Un disastroso (in tutti i sensi) virus intestinale mi ha costretto a letto qualche giorno e ne ho approfittato per recuperare un po' il tempo perduto quanto a film di fantascienza da vedere.
Se Last Days on Mars - che tra l'altro da noi deve uscire - è un piuttosto modesto filmetto di zombie marziani fatto come se il tempo - dal punto di vista del cinema e degli effetti speciali - si fosse fermato ai telefilm di UFO (per dare due righe di trama, il film racconta di una missione spaziale su Marte che scopre la vita sotto forma di un terribile microbo che infetta via via gli scienziati della base e li elimina uno dopo l'altro in stile La Cosa o qualsiasi altro film simile ci sia stato prima e dopo) e non ci si rendesse conto che forse un racconto di dieci pagine - se non ci si aggiunge qualcosa - non può servire come struttura complessiva di un film di 90', risultando in uno spreco di cast e tempo dello spettatore, ben altra cosa si può dire di Star Trek: into Darkness, secondo capitolo del reboot della serie dell'Enterprise classica, con i "giovani" cloni degli eroi di una volta, firmato dall'irriverenza iconoclasta di J.J.Abrams, e attraversato di nostalgia del passato e impeti giovanilistici, che lo rendono, a mio parere, più che godibile anche dai fan talebani dell'originale.
La rilettura del "mito" di Khan - impersonato alla grande da "Holmes" Cumberbatch - è interessante, ma poteva essere sfruttata un po' meglio. Che l'attore poi rubi la scena alla grande a tutto il resto del cast è altrettanto evidente, e non necessariamente un male. Se alcune cose hanno lasciato francamente interdetto anche me (che non mi considero un talebano - se non per il fatto che Spock è e sarà sempre e solo Leonard Nimoy, e il 2.0 sarà appunto un 2.0 (o meglio, a mio giudizio, uno 0.2) come quasi ogni altro "clone" scelto per impersonare l'originale), il complesso del film è gradevole, alcune caratterizzazioni molto somiglianti all'originale (Urban e Pegg come Bones McCoy e Scotty su tutti quanti; perfino Pine come Kirk non è molto peggio dell'originale, e senz'altro attore migliore) e non vedo francamente l'ora di vedere se avremo altre "riletture" moderne di un vecchio mito per tutte le generazioni.
martedì 26 novembre 2013
venerdì 22 novembre 2013
Falsi Dei
Il post di oggi ospita la recensione di GianFilippo Pizzo di un interessante romanzo di fantascienza nostrana, Falsi Dei del prolifico ed eclettico Francesco Troccoli, nome ormai affermato nel panorama fantastico italiano. Eccola qua:
Francesco Troccoli, Falsi
dei, Curcio 2013, 320 p., € 15,90
Volendo estrarre da questo romanzo una frase che lo
rappresentasse, ci sembra indicata questa: "umanamente alieno".
Perché in questo libro tutto è estraneo, dalla dimensione temporale situata
migliaia di anni oltre il nostro futuro ai corpi celesti dalla caratteristiche
inusuali, dalla antropologia degli esseri viventi ai macchinari
ipertecnologici, dalla psicologia di certi personaggi alla stessa struttura
sociopolitica. Persino gli appassionati di fantascienza di vecchia data troveranno
concetti se non proprio originali almeno rivisti con passione e moderna
consapevolezza: l'anomalia spaziotemporale, i longevi, i privi di sonno (e
dunque di sogni), la gestalt tra
menti eccetera. Eppure, al contempo, tutto è profondamente umano: la gerarchia
militare che rispecchia la situazione politica, i sentimenti (buoni e cattivi)
delle persone e le loro pulsioni, la preponderanza del potere economico...
tutto perfettamente riconoscibile anche se ambientato in un altro tempo e in un
altro spazio.
Non sappiamo se l'autore lo giudicherà un complimento, ma a
noi questo romanzo ha ricordato un grande scrittore di SF americano, Alfred E.
Van Vogt, sia per gli improvvisi colpi di scena che sembrano rivoluzionare la
trama - ma in questo caso sono per lo più cambiamenti di prospettiva - sia per il
numero e la grandiosità dei concetti messi in campo, dai viaggi interplanetari
alla riscoperta del pianeta Terra come culla della civiltà fino ai vari
dualismi che entrano nel background della storia: normali/longevi, mente
individuale/mente collettiva, dormienti/insonni, tecnologia/barbarie (o
presunta tale), ricchezza/povertà. E se
manca, quanto mai opportunamente per i nostri tempi, la dicotomia uomo/donna
(nell'universo di Troccoli i due sessi sono alla pari) è invece presente il
rapporto padre/figlio, perché l'autore non scrive ai tempi di Van Vogt ma ai giorni nostri e condisce l'avventura
con riflessioni non banali, spaziando dall'economia alla filosofia e
privilegiando l'introspezione e la caratterizzazione dei personaggi.
Il romanzo continua le avventure di Tobruk Ramarren,
l'avventuriero che già avevamo apprezzato nel precedente Ferro sette (Curcio 2012), questa volta inviato in missione
diplomatica su un lontano pianeta che rivelerà un forte sorpresa, missione
complicata da ammutinamenti, da nanovirus, dal comportamento delle popolazioni
locali, da tradimenti vari. Una trama ricca d'azione che però non è fine a se
stessa ma accompagna il lettore alla scoperta di situazioni straordinarie, con
qualche spunto di riflessione. Un romanzo che forse non è un capolavoro ma si
legge volentieri e, pur con qualche lungaggine in alcuni momenti, scorre dall'inizio alla fine.
Gian Filippo Pizzo
sabato 9 novembre 2013
Un pulp al giorno: The Army without a Country
E dopo una lunga pausa - dovuta alla mancanza di nuovo materiale in proofreading - ecco tornare la nostra rubrica preferita, con un romanzo della serie Operator 5, già vista in passato su queste pagine. Si tratta del numero 35 del settembre-ottobre 1937, e si intitola The Army without a country. Facente parte del Purple Empire, è un romanzo breve che contiene in sé tutta l'essenza del pulp eroico di quegli anni, anticipatori di stilemi che al cinema - e non solo - resistono ancor oggi, pieno di tutti i pregi (pochi) e difetti (a ben guardare moltissimi) insiti in questo tipo di narrativa popolare.
La trama è data da un continuo affastellarsi di situazioni, improbabili ma coinvolgenti, che vedono il nostro eroe passare dalla padella in varie braci, prima di consumare la sua vendetta - almeno in parte - contro il malvagissimo imperatore Rudolph I, il sovrano euroasiatico che con le sue infinite schiere di "orchetti" di Moria (ci sono molte similitudini) ha conquistato e messo a ferro e fuoco gli Stati Uniti, la cui ultima speranza verge su di un massiccio contrattacco sul Continental Divide, ovvero le Montagne Rocciose, e sulla riconquista della città simbolo di questa estrema linea difensiva, Denver. A prezzi spaventosi in termine di vite umane, gli Americani riusciranno non solo a respingere gli assalitori, ma perfino a catturarne il sovrano (nell'episodio di cui avevamo parlato mesi fa, il sovrano era prigioniero di Operator 5, ma ciononostante i pericoli per i "buoni" erano tutt'altro che finiti).
Aldilà della trama - in confronto alla quale, Red Dawn di Milius è un capolavoro di realismo (e parlo di trama, non del film in sé, che possiede comunque i suoi pregi, vista la qualità del regista) - il romanzo è interessante sotto numerosi punti di vista: la perfidia del nemico raggiunge estremi disumani (come il crocifiggere tutti i primogeniti degli Americani rimasti nella città occupata di Denver, per impedire alle truppe americane di assalire la città, oppure utilizzare altri prigionieri in posizione siffatta - evidentemente Rudolph I doveva essere un estimatore di Roma antica - come bersaglio d'addestramento per le truppe purpuree), che saranno però grandemente superati dalla realtà nazista (nonostante sia evidentemente questo il modello di riferimento per Tepperman, l'autore di questo testo; se è vero infatti che non era ancora iniziato il secondo conflitto mondiale, già da mesi imperversava la guerra civile in Spagna, dove le truppe tedesche si erano già messe in luce). La cosa "bella" di questo tipo di narrativa popolare impregnata di eroismo patriota è anche la facilità con cui si eliminano i personaggi secondari, dando però loro occasione di andarsene in a "blaze of glory", più alla Gemmell che alla Martin, per citare due autori fantasy che molti dei lettori di queste pagine conoscono molto bene. In questo caso, la missione suicida di un aereo disarmato contro le truppe che sparano alla schiena degli uomini e delle donne crocifissi, vale da sola il "prezzo del biglietto".
Insomma, pur nella pochezza complessiva dell'opera in senso più alto, la saga di Operator 5 e specialmente questo ciclo interno dedicato alla guerra contro l'Impero Purpureo merita almeno un'occhiata scevra di pregiudizio.
La trama è data da un continuo affastellarsi di situazioni, improbabili ma coinvolgenti, che vedono il nostro eroe passare dalla padella in varie braci, prima di consumare la sua vendetta - almeno in parte - contro il malvagissimo imperatore Rudolph I, il sovrano euroasiatico che con le sue infinite schiere di "orchetti" di Moria (ci sono molte similitudini) ha conquistato e messo a ferro e fuoco gli Stati Uniti, la cui ultima speranza verge su di un massiccio contrattacco sul Continental Divide, ovvero le Montagne Rocciose, e sulla riconquista della città simbolo di questa estrema linea difensiva, Denver. A prezzi spaventosi in termine di vite umane, gli Americani riusciranno non solo a respingere gli assalitori, ma perfino a catturarne il sovrano (nell'episodio di cui avevamo parlato mesi fa, il sovrano era prigioniero di Operator 5, ma ciononostante i pericoli per i "buoni" erano tutt'altro che finiti).
Aldilà della trama - in confronto alla quale, Red Dawn di Milius è un capolavoro di realismo (e parlo di trama, non del film in sé, che possiede comunque i suoi pregi, vista la qualità del regista) - il romanzo è interessante sotto numerosi punti di vista: la perfidia del nemico raggiunge estremi disumani (come il crocifiggere tutti i primogeniti degli Americani rimasti nella città occupata di Denver, per impedire alle truppe americane di assalire la città, oppure utilizzare altri prigionieri in posizione siffatta - evidentemente Rudolph I doveva essere un estimatore di Roma antica - come bersaglio d'addestramento per le truppe purpuree), che saranno però grandemente superati dalla realtà nazista (nonostante sia evidentemente questo il modello di riferimento per Tepperman, l'autore di questo testo; se è vero infatti che non era ancora iniziato il secondo conflitto mondiale, già da mesi imperversava la guerra civile in Spagna, dove le truppe tedesche si erano già messe in luce). La cosa "bella" di questo tipo di narrativa popolare impregnata di eroismo patriota è anche la facilità con cui si eliminano i personaggi secondari, dando però loro occasione di andarsene in a "blaze of glory", più alla Gemmell che alla Martin, per citare due autori fantasy che molti dei lettori di queste pagine conoscono molto bene. In questo caso, la missione suicida di un aereo disarmato contro le truppe che sparano alla schiena degli uomini e delle donne crocifissi, vale da sola il "prezzo del biglietto".
Insomma, pur nella pochezza complessiva dell'opera in senso più alto, la saga di Operator 5 e specialmente questo ciclo interno dedicato alla guerra contro l'Impero Purpureo merita almeno un'occhiata scevra di pregiudizio.
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