibile da Radioarchives per pochissimi dollari), e io stesso attendo con ansia di aggiungere anche le altre due perle (o almeno spero lo siano) con Harker protagonista al mio già consistente portfolio di preziosi dell'epoca dei pulp.
Il romanzo breve d'esordio del personaggio, apparso come abbiamo visto sul primo numero di Detective Dime Novels nell'aprile del 1940, ci racconta di una piccola città nello sterminato Midwest americano, Abbottsville, che nelle intenzioni dei suoi leader (sindaco, capo della polizia, proprietario del giornale, etc.) doveva diventare un posto dove i malviventi di tutto il paese potessero svernare e starsene tranquilli a prosperare sui precedenti misfatti, in cambio di una tangente concessa ai gestori della città. Sono gli avvisi che un vecchio compagno di scuola di Harker a mettere in azione l'eccentrico personaggio. Mandata sotto copertura la bellissima Brenda qualche mese prima, Harker giunge in città con il suo caravan itinerante, dietro la maschera del venditore di panacee, accompagnato dal fido autista e uomo di fiducia, Hercules Jones (un po' sempliciotto e ingenuo, ma estremamente fedele e degno di fiducia per quasi ogni incarico - con un debole per i mitra da gangster). Poco prima dell'arrivo, la coppia si imbatte in uno strano incidente, tra un coupé e una berlina, che forse era un inseguimento tra banditi. Poi, Harker si presenta nel residence dove ha preso alloggio e subito mostra tutto il suo fascino sudista alla bella vedova che lo gestisce. Pian piano cominciano a spuntare defunti, tutti inesorabilmente strangolati con una corda di pianoforte: devono ballare molti soldi, ma tanti davvero e Harker non ci metterà poi molto a capire tutto l'intricato intreccio della vicenda, fatta di gangster in cerca di una seconda chance per vivere onestamente, finte vedove dal cuore d'oro, malviventi senza scrupoli e su tutto l'alone di charme che circonda il buon dottore e i suoi sottoposti.
Aiutato da una prosa briosa e affascinante, fatta di descrizioni attente e quasi maniacali (non meno del suo protagonista) e di dialoghi pungenti e talora spassosi, il romanzo è narrativa pulp di prima qualità, con tutto quanto rendeva quella letteratura - seriale e ripetitiva quanto si vuole nella sua parte più modesta, ma invece inventiva e straordinaria nelle sue numerose gemme - lo svago preferito di centinaia di migliaia di persone in anni per certi versi anche peggiori di quelli che stiamo vivendo.
Non svelo altro dell'intreccio, perché spero che qualcuno di voi si metta in cerca del prodotto originale (tra poco sarà disponibile da Radioarchives per pochissimi dollari), e io stesso attendo con ansia di aggiungere anche le altre due perle (o almeno spero lo siano) con Harker protagonista al mio già consistente portfolio di preziosi dell'epoca dei pulp.
mercoledì 29 maggio 2013
Galleria di Carneadi: Thaddeus Clay Harker
Dopo un'assenza fin troppo lunga, ecco tornare una rubrica del mio blog che sono certo interessare molti dei miei lettori. E il personaggio di oggi è tanto poco conosciuto, quanto assolutamente irresistibile.
Thaddeus Clay Harker, nato dalla fantasia di Edwin Truett - autore pulp dalla carriera molto breve, interrotta dalla morte precoce, poco più che quarantenne, nel 1945 - è un anziano venditore di intrugli curativi - i Chickasa Remedies, una panacea universale - che gira gli Stati Uniti su di una specie di fortezza su ruote, un caravan che funge da laboratorio e abitazione, accompagnato dalla strana coppia di Bella e Bestia, ovvero Brenda Sloan e Hercules Jones (che somigliano straordinariamente alla coppia di assistenti di Martin Mystere... che Castelli abbia letto le storie di Harker? Sembra improbabile, ma la somiglianza è notevole).
Il dottor Harker si ritiene una delle migliori menti che abbia mai operato contro il crimine, e le tre sole storie (romanzi brevi) di cui è stato protagonista indubbiamente lo dimostrano. Harker si presenta come un irresistibile vecchietto, dall'aspetto e dai modi di un gentiluomo del Sud (viene sempre descritto come somigliante a un colonnello del Kentucky), una sorta di Josemite Sam dai capelli e dai baffoni bianchi, che io mi sono immaginato somigliante al Lawrence Olivier de Gli insospettabili, quanto a modi di fare, e, per chi ha avuto la fortuna, l'onore e il privilegio di conoscere, l'esimio italianista Mario Martelli, con il quale ho avuto modo di interagire abbastanza a lungo nel corso della mia carriera universitaria. Sono questi due i modelli che la mia mente ha elaborato come raffigurazione di quanto letto nella lunga descrizione del personaggio che Truett offre nel romanzo breve che ho avuto modo di leggere, Crime Nest, comparso sulle pagine del primo numero della rivista Detective Dime Novels, pubblicato nell'aprile del 1940, presto diventata Red Star Detective Magazine, ospite delle due successive storie del nostro Harker.
Truett, del quale non ho avuto modo al momento di leggere altro (ma che andrò subito a cercare), è abilissimo nel tratteggiare un personaggio che di primo acchitto risulta assolutamente irresistibile, un esempio straordinario della narrativa pulp al suo meglio: sorta di miscela di tanti diversi investigatori passati e futuri (per certi versi, ad esempio, ricorda perfino il signor Monk dei telefilm di poco tempo fa), un florilegio di spunti che compongono un capolavoro. Arguto, pronto, maniacale, coraggioso e galantuomo, sono alcuni dei tanti vocaboli che si possono accomunare al personaggio e al suo modo di agire.
Brioso e variopinto, il narrato di Truett è il perfetto sottofondo dentro il quale si muove Harker, e si muovono anche i suoi assistenti, altrettanto straordinariamente dipinti: il nerboruto, simpatico, ossequioso Jones, pronto a qualsiasi cosa per il suo padrone, e la bellissima, audace, sfrontata, intelligente Brenda, femme fatale al servizio del Bene, una Mata Hari dotata di sentimenti più forti del ruolo che le tocca di volta in volta interpretare.
Ritengo un vero peccato che un tale personaggio sia rimasto sostanzialmente dimenticato dal correre inesorabile del tempo (se ne trovano poche citazioni in rete - ma appare in un volume, The Pulp Hero, che si riesce a leggiucchiare su Google Books - e che devo trovare il modo di procurarmi perché sembra molto interessante), ma chissà che non lo si possa recuperare in qualche modo (le vie di Radioarchives sembrano alquanto ramificate, seppur, temo, non infinite). Per adesso spero tanto che mi possano dar modo di leggere anche le altre due storie di Harker e compagnia, in modo da potervele raccontare nel dettaglio, come ci accingo a fare fin dal prossimo post.
Thaddeus Clay Harker, nato dalla fantasia di Edwin Truett - autore pulp dalla carriera molto breve, interrotta dalla morte precoce, poco più che quarantenne, nel 1945 - è un anziano venditore di intrugli curativi - i Chickasa Remedies, una panacea universale - che gira gli Stati Uniti su di una specie di fortezza su ruote, un caravan che funge da laboratorio e abitazione, accompagnato dalla strana coppia di Bella e Bestia, ovvero Brenda Sloan e Hercules Jones (che somigliano straordinariamente alla coppia di assistenti di Martin Mystere... che Castelli abbia letto le storie di Harker? Sembra improbabile, ma la somiglianza è notevole).
Il dottor Harker si ritiene una delle migliori menti che abbia mai operato contro il crimine, e le tre sole storie (romanzi brevi) di cui è stato protagonista indubbiamente lo dimostrano. Harker si presenta come un irresistibile vecchietto, dall'aspetto e dai modi di un gentiluomo del Sud (viene sempre descritto come somigliante a un colonnello del Kentucky), una sorta di Josemite Sam dai capelli e dai baffoni bianchi, che io mi sono immaginato somigliante al Lawrence Olivier de Gli insospettabili, quanto a modi di fare, e, per chi ha avuto la fortuna, l'onore e il privilegio di conoscere, l'esimio italianista Mario Martelli, con il quale ho avuto modo di interagire abbastanza a lungo nel corso della mia carriera universitaria. Sono questi due i modelli che la mia mente ha elaborato come raffigurazione di quanto letto nella lunga descrizione del personaggio che Truett offre nel romanzo breve che ho avuto modo di leggere, Crime Nest, comparso sulle pagine del primo numero della rivista Detective Dime Novels, pubblicato nell'aprile del 1940, presto diventata Red Star Detective Magazine, ospite delle due successive storie del nostro Harker.
Truett, del quale non ho avuto modo al momento di leggere altro (ma che andrò subito a cercare), è abilissimo nel tratteggiare un personaggio che di primo acchitto risulta assolutamente irresistibile, un esempio straordinario della narrativa pulp al suo meglio: sorta di miscela di tanti diversi investigatori passati e futuri (per certi versi, ad esempio, ricorda perfino il signor Monk dei telefilm di poco tempo fa), un florilegio di spunti che compongono un capolavoro. Arguto, pronto, maniacale, coraggioso e galantuomo, sono alcuni dei tanti vocaboli che si possono accomunare al personaggio e al suo modo di agire.
Brioso e variopinto, il narrato di Truett è il perfetto sottofondo dentro il quale si muove Harker, e si muovono anche i suoi assistenti, altrettanto straordinariamente dipinti: il nerboruto, simpatico, ossequioso Jones, pronto a qualsiasi cosa per il suo padrone, e la bellissima, audace, sfrontata, intelligente Brenda, femme fatale al servizio del Bene, una Mata Hari dotata di sentimenti più forti del ruolo che le tocca di volta in volta interpretare.
Ritengo un vero peccato che un tale personaggio sia rimasto sostanzialmente dimenticato dal correre inesorabile del tempo (se ne trovano poche citazioni in rete - ma appare in un volume, The Pulp Hero, che si riesce a leggiucchiare su Google Books - e che devo trovare il modo di procurarmi perché sembra molto interessante), ma chissà che non lo si possa recuperare in qualche modo (le vie di Radioarchives sembrano alquanto ramificate, seppur, temo, non infinite). Per adesso spero tanto che mi possano dar modo di leggere anche le altre due storie di Harker e compagnia, in modo da potervele raccontare nel dettaglio, come ci accingo a fare fin dal prossimo post.
mercoledì 22 maggio 2013
Un Pulp al giorno: G-8 and his Battle Aces number 37, October 1936
Questa volta voglio modificare il mio schema consueto e analizzare un intero numero di una delle tante riviste pulp degli anni Trenta che in questi mesi mi è capitato di leggere da cima a fondo (con la massima cura), come proofreader per la RadioArchives.
Si tratta del numero di ottobre del 1936 di G-8 and his battle aces, rivista che abbiamo già incontrato qualche tempo fa. La rivista vede un romanzo - relativamente breve per gli standard odierni - dedicato alle avventure dei protagonisti eponimi della testata, dal titolo Skies of Yellow Death, un racconto riempitivo e una corposa rubrica della posta dei lettori (elemento di estremo interesse per comprendere meglio gli umori, gli stimoli, gli entusiasmi dei giovani americani dell'epoca, nella fase finale di una lunga crisi economica e sociale, che sarebbe stato il trampolino verso il secondo conflitto mondiale).
Il romanzo in questione è sostanzialmente deludente, perché perde buona parte del gusto dei combattimenti aerei nei cieli della Francia del 1917/18 - punto di forza della testata - trasformandolo in uno dei tantissimi cloni, in questo caso poco riuscito, della Oriental Menace di gran voga in quel periodo, e alla quale evidentemente non poteva sottrarsi neppure il nostro. Il problema della vicenda - che ruota attorno a un misterioso veleno che elimina con precisione temporale assoluta tutte le sue vittime - è l'accavallarsi di situazioni impossibili da cui G-8 e compagnia emergono sempre sani e salvi, cosa che senz'altro è straordinariamente pulp (e come potrebbe essere altrimenti?), ma stavolta in modo deleterio, perché si sceglie di trascurare l'azione a favore di un mystery di ben scarso livello, con l'affiancamento di un fantomatico assassino cinese (Chu Lung) alle orde di Unni (così vengono chiamati i tedeschi nel pulp) che cercono di impedire alle forze del bene (leggi Francia e alleati) il trionfo finale.
Alla fine più interessante, pur nella sua banalità, il raccontino di riempimento, The police patrol, non firmato (probabilmente quindi dello stesso Robert J.Hogan, autore di G-8), che nella vicenda di un poliziotto militare che vuole per forza salire su di un aereo come osservatore e mitragliere, per vendicare il bombardamento di una scuola a Parigi (salvo scoprire in fondo che gli "assassini" di cui vuole vendicarsi sono a loro volta appena degli adolescenti), ci mostra, aldilà di una narrazione stereotipa e una soluzione finale stile Il Sergente York (peraltro non ancora giunto al cinema...), quelli che sono gli orrori e le contraddizioni di una guerra, in modo ben diverso dagli eroismi da cartone animato narrati nel romanzo principale.
Straordinarie le lettere, che ci mostrano uno spaccato vivace e critico della gioventù americana dell'epoca, che, fra ingenuità e spropositi, si chiede, con una certa intelligenza, perché tutti i nemici di G-8 e compagnia devono essere o tedeschi (un lettore asserisce che non se ne può più di queste storie sulla guerra mondiale, ormai lontana e che lui non ha vissuto) oppure orientali, asiatici, indiani, cinesi... tutto fuorché anglosassoni.
Il bello della libertà americana è anche questo: scrivere una lettura di questo tenore, critica verso la rivista e la società che rappresenta, ma venire comunque pubblicati e in un certo modo rassicurati, mai contraddetti.
Si tratta del numero di ottobre del 1936 di G-8 and his battle aces, rivista che abbiamo già incontrato qualche tempo fa. La rivista vede un romanzo - relativamente breve per gli standard odierni - dedicato alle avventure dei protagonisti eponimi della testata, dal titolo Skies of Yellow Death, un racconto riempitivo e una corposa rubrica della posta dei lettori (elemento di estremo interesse per comprendere meglio gli umori, gli stimoli, gli entusiasmi dei giovani americani dell'epoca, nella fase finale di una lunga crisi economica e sociale, che sarebbe stato il trampolino verso il secondo conflitto mondiale).
Il romanzo in questione è sostanzialmente deludente, perché perde buona parte del gusto dei combattimenti aerei nei cieli della Francia del 1917/18 - punto di forza della testata - trasformandolo in uno dei tantissimi cloni, in questo caso poco riuscito, della Oriental Menace di gran voga in quel periodo, e alla quale evidentemente non poteva sottrarsi neppure il nostro. Il problema della vicenda - che ruota attorno a un misterioso veleno che elimina con precisione temporale assoluta tutte le sue vittime - è l'accavallarsi di situazioni impossibili da cui G-8 e compagnia emergono sempre sani e salvi, cosa che senz'altro è straordinariamente pulp (e come potrebbe essere altrimenti?), ma stavolta in modo deleterio, perché si sceglie di trascurare l'azione a favore di un mystery di ben scarso livello, con l'affiancamento di un fantomatico assassino cinese (Chu Lung) alle orde di Unni (così vengono chiamati i tedeschi nel pulp) che cercono di impedire alle forze del bene (leggi Francia e alleati) il trionfo finale.
Alla fine più interessante, pur nella sua banalità, il raccontino di riempimento, The police patrol, non firmato (probabilmente quindi dello stesso Robert J.Hogan, autore di G-8), che nella vicenda di un poliziotto militare che vuole per forza salire su di un aereo come osservatore e mitragliere, per vendicare il bombardamento di una scuola a Parigi (salvo scoprire in fondo che gli "assassini" di cui vuole vendicarsi sono a loro volta appena degli adolescenti), ci mostra, aldilà di una narrazione stereotipa e una soluzione finale stile Il Sergente York (peraltro non ancora giunto al cinema...), quelli che sono gli orrori e le contraddizioni di una guerra, in modo ben diverso dagli eroismi da cartone animato narrati nel romanzo principale.
Straordinarie le lettere, che ci mostrano uno spaccato vivace e critico della gioventù americana dell'epoca, che, fra ingenuità e spropositi, si chiede, con una certa intelligenza, perché tutti i nemici di G-8 e compagnia devono essere o tedeschi (un lettore asserisce che non se ne può più di queste storie sulla guerra mondiale, ormai lontana e che lui non ha vissuto) oppure orientali, asiatici, indiani, cinesi... tutto fuorché anglosassoni.
Il bello della libertà americana è anche questo: scrivere una lettura di questo tenore, critica verso la rivista e la società che rappresenta, ma venire comunque pubblicati e in un certo modo rassicurati, mai contraddetti.
mercoledì 15 maggio 2013
I demoni di Leonardo da Vinci
Visto soltanto ieri sera, in notevole ritardo, il pilot della nuova serie televisiva di ambientazione rinascimentale fiorentina, dedicata alle avventure giovanili di Leonardo da Vinci, ideata e diretta da quel David Goyer che alcuni anni or sono ci aveva incuriosito con il suo Flashforward, salvo lasciarci in braghe di tela al termine della prima stagione, per i consueti problemi di audience che tendono ad affossare una buona parte dei progetti più interessanti proposti dal piccolo schermo.
Bene: se effettivamente la conclusione subitanea e senza senso del citato telefilm ci aveva lasciato interdetti e piuttosto dispiaciuti, non proveremmo le stesse sensazioni, ma solo un qual certo sollievo nel vedersi concludere in qualsiasi momento questo polpettone storicamente improbabile (e sotto quel punto di vista totalmente inguardabile) e fondamentalmente deludente, che vanta il nome di Da Vinci's Demons.
Rapidamente trasposto anche qui da noi (con una velocità di traduzione e adattamento capace di battere perfino Il Trono di Spade e Glee e senz'altro meritevole di ben altra qualità complessiva), questo fantasy che di storico ha forse soltanto qualche nome cerca di trasportare lo spettatore "ammerigano" nella Firenze di Lorenzo de'Medici, precisamente nel 1477/78, subito prima della congiura dei Pazzi, in un coacervo di mercatini, vicoli e locande, fra duchi e papi che si trastullano in legami omosessuali (mentre Leonardo, realmente accusato di sodomia, se la spassa con la favorita di Lorenzo), misteriose sette di derivazione mitraica, consumo di tabacco (giunto in Europa solo nel secolo successivo) attraverso variopinti narghilé (invenzione ancora più tarda) su invito del dottor Bashir di Deep Space Nine (ovvero Alexander Siddig - ma dov'era finito), il misterioso "Libro delle lamine", e tutta una serie di commistioni fra realtà (poca) e fantasia (sfrenata), che personalmente mi irritano non poco.
Se ci si lascia alle spalle tutto questo (per me non è possibile farlo a cuor leggero), si osserva un telefilm appena passabile, inferiore a molte altre produzioni contemporanee, che francamente non so se continuerò a guardare (va be', c'è Firenze, ma è una Firenze del tutto fantastica e immaginaria, molto più di quanto non lo sia Approdo del Re, tanto per fare un nome).
Mi chiedo: i cattolici bacchettoni de' no altri si incazzano brutalmente con Rai 4 per aver proposto in prima serata un capolavoro come Il trono di spade e lasciano passare questo, con Sisto IV che si fa un ragazzino di primo pelo in una piscina degna di un sovrano orientale - e non del signore della Chiesa occidentale??
Non ho visto I Borgia, dove immagino abbondino ricostruzioni di tal genere - che beninteso rappresentano senz'altro la decadenza della corte di Pietro, e quindi ben vengano - ma francamente resto basito davanti alla miopia di una maggioranza bigotta e reazionaria che affossa un fantasy come diseducativo e poco realistico, mentre lascia passare queste porcherie (nel senso della qualità del prodotto televisivo, non dell'atto rappresentato). E se si contestano le nudità, meglio le rotondità di Daenerys o Ygrid oppure la flaccida senilità maschile del Duca di Milano e del papa? Credo che la risposta sia univoca, a prescindere da differenze di sesso e di età. Direi che può bastare, per il momento.
Per un parere profondamente dissimile dal mio - ma non per questo frutto di interpretazione errata o di lettura all'acqua di rose, anzi - andate a leggervi un'altra recensione del pilot di questa serie sulle pagine dello splendido blog di Chiara e Lapo, Serie poco serie - frutto di un recensore ospite, che si esprime in maniera molto positiva sui demoni di Leonardo e dintorni.
Bene: se effettivamente la conclusione subitanea e senza senso del citato telefilm ci aveva lasciato interdetti e piuttosto dispiaciuti, non proveremmo le stesse sensazioni, ma solo un qual certo sollievo nel vedersi concludere in qualsiasi momento questo polpettone storicamente improbabile (e sotto quel punto di vista totalmente inguardabile) e fondamentalmente deludente, che vanta il nome di Da Vinci's Demons.
Rapidamente trasposto anche qui da noi (con una velocità di traduzione e adattamento capace di battere perfino Il Trono di Spade e Glee e senz'altro meritevole di ben altra qualità complessiva), questo fantasy che di storico ha forse soltanto qualche nome cerca di trasportare lo spettatore "ammerigano" nella Firenze di Lorenzo de'Medici, precisamente nel 1477/78, subito prima della congiura dei Pazzi, in un coacervo di mercatini, vicoli e locande, fra duchi e papi che si trastullano in legami omosessuali (mentre Leonardo, realmente accusato di sodomia, se la spassa con la favorita di Lorenzo), misteriose sette di derivazione mitraica, consumo di tabacco (giunto in Europa solo nel secolo successivo) attraverso variopinti narghilé (invenzione ancora più tarda) su invito del dottor Bashir di Deep Space Nine (ovvero Alexander Siddig - ma dov'era finito), il misterioso "Libro delle lamine", e tutta una serie di commistioni fra realtà (poca) e fantasia (sfrenata), che personalmente mi irritano non poco.
Se ci si lascia alle spalle tutto questo (per me non è possibile farlo a cuor leggero), si osserva un telefilm appena passabile, inferiore a molte altre produzioni contemporanee, che francamente non so se continuerò a guardare (va be', c'è Firenze, ma è una Firenze del tutto fantastica e immaginaria, molto più di quanto non lo sia Approdo del Re, tanto per fare un nome).
Mi chiedo: i cattolici bacchettoni de' no altri si incazzano brutalmente con Rai 4 per aver proposto in prima serata un capolavoro come Il trono di spade e lasciano passare questo, con Sisto IV che si fa un ragazzino di primo pelo in una piscina degna di un sovrano orientale - e non del signore della Chiesa occidentale??
Non ho visto I Borgia, dove immagino abbondino ricostruzioni di tal genere - che beninteso rappresentano senz'altro la decadenza della corte di Pietro, e quindi ben vengano - ma francamente resto basito davanti alla miopia di una maggioranza bigotta e reazionaria che affossa un fantasy come diseducativo e poco realistico, mentre lascia passare queste porcherie (nel senso della qualità del prodotto televisivo, non dell'atto rappresentato). E se si contestano le nudità, meglio le rotondità di Daenerys o Ygrid oppure la flaccida senilità maschile del Duca di Milano e del papa? Credo che la risposta sia univoca, a prescindere da differenze di sesso e di età. Direi che può bastare, per il momento.
Per un parere profondamente dissimile dal mio - ma non per questo frutto di interpretazione errata o di lettura all'acqua di rose, anzi - andate a leggervi un'altra recensione del pilot di questa serie sulle pagine dello splendido blog di Chiara e Lapo, Serie poco serie - frutto di un recensore ospite, che si esprime in maniera molto positiva sui demoni di Leonardo e dintorni.
mercoledì 8 maggio 2013
Il libro del mese: Sinistre Presenze
E' con estremo piacere che vado a parlare di una antologia nostrana di racconti horror (o per meglio dire, "sinistri", perché al suo interno si trovano anche curiosi intrecci di genere, tipiche della narrativa "weird"), curata da due carissimi amici - e compagni d'avventura nel progetto Mellonta Tauta - Walter Catalano e GianFilippo Pizzo.
Appena uscita per i tipi di Bietti, come la precedente antologia di fantascienza, curata dai medesimi, Ambigue Utopie (Pizzo da solo ha invece curato Notturno alieno, dedicata al noir di fantascienza), la presente raccolta Sinistre Presenze cerca di collegare a tematiche sociali e politiche chiaramente orientate (ma in certi racconti, neppure poi troppo) un genere, l'orrore, solitamente abbastanza distante da una tale classificazione (come sottolinea sagacemente - ma forse rifacendosi troppo soltanto al cinema - Valerio Evangelisti). I curatori stessi, poi, nella prefazione al volume, si impegnano nel divulgare le varie fasi della genesi dell'antologia e delimitarne scopi e intenti, allargatisi anche di molto rispetto all'intento originario.
Il risultato è una splendida raccolta di diciassette racconti e quasi 400 pagine, da leggersi veramente di un fiato, perché la qualità dei racconti e la varietà del ritmo e dei temi lascia filare via le pagine una dietro l'altra con un desiderio di leggere ancora che non provavo da parecchio tempo. Senza dubbio l'orrore, nella sua miriadi di varianti e declinazioni, è il mio genere letterario preferito e quindi partivo per così dire avvantaggiato nella lettura, ma francamente non mi aspettavo di lasciarmi coinvolgere così tanto e da praticamente tutti i racconti (che tra poco sviscererò nel dettaglio - visto che in questa sede non ho certo problemi di convenienza e di spazio).
Lasciando ad altre collocazioni più letterarie una disamina attenta e una discussione su cosa sia l'horror come genere letterario (o cinematografico) - per esempio alla presentazione pubblica della presente antologia sabato 11 maggio alle 14 al Florence Fantastic Festival, o il 23 maggio alle 19 presso il punto Einaudi di Via Guelfa (sarò presente in ambo i casi, quindi venite a discutere del tema!) - mi limito a dire che per me l'horror è un genere che deve smuovere dentro il lettore, deve scuoterlo nelle fondamenta, devo toccargli l'animo, stringergli le viscere. Per questo, secondo me, il racconto horror ideale deve essere breve, se non brevissimo; deve essere una stilettata al costato, capace di infliggerti un dolore improvviso, inatteso, senza essere letale, per lasciarti poi il tempo di riflettere prima della fine. Deve essere selvaggio e indomito come una donna naturalmente bella, non la bellezza bisturata delle riviste patinate, resa tale dalla chirurgia estetica. Voglio dire: per il racconto horror non serve il labor limae oraziano, in altri casi da me immensamente amato. Di un racconto horror apprezzo più di ogni altra cosa l'idea, la sua capacità di toccarmi nel profondo, di solleticare una corda che non sia già stata toccata, oppure, in caso lo sia già stata, che sappia rimandarmi una sensazione di piacevole deja vu. Un racconto horror non deve annoiare, non deve allungare il brodo. Deve lasciare il segno, senza bisogno di fronzoli. Certo, per tornare all'esempio estetico precedente, una donna molto ben rifatta può risultare comunque estramemente gradevole all'occhio e quindi anch'ella piacevole e accattivante. Ma per me resta una seconda scelta in presenza di una bellezza all-natural. E' quello che accade nella presente antologia, che comprende in abbondanza esempi di entrambe le tipologie: alcune saette al cuore capace di inebriarti il cervello al primo sguardo e molte altre frecce dai colori sgargianti, dal piumaggio ridondante, dalle linee programmate a tavolino e testate in galleria del vento per aumentare la loro efficacia. Al termine della lettura la nostra faretra è piena di frecce e la tentazione è quella di tenerle tutte o quasi, perché la loro qualità artigiana è comunque notevole; ma per essere sicuri di colpire qualsiasi bersaglio, alcune sono migliori di altre. Andiamo a cercarle insieme a voi, se volete farci il piacere di accompagnarci nella lettura.
Il volume si apre con "Emocrazia" di Alessandro Vietti, racconto politico su vampiri, diversamente vivi e altro, che ricorda in piccola parte un film poco conosciuto, ma particolarmente divertente, Tramonto (Sundown), film diretto nel 1990 da Anthony Hickox e David Carradine e Bruce Campbell fra gli interpreti.
Segue "Un caso dimenticato della campagna toscana" di Francesco Troccoli, che ci porta invece agli intrighi della DC nel rosso appennino tosco-romagnolo, tra frankenstein e tristi inquisitori.
"L'autostrada dei cani perduti" di Dario Tonani è uno di quei colpi allo stomaco che non ti scordi, piccolo gioiellino, il mio preferito dell'intera antologia.
"Da sotto" di Stefano Roffo ci porta nelle miniere della Slesia, per un interessante divertissement multi-genere, con un'interessante idea (non so dire quanto originale - se del tutto farina del suo sacco complimenti) sulla genesi dell'iconografia tradizionale della Morte.
"Escuela de Mecanica" di Franco Ricciardiello ci porta dalle parti de La notte delle matite spezzate, per un horror realistico e a tratti realmente molto crudo, sulle efferratezze del regime militare argentino a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta (quello del mondiale di calcio "regalato" all'Argentina di Kempes e Passarella e alla disfatta delle Malvinas), accompagnato da una rilettura del golem praghese.
"La melma dell'abisso" di PierFrancesco Prosperi recupera molti dei temi e dei personaggi del gotico tradizionale (Hyde, Jack lo squartatore) ci unisce un pizzico di Rip Van Winkle e ci conduce poi tutti all'Heysel.
"I suoni della morte" di GianFilippo Pizzo recupera invece il tema delle "infermiere della morte" e ci fa fare conoscenza con una certa Angela (nomen omen... il fatto che sia tedesca e che si pronunci Enghela ci fa pensare a un'altro tipo di infermiera della morte... quella del lavoro e della nostra indipendenza, ma lasciamo perdere, siamo fuori tema) e i fantasmi delle sue vittime.
"Come fiori recisi dal turbine" di Michele Piccolino è la seconda saetta che colpisce dritto al cuore: una delicatissima e straziante storia di fantasmi "stradali", un epicedio dolce e commovente, indimenticabile.
"High School Zombie" di Alessandro Morbidelli recupera l'inflazionato tema degli zombie, dandone una variante non priva di un suo fascino perverso.
"Se un angelo ride, un diavolo piange" di Luca Ducceschi è un lungo e schizofrenico (come lui stesso si definisce nelle note biografiche) affresco stile La nona porta, che mescola di tutto e di più, in una specie di avventura gioco-ruolistica fra uomini in nero e congiure vaticane, che alla fine si risolve in modo forse un po' troppo tirato per i capelli (ma il viaggio compiuto nella sua lettura resta divertente).
"Alla testa del paese" di Alessandra Daniele (una delle due donne presenti nell'antologia, troppo poche e una delle pecche più evidenti di una raccolta di racconti altrimenti quasi irreprensibile) pur essendo breve come piace a me, ha il difetto della barzelletta già sentita: il gioco di parole del titolo e il richiamo al finale della Notte dei Morti Viventi (e più in generale all'ideologia romeriana riguardo al potere e a chi veramente lo detiene) è un po' troppo telefonato. Resta comunque ben scritto e con dei momenti splatter.
"Le cripte del non riposo" di Walter Catalano ci trasporta negli orrori del mondo reale e delle cripte del potere, un monito forse un po' troppo didascalico sul sesso e sulla morte, e forma quasi un binomio con il precedente racconto di Ricciardiello, ma resta disperatamente pessimista sull'uomo e la sua malvagità intrinseca, privo della redenzione di una vendetta implacabile, seppur tardiva.
"Chi la bellezza ha visto negli occhi" della coppia Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, tocca nuovamente il tema della sofferenza, della tortura, incastonandolo in un contesto più ampio, con riferimenti storici all'occupazione fascista dell'Istria e alle guerre balcaniche degli anni Novanta, ma focalizzato su di un mondo dentro il mondo che, pur distantissimo in realtà per fini e struttura, mi ha richiamato Lovecraft e i suoi deliri.
"Le sabbie di Satana" di Andrea Carlo Cappi recuperano ancora una volta l'ormai celeberrimo padre Stanislawsky e basta il nome per assicurare il lettore che i minuti trascorsi in compagnia del personaggio non saranno sprecati.
"La porta degli annegati" di Denise Bresci è una cupa storia di fantasmi, legata al tema dell'immigrazione clandestina, delle navi dei disperati, breve e dal finale forse troppo scontato, uno dei racconti meno interessanti dell'antologia.
"Simposio. Italia d'inverno" di Claudio Asciuti è una specie di delirio colto e ipercitazionista, inizialmente indigesto per il curioso modo di scrivere dell'autore (che non usa maiuscole dopo le interpunzioni forti e le limita ai nomi propri), poi via via più godibile, ma decisamente fine a se stesso, un banchetto platonico di luoghi comuni sulla politica del nostro Paese e sul letterato fantastico (o sul cinefilo fantastico, o sull'amante del fumetto... ci si può mettere più o meno chiunque appartenga alla nostra cerchia), che alla fine non effettua alcuna azione maieutica sul lettore e passa via relativamente agile, senza strascichi di riflessione.
"Aceite de Muerto" di Danilo Arona chiude il volume, con il suo negozietto bazaar dell'insolito e l'olio di morto di una martire colombiana.
Terminata la rassegna e la lettura, non posso non consigliare questo volume a tutti gli appassionati di narrativa fantastica fra i miei lettori. Se si allontana per un istante quello sorta di snobbismo al contrario che fa sì che i narratori italiani del fantastico siano una sorta di figli di un dio minore, appartengano a un ghetto periferico che li distanzia dalla "grande" narrativa americana o comunque anglosassone, e ci si immerge in queste letture, ci si accorgerà quasi subito di quanto siano bravi questi scrittori, quanto molteplici siano le loro idee, quanto spesso non siano intaccate e annacquate dalla globalizzazione - anche lessicale - che investe tutto il nostro mondo, quanto possano toccare dentro di ognuno di voi, corde che la massificazione culturale finora non vi aveva dimostrato esistessero. Poi si può discutere lungamente sul risultato "sociale" della presente antologia, se i curatori e gli autori presenti al suo interno abbiano raggiunto lo scopo. Quel che è certo è che la raccolta è notevole, migliore di molte altre contemporanee raccolte straniere costellate di grossi nomi, e che alla fine non ci si pente un istante del tempo trascorso nel leggerla. Spero ne vengano altre. Molte altre.
Appena uscita per i tipi di Bietti, come la precedente antologia di fantascienza, curata dai medesimi, Ambigue Utopie (Pizzo da solo ha invece curato Notturno alieno, dedicata al noir di fantascienza), la presente raccolta Sinistre Presenze cerca di collegare a tematiche sociali e politiche chiaramente orientate (ma in certi racconti, neppure poi troppo) un genere, l'orrore, solitamente abbastanza distante da una tale classificazione (come sottolinea sagacemente - ma forse rifacendosi troppo soltanto al cinema - Valerio Evangelisti). I curatori stessi, poi, nella prefazione al volume, si impegnano nel divulgare le varie fasi della genesi dell'antologia e delimitarne scopi e intenti, allargatisi anche di molto rispetto all'intento originario.
Il risultato è una splendida raccolta di diciassette racconti e quasi 400 pagine, da leggersi veramente di un fiato, perché la qualità dei racconti e la varietà del ritmo e dei temi lascia filare via le pagine una dietro l'altra con un desiderio di leggere ancora che non provavo da parecchio tempo. Senza dubbio l'orrore, nella sua miriadi di varianti e declinazioni, è il mio genere letterario preferito e quindi partivo per così dire avvantaggiato nella lettura, ma francamente non mi aspettavo di lasciarmi coinvolgere così tanto e da praticamente tutti i racconti (che tra poco sviscererò nel dettaglio - visto che in questa sede non ho certo problemi di convenienza e di spazio).
Lasciando ad altre collocazioni più letterarie una disamina attenta e una discussione su cosa sia l'horror come genere letterario (o cinematografico) - per esempio alla presentazione pubblica della presente antologia sabato 11 maggio alle 14 al Florence Fantastic Festival, o il 23 maggio alle 19 presso il punto Einaudi di Via Guelfa (sarò presente in ambo i casi, quindi venite a discutere del tema!) - mi limito a dire che per me l'horror è un genere che deve smuovere dentro il lettore, deve scuoterlo nelle fondamenta, devo toccargli l'animo, stringergli le viscere. Per questo, secondo me, il racconto horror ideale deve essere breve, se non brevissimo; deve essere una stilettata al costato, capace di infliggerti un dolore improvviso, inatteso, senza essere letale, per lasciarti poi il tempo di riflettere prima della fine. Deve essere selvaggio e indomito come una donna naturalmente bella, non la bellezza bisturata delle riviste patinate, resa tale dalla chirurgia estetica. Voglio dire: per il racconto horror non serve il labor limae oraziano, in altri casi da me immensamente amato. Di un racconto horror apprezzo più di ogni altra cosa l'idea, la sua capacità di toccarmi nel profondo, di solleticare una corda che non sia già stata toccata, oppure, in caso lo sia già stata, che sappia rimandarmi una sensazione di piacevole deja vu. Un racconto horror non deve annoiare, non deve allungare il brodo. Deve lasciare il segno, senza bisogno di fronzoli. Certo, per tornare all'esempio estetico precedente, una donna molto ben rifatta può risultare comunque estramemente gradevole all'occhio e quindi anch'ella piacevole e accattivante. Ma per me resta una seconda scelta in presenza di una bellezza all-natural. E' quello che accade nella presente antologia, che comprende in abbondanza esempi di entrambe le tipologie: alcune saette al cuore capace di inebriarti il cervello al primo sguardo e molte altre frecce dai colori sgargianti, dal piumaggio ridondante, dalle linee programmate a tavolino e testate in galleria del vento per aumentare la loro efficacia. Al termine della lettura la nostra faretra è piena di frecce e la tentazione è quella di tenerle tutte o quasi, perché la loro qualità artigiana è comunque notevole; ma per essere sicuri di colpire qualsiasi bersaglio, alcune sono migliori di altre. Andiamo a cercarle insieme a voi, se volete farci il piacere di accompagnarci nella lettura.
Il volume si apre con "Emocrazia" di Alessandro Vietti, racconto politico su vampiri, diversamente vivi e altro, che ricorda in piccola parte un film poco conosciuto, ma particolarmente divertente, Tramonto (Sundown), film diretto nel 1990 da Anthony Hickox e David Carradine e Bruce Campbell fra gli interpreti.
Segue "Un caso dimenticato della campagna toscana" di Francesco Troccoli, che ci porta invece agli intrighi della DC nel rosso appennino tosco-romagnolo, tra frankenstein e tristi inquisitori.
"L'autostrada dei cani perduti" di Dario Tonani è uno di quei colpi allo stomaco che non ti scordi, piccolo gioiellino, il mio preferito dell'intera antologia.
"Da sotto" di Stefano Roffo ci porta nelle miniere della Slesia, per un interessante divertissement multi-genere, con un'interessante idea (non so dire quanto originale - se del tutto farina del suo sacco complimenti) sulla genesi dell'iconografia tradizionale della Morte.
"Escuela de Mecanica" di Franco Ricciardiello ci porta dalle parti de La notte delle matite spezzate, per un horror realistico e a tratti realmente molto crudo, sulle efferratezze del regime militare argentino a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta (quello del mondiale di calcio "regalato" all'Argentina di Kempes e Passarella e alla disfatta delle Malvinas), accompagnato da una rilettura del golem praghese.
"La melma dell'abisso" di PierFrancesco Prosperi recupera molti dei temi e dei personaggi del gotico tradizionale (Hyde, Jack lo squartatore) ci unisce un pizzico di Rip Van Winkle e ci conduce poi tutti all'Heysel.
"I suoni della morte" di GianFilippo Pizzo recupera invece il tema delle "infermiere della morte" e ci fa fare conoscenza con una certa Angela (nomen omen... il fatto che sia tedesca e che si pronunci Enghela ci fa pensare a un'altro tipo di infermiera della morte... quella del lavoro e della nostra indipendenza, ma lasciamo perdere, siamo fuori tema) e i fantasmi delle sue vittime.
"Come fiori recisi dal turbine" di Michele Piccolino è la seconda saetta che colpisce dritto al cuore: una delicatissima e straziante storia di fantasmi "stradali", un epicedio dolce e commovente, indimenticabile.
"High School Zombie" di Alessandro Morbidelli recupera l'inflazionato tema degli zombie, dandone una variante non priva di un suo fascino perverso.
"Se un angelo ride, un diavolo piange" di Luca Ducceschi è un lungo e schizofrenico (come lui stesso si definisce nelle note biografiche) affresco stile La nona porta, che mescola di tutto e di più, in una specie di avventura gioco-ruolistica fra uomini in nero e congiure vaticane, che alla fine si risolve in modo forse un po' troppo tirato per i capelli (ma il viaggio compiuto nella sua lettura resta divertente).
"Alla testa del paese" di Alessandra Daniele (una delle due donne presenti nell'antologia, troppo poche e una delle pecche più evidenti di una raccolta di racconti altrimenti quasi irreprensibile) pur essendo breve come piace a me, ha il difetto della barzelletta già sentita: il gioco di parole del titolo e il richiamo al finale della Notte dei Morti Viventi (e più in generale all'ideologia romeriana riguardo al potere e a chi veramente lo detiene) è un po' troppo telefonato. Resta comunque ben scritto e con dei momenti splatter.
"Le cripte del non riposo" di Walter Catalano ci trasporta negli orrori del mondo reale e delle cripte del potere, un monito forse un po' troppo didascalico sul sesso e sulla morte, e forma quasi un binomio con il precedente racconto di Ricciardiello, ma resta disperatamente pessimista sull'uomo e la sua malvagità intrinseca, privo della redenzione di una vendetta implacabile, seppur tardiva.
"Chi la bellezza ha visto negli occhi" della coppia Stefano Carducci e Alessandro Fambrini, tocca nuovamente il tema della sofferenza, della tortura, incastonandolo in un contesto più ampio, con riferimenti storici all'occupazione fascista dell'Istria e alle guerre balcaniche degli anni Novanta, ma focalizzato su di un mondo dentro il mondo che, pur distantissimo in realtà per fini e struttura, mi ha richiamato Lovecraft e i suoi deliri.
"Le sabbie di Satana" di Andrea Carlo Cappi recuperano ancora una volta l'ormai celeberrimo padre Stanislawsky e basta il nome per assicurare il lettore che i minuti trascorsi in compagnia del personaggio non saranno sprecati.
"La porta degli annegati" di Denise Bresci è una cupa storia di fantasmi, legata al tema dell'immigrazione clandestina, delle navi dei disperati, breve e dal finale forse troppo scontato, uno dei racconti meno interessanti dell'antologia.
"Simposio. Italia d'inverno" di Claudio Asciuti è una specie di delirio colto e ipercitazionista, inizialmente indigesto per il curioso modo di scrivere dell'autore (che non usa maiuscole dopo le interpunzioni forti e le limita ai nomi propri), poi via via più godibile, ma decisamente fine a se stesso, un banchetto platonico di luoghi comuni sulla politica del nostro Paese e sul letterato fantastico (o sul cinefilo fantastico, o sull'amante del fumetto... ci si può mettere più o meno chiunque appartenga alla nostra cerchia), che alla fine non effettua alcuna azione maieutica sul lettore e passa via relativamente agile, senza strascichi di riflessione.
"Aceite de Muerto" di Danilo Arona chiude il volume, con il suo negozietto bazaar dell'insolito e l'olio di morto di una martire colombiana.
Terminata la rassegna e la lettura, non posso non consigliare questo volume a tutti gli appassionati di narrativa fantastica fra i miei lettori. Se si allontana per un istante quello sorta di snobbismo al contrario che fa sì che i narratori italiani del fantastico siano una sorta di figli di un dio minore, appartengano a un ghetto periferico che li distanzia dalla "grande" narrativa americana o comunque anglosassone, e ci si immerge in queste letture, ci si accorgerà quasi subito di quanto siano bravi questi scrittori, quanto molteplici siano le loro idee, quanto spesso non siano intaccate e annacquate dalla globalizzazione - anche lessicale - che investe tutto il nostro mondo, quanto possano toccare dentro di ognuno di voi, corde che la massificazione culturale finora non vi aveva dimostrato esistessero. Poi si può discutere lungamente sul risultato "sociale" della presente antologia, se i curatori e gli autori presenti al suo interno abbiano raggiunto lo scopo. Quel che è certo è che la raccolta è notevole, migliore di molte altre contemporanee raccolte straniere costellate di grossi nomi, e che alla fine non ci si pente un istante del tempo trascorso nel leggerla. Spero ne vengano altre. Molte altre.
sabato 4 maggio 2013
Il gioco della settimana: Cyclades
Dopo un po' di tempo, grazie al prestito del cognato (grazie Sandro!), il nostro gruppo del venerdì (che rischia di diventare del giovedì, per causa di forza maggiore) ha provato un nuovo prodotto che aspettavo di provare da tempo: Cyclades (compreso di espansione Hades, che rende senz'altro più interessante e varia la partita).
Lo possiamo definire un gioco di strategia, dove gran parte della partita si risolve nel modo in cui ci si aggiudica il sostegno divino. Ma muoviamoci con ordine (cosa solitamente poco presente nelle mie recensioni, dato il proliferare delle parentesi e delle divagazioni... d'altre parte già il titolo del blog è un forte monito a riguardo per gli incauti trespassers): su di una mappa composta da un numero piuttosto ridotto di isole, separata da caselle di mare, ciascun giocatore pone due armate e due flotte, e ottiene un reddito monetario pari al numero di cornucopie che controlla (in partenza due per ciascuno, nel corso della partita potenzialmente molte di più, visto che si possono ottenere sia per conquista di altri territori o rotte commerciali - caselle di mare dotate del simbolo cornucopia - che, solitamente, grazie al favore di Apollo, divinità jolly, ultimo rifugio dei disperati - come vedremo subito. Scopo del gioco è essere il primo giocatore a controllare due metropoli alla fine di un ciclo (turno) di gioco. Le metropoli si possono ottenere o quando su di un'isola sono presenti quattro diversi tipi di costruzioni (porti, fortezze, università e templi - si aggiunge il teatro con l'espansione) oppure con quattro filosofi (se ne ottiene almeno uno ogni volta che Atena ci garantisce il favore per quel ciclo); ovviamente, è possibile anche catturare le metropoli altrui con la conquista (ma non fateci troppo conto: non è particolarmente facile).
Il ciclo di gioco di ogni giocatore è basato su quale divinità gli garantisce il sostegno in quel turno: Poseidone garantisce la possibilità di costruire e muovere flotte (e quindi combattere per mare) ecostruire porti, Ares costruire e muovere armate (che si spostano da un'isola a un'altra grazie al "ponte" formato da proprie navi) e quindi combattere per terra, oltre a costruire fortezze, Zeus sacerdoti (ognuno dei quali diminuisce di uno la spesa per l'asta per l'invocazione degli dei), la costruzione di templi e minori spese per invocare creature mitologiche (una sorta di varianti di gioco randomizzate, ognuna delle quali ha uno o più effetti particolari, di solito usa e getta), Atena filosofi e la costruzione di università. Apollo, infine, soltanto soldi e cornucopie.
Dal momento che il controllo di ciascun dio è ottenuto al termine di un'asta dalle regole molto semplici e strategicamente intriganti (in pratica, il primo giocatore sceglie una delle divinità e pone il segnalino sul numero pari alla sua offerta in monete; il secondo può rialzare l'offerta sulla stessa divinità e scalzare l'altro - che subito dove offrire su di un altro dio, mai sul medesimo, sul quale può però tornare in un secondo mometo, se scalzato anche dalla nuova offerta effettuata) oppure sceglierne una libera; su ogni divinità può stare una sola offerta, tranne Apollo che può in teoria ospitare anche tutti i giocatori nello stesso turno (solo il primo ottiene la cornucopia bonus, tutti ottengono i soldi - generalmente una moneta, tranne per i poveracci rimasti con una sola isola che prendono 4 monete). L'asta finisce quando tutti i giocatori hanno collocato la propria offerta e tutti gli dei sono stati aggiudicati.
Giocando con l'espansione, il dio immediatamente sopra Apollo (che è sempre l'ultimo a giocare il turno) riceve anche il bonus dei favori divini, una specie di divinità di serie B, che garantisce bonus intriganti, come denaro extra, oggetti magici e la sacerdotesse (sacrificabili per non pagare il costo del mantenimento degli eroi - altra aggiunta dell'espansione - personaggi interessanti sia dal punto di vista militare, sia se sacrificati per ottenere vantaggi anche molto sostanziosi, che talora possono risolvere la partita).
Sempre l'espansione, aggiunge un altro dio, Hades, a quelli del gioco base, una divinità interessante, che entra in gioco in modo relativamente casuale, sostituendo per quel turno la divinità immediatamente sopra Apollo: il dio degli inferi unisce in sé la caratteristiche militari di Poseidone e Ares, con flotte e soldati non morti, che durano un solo turno, ma a costo ridotto possono garantire la conquista di un'isola.
Queste grosso modo le regole. La nostra partita si è sviluppata in modo inizialmente un po' lento - per i consueti errori di interpretazione e dimenticanze delle regole (scritte abbastanza bene e in realtà molto semplici, ma nelle nostre sedute di gioco noi si tira, per così dire, a far ciccia e ci si butta subito nel gioco, imparando via via per prova ed errore), per poi cominciare a decollare (e a venire interrotta prima di una soluzione finale per limiti temporali e sonno sopraggiunto). Tutto ruota sulle aste: capire come sfruttare il denaro a disposizione (inizialmente poco, poi se ben gestito anche abbastanza) per aggiudicarsi il dio giusto al momento giusto (che nel caso di Poseidone e Ares, per esempio, necessita di avere abbastanza denaro per costruire e muovere il più possibile) è un processo che richiede tempo e, immagino, diverse partite.
Da quanto abbiamo potuto vedere in una sola partita (peraltro non prossima alla conclusione), le strategie di gioco possono essere molteplici e una partita a cinque giocatori può essere piuttosto lunga (perché sembra abbastanza facile impedire a un giocatore in vantaggio di vincere troppo facilmente, tenendo lontano da lui la possibilità di controllare la divinità che può portarlo a vincere).
Insomma, il giudizio è per adesso sospeso, ma sembra che il gioco possa essere parecchio intrigante. Non mi pronuncio sulla rigiocabilità (che sembra discreta, se non notevole), perché alcune creature ed eroi sembrano particolarmente squilibranti (ma una corretta gestione delle risorse - difficile a farsi - può fare in modo di eliminare i problemi). Non certo Wallenstein - che resto il mio strategico preferito in assoluto fra gli Eurogames provati - ma abbastanza interessante. Aspetto approfondimenti del giudizio (e magari il parere di qualche lettore del blog che ha provato il gioco un po' più di noi).
Lo possiamo definire un gioco di strategia, dove gran parte della partita si risolve nel modo in cui ci si aggiudica il sostegno divino. Ma muoviamoci con ordine (cosa solitamente poco presente nelle mie recensioni, dato il proliferare delle parentesi e delle divagazioni... d'altre parte già il titolo del blog è un forte monito a riguardo per gli incauti trespassers): su di una mappa composta da un numero piuttosto ridotto di isole, separata da caselle di mare, ciascun giocatore pone due armate e due flotte, e ottiene un reddito monetario pari al numero di cornucopie che controlla (in partenza due per ciascuno, nel corso della partita potenzialmente molte di più, visto che si possono ottenere sia per conquista di altri territori o rotte commerciali - caselle di mare dotate del simbolo cornucopia - che, solitamente, grazie al favore di Apollo, divinità jolly, ultimo rifugio dei disperati - come vedremo subito. Scopo del gioco è essere il primo giocatore a controllare due metropoli alla fine di un ciclo (turno) di gioco. Le metropoli si possono ottenere o quando su di un'isola sono presenti quattro diversi tipi di costruzioni (porti, fortezze, università e templi - si aggiunge il teatro con l'espansione) oppure con quattro filosofi (se ne ottiene almeno uno ogni volta che Atena ci garantisce il favore per quel ciclo); ovviamente, è possibile anche catturare le metropoli altrui con la conquista (ma non fateci troppo conto: non è particolarmente facile).
Il ciclo di gioco di ogni giocatore è basato su quale divinità gli garantisce il sostegno in quel turno: Poseidone garantisce la possibilità di costruire e muovere flotte (e quindi combattere per mare) ecostruire porti, Ares costruire e muovere armate (che si spostano da un'isola a un'altra grazie al "ponte" formato da proprie navi) e quindi combattere per terra, oltre a costruire fortezze, Zeus sacerdoti (ognuno dei quali diminuisce di uno la spesa per l'asta per l'invocazione degli dei), la costruzione di templi e minori spese per invocare creature mitologiche (una sorta di varianti di gioco randomizzate, ognuna delle quali ha uno o più effetti particolari, di solito usa e getta), Atena filosofi e la costruzione di università. Apollo, infine, soltanto soldi e cornucopie.
Dal momento che il controllo di ciascun dio è ottenuto al termine di un'asta dalle regole molto semplici e strategicamente intriganti (in pratica, il primo giocatore sceglie una delle divinità e pone il segnalino sul numero pari alla sua offerta in monete; il secondo può rialzare l'offerta sulla stessa divinità e scalzare l'altro - che subito dove offrire su di un altro dio, mai sul medesimo, sul quale può però tornare in un secondo mometo, se scalzato anche dalla nuova offerta effettuata) oppure sceglierne una libera; su ogni divinità può stare una sola offerta, tranne Apollo che può in teoria ospitare anche tutti i giocatori nello stesso turno (solo il primo ottiene la cornucopia bonus, tutti ottengono i soldi - generalmente una moneta, tranne per i poveracci rimasti con una sola isola che prendono 4 monete). L'asta finisce quando tutti i giocatori hanno collocato la propria offerta e tutti gli dei sono stati aggiudicati.
Giocando con l'espansione, il dio immediatamente sopra Apollo (che è sempre l'ultimo a giocare il turno) riceve anche il bonus dei favori divini, una specie di divinità di serie B, che garantisce bonus intriganti, come denaro extra, oggetti magici e la sacerdotesse (sacrificabili per non pagare il costo del mantenimento degli eroi - altra aggiunta dell'espansione - personaggi interessanti sia dal punto di vista militare, sia se sacrificati per ottenere vantaggi anche molto sostanziosi, che talora possono risolvere la partita).
Sempre l'espansione, aggiunge un altro dio, Hades, a quelli del gioco base, una divinità interessante, che entra in gioco in modo relativamente casuale, sostituendo per quel turno la divinità immediatamente sopra Apollo: il dio degli inferi unisce in sé la caratteristiche militari di Poseidone e Ares, con flotte e soldati non morti, che durano un solo turno, ma a costo ridotto possono garantire la conquista di un'isola.
Queste grosso modo le regole. La nostra partita si è sviluppata in modo inizialmente un po' lento - per i consueti errori di interpretazione e dimenticanze delle regole (scritte abbastanza bene e in realtà molto semplici, ma nelle nostre sedute di gioco noi si tira, per così dire, a far ciccia e ci si butta subito nel gioco, imparando via via per prova ed errore), per poi cominciare a decollare (e a venire interrotta prima di una soluzione finale per limiti temporali e sonno sopraggiunto). Tutto ruota sulle aste: capire come sfruttare il denaro a disposizione (inizialmente poco, poi se ben gestito anche abbastanza) per aggiudicarsi il dio giusto al momento giusto (che nel caso di Poseidone e Ares, per esempio, necessita di avere abbastanza denaro per costruire e muovere il più possibile) è un processo che richiede tempo e, immagino, diverse partite.
Da quanto abbiamo potuto vedere in una sola partita (peraltro non prossima alla conclusione), le strategie di gioco possono essere molteplici e una partita a cinque giocatori può essere piuttosto lunga (perché sembra abbastanza facile impedire a un giocatore in vantaggio di vincere troppo facilmente, tenendo lontano da lui la possibilità di controllare la divinità che può portarlo a vincere).
Insomma, il giudizio è per adesso sospeso, ma sembra che il gioco possa essere parecchio intrigante. Non mi pronuncio sulla rigiocabilità (che sembra discreta, se non notevole), perché alcune creature ed eroi sembrano particolarmente squilibranti (ma una corretta gestione delle risorse - difficile a farsi - può fare in modo di eliminare i problemi). Non certo Wallenstein - che resto il mio strategico preferito in assoluto fra gli Eurogames provati - ma abbastanza interessante. Aspetto approfondimenti del giudizio (e magari il parere di qualche lettore del blog che ha provato il gioco un po' più di noi).
mercoledì 1 maggio 2013
Un pulp al giorno: Summer Camp for Corpses
Che titolo, eh? Scritto da Arthur Leo Zagat e apparso sul solito numero di giugno/luglio 1939 di Horror Stories, questo lungo racconto non ha solo il titolo come lato positivo. Lo si può considerare un prototipo degli slasher anni Ottanta, per la sua ambientazione in un campeggio estivo lacustre per pargoli di famiglie molto ricche, ed è narrato tutto dal punto di vista dei pochi adulti che controllano gli oltre ottanta fanciulli durante la costosa vacanza.
La trama è presto detta: inquietanti risatine di neonato disturbano la quiete della tarda sera del campeggio, subito dopo iniziano a fioccare le morti e le sparizioni (fioccare è forse eccessivo... diciamo che ci sono - come in ogni slasher che si rispetti - numerosi red herrings). Alternando il punto di vista dei personaggi con una qual certa abilità, Zagat ci porta a un potenziale cataclisma (il ridacchiante demone fosforescente - che poi si rivelarà tutt'altra cosa - vola sopra le teste dei ragazzini radunati per gli incontri di pugilato serali - eh sì, pare che fosse questo un modo di mantenere la disciplina nei campi estivi del periodo... - subito dopo che sono state spente tutte le luci dall'anima nera dietro tutto l'intrigo), che si rivela però solo un intermezzo, prima del finale in cui c'è una minima concessione al lato pruriginoso dello shudder pulp (la minuta ma ben proporzionata Tiny, la rossa educatrice del campo, viene completamente denudata dal maniaco - che in realtà non lo è poi tanto - ma non ci sono dettagli violenti tipici del genere, come abbiamo visto in numerose occasioni) e poi una spiegazione un po' forzata degli eventi, al solito tutt'altro che sovrannaturali.
Ben scritto e ritmato, con un'ottima alternanza delle scene, il racconto è molto cinematografico, e non lento e ultra-aggettivato come molto del materiale che abbiamo letto negli scorsi mesi (dove si sente pesante l'influsso più deleterio dell'imitazione lovecraftiana), e potrebbe essere in effetti stato parzialmente utilizzato dagli sceneggiatori dei vari Venerdì 13 e compagnia.
La trama è presto detta: inquietanti risatine di neonato disturbano la quiete della tarda sera del campeggio, subito dopo iniziano a fioccare le morti e le sparizioni (fioccare è forse eccessivo... diciamo che ci sono - come in ogni slasher che si rispetti - numerosi red herrings). Alternando il punto di vista dei personaggi con una qual certa abilità, Zagat ci porta a un potenziale cataclisma (il ridacchiante demone fosforescente - che poi si rivelarà tutt'altra cosa - vola sopra le teste dei ragazzini radunati per gli incontri di pugilato serali - eh sì, pare che fosse questo un modo di mantenere la disciplina nei campi estivi del periodo... - subito dopo che sono state spente tutte le luci dall'anima nera dietro tutto l'intrigo), che si rivela però solo un intermezzo, prima del finale in cui c'è una minima concessione al lato pruriginoso dello shudder pulp (la minuta ma ben proporzionata Tiny, la rossa educatrice del campo, viene completamente denudata dal maniaco - che in realtà non lo è poi tanto - ma non ci sono dettagli violenti tipici del genere, come abbiamo visto in numerose occasioni) e poi una spiegazione un po' forzata degli eventi, al solito tutt'altro che sovrannaturali.
Ben scritto e ritmato, con un'ottima alternanza delle scene, il racconto è molto cinematografico, e non lento e ultra-aggettivato come molto del materiale che abbiamo letto negli scorsi mesi (dove si sente pesante l'influsso più deleterio dell'imitazione lovecraftiana), e potrebbe essere in effetti stato parzialmente utilizzato dagli sceneggiatori dei vari Venerdì 13 e compagnia.
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