Abbiamo finalmente ripreso il nostro incontro settimanale del venerdì dedicato ai giochi da tavolo, ed ecco spuntare dal nulla un "curioso" prodotto di origine ceca, Last Will, la cui alta valutazione su Boardgamegeek ha francamente lasciato perplesso i più del mio gruppo.
Ma andiamo con ordine: l'idea alla base è quella del vecchio film anni Ottanta "Chi più spende più guadagna", ovvero liberarsi il prima possibile di tutti i propri averi, per guadagnarsi la ricchissima eredità dell'eccentrico zio. Per far questo, i giocatori si muovono all'interno di un tabellone piuttosto variegato, per aggiudicarsi un certo numero di carte (che rappresentano i vari tipi di spesa che puoi fare per spendere il tuo budget) e cercare di andare in bancarotta prima degli altri.
In sostanza, si tratta di un gioco di carte, che usa un tabellone per controllare quali carte vengono giocate e in che modo.
Allora, la prima azione del turno, è sistemare un proprio segnalino sulla plancia che indica l'ordine di gioco, il numero di carte da pescare, le azioni che puoi provare a fare sulla plancia generale, e le azioni che puoi fare sulla tua plancia di gioco (fondamentale, perché è praticamente solo sulla tua plancia che giochi le carte che ti fanno spendere).
Già questa prima scelta, offre un certo numero di possibilità, ma sfavorisce molto chi gioca più indietro nel turno (in quanto, in una partita a cinque giocatori, l'ultimo a scegliere, solitamente si trova costretto a scelte forzate, e visto che i turni massimi sono sette, chi inizia la partita per primo e quello immediatamente alla sua sinistra hanno una chance in più degli altri di scegliere con più opzioni... non mi sembra molto equo - nonostante poi la nostra partita sia stata vinta da chi giocava come quarto al primo turno, e quindi abbia goduto di un solo turno di prima scelta). In questa prima fase del turno, il giocatore deve decidere cosa privilegiare: se il numero di carte da pescare (la merce da vendere, in pratica), se le azioni sulla plancia (che ti consentono principalmente di variare i differenziali del mercato immobiliare - altro elemento portante per la strategia di gara - e di prendere alcune carte non pescandole a caso dai mazzi ma vedendole direttamente sulla plancia), o il numero di azioni (ovvero carte da giocare e soldi da pagare). Determina anche chi agisce prima nel turno (che può essere importante in qualche occasione, ma non mi sembra così fondamentale - lo è più, secondo me, essere il primo a poter scegliere.
Come detto, il mercato immobiliare gioca un ruolo importante, perché tra le varie carte che si possono pescare (e generalmente si parte con almeno una all'inizio del gioco) ci sono varie proprietà, che si possono acquistare spendendo subito parecchi soldi (di solito da 3 a 5 volte quanto si spende con una carta normale) e poi mantenere (a costi potenzialmente incrementati). La fregatura sta nel fatto che poi bisogna rivendere la proprietà acquistata (auspicabilmente a prezzo ribassato - fino alla metà per poche carte, di solito ci si deve accontentare di un terzo o anche meno) e quindi riprendere un po' di soldi. Ma non si può andare in bancarotta se si hanno proprietà in gioco, quindi il loro utilizzo (come quasi tutto il resto nella partita) deve essere valutato con il bilancino. Considerato il numero di errori piuttosto ampio che abbiamo compiuto (il gioco è relativamente semplice, ma non spiegato benissimo e la mancata conoscenza delle carte e delle loro funzioni precise ha rallentato e alla fine fortemente compromesso la nostra partita), la durata del gioco ci è parsa un tantino eccessiva (ben oltre i 60 minuti previsti sulla scatola) e il divertimento altrettanto moderato (è vero che su questo ha influito una qual certa antipatia d'istinto per il gioco da parte di buona parte dei presenti, senza nessun motivo particolare). Le strategie mi sembrano particolarmente prevedibili e legate a come agire al meglio nelle mosse che ti consentono le scelte più favorevoli e limitare i danni quando sei costretto a prendere quello che resta; d'altro canto, il gioco sembra abbastanza equilibrato (siamo falliti in quattro nello stesso turno di gioco, con il vincitore che ha goduto di un moderato vantaggio in punti sugli altri, a parte uno di noi che ha completamente fallito l'azzardo proprietà e non è riuscito a fallire) e probabilmente, se giocato con più entusiasmo e raziocinio, può anche essere divertente. Ma come nel caso di altri giochi molto ben valutati (leggi Bohnanza, che abbiamo cassato dopo un paio di mani, e Tikal, che non abbiamo neppure provato una volta lette le regole), le peculiarità del nostro gruppo lo rendono tale da essere del tutto mal digeribile dai nostri stomaci, e quindi difficilmente rigiocato
sabato 18 gennaio 2014
martedì 14 gennaio 2014
Un pulp al giorno: Tea Leaves
Torna una delle rubriche cui tengo di più sul mio blog e lo fa con un curioso racconto fantasy molto delicato, opera di un autore non particolarmente noto in Italia, il reverendo Henry S.Whitehead, scomparso nel 1932.
Si tratta del suo primo racconto pubblicato sulle pagine di Weird Tales, per la precisione sul numero del maggio 1924, dove ebbe l'onore di trovarsi fianco a fianco con il suo mentore, H.P.Lovecraft - che qui compariva con un racconto invero minore, "Imprigionato con i faraoni", ghost written per il celeberrimo Harry Houdini.
Se la maggior parte dei racconti successivi della produzione fantastica di Whitehead (che molto di rado, nella sua breve esperienza letteraria, presto troncata dalla prematura morte, si cimentò in generi diversi dal fantastico) sono incentrati sull'ambientazione caraibica e sui misteri magici legati alla religione vudù e ad altre possibili avventure esotiche (il suo personaggio di punta, Gerald Canevin, suo stesso alter-ego, è narratore di una quindicina di storie in gran parte ambientate nei Caraibi, isole in cui lo stesso Whitehead soggiornò a lungo), per questo suo esordio letterario sulla più celebre rivista pulp della storia del fantastico, lo scrittore statunitense sceglie un curioso racconto, Tea Leaves, appunto, che ci narra le vicende di una "bruttina stagionata", una maestrina di paese ormai vicina ai quaranta anni, rassegnatamente zitella che con una botta di vita si regala una crociera in Europa. Appassionata lettrice dei presagi delle foglie del té, durante la navigazione interpreta una lettura come qualcosa che le porterà l'amore. Durante l'ultima tappa della crociera, in uno strano negozio londinese, la donna trova una collana di pietre rosate che nel tempo scoprirà essere appartenuta nientemeno che alla regina Elisabetta (la prima ovviamente); oltre alla ricchezza troverà anche l'amore, sotto forma di un gioielliere coetaneo.
La particolarità del racconto - dal punto di vista della trama piuttosto deludente e appena velato di fantastico (il luogo dove acquista la collana sembra uscito da un fumetto di Dylan Dog e il suo indirizzo è quello nascosto nel presagio delle foglie del té) - è la leggerezza con cui Whitehead maneggia la vicenda e la sua protagonista femminile (molto rara nel resto della sua opera).
Di Whitehead torneremo a parlare molto presto e, se ci seguite anche nelle nostre escursioni librarie, dopo Weinbaum e l'imminente volume sui western howardiani, andremo ad affrontare la narrativa più orrorifica dello scrittore americano.
Si tratta del suo primo racconto pubblicato sulle pagine di Weird Tales, per la precisione sul numero del maggio 1924, dove ebbe l'onore di trovarsi fianco a fianco con il suo mentore, H.P.Lovecraft - che qui compariva con un racconto invero minore, "Imprigionato con i faraoni", ghost written per il celeberrimo Harry Houdini.
Se la maggior parte dei racconti successivi della produzione fantastica di Whitehead (che molto di rado, nella sua breve esperienza letteraria, presto troncata dalla prematura morte, si cimentò in generi diversi dal fantastico) sono incentrati sull'ambientazione caraibica e sui misteri magici legati alla religione vudù e ad altre possibili avventure esotiche (il suo personaggio di punta, Gerald Canevin, suo stesso alter-ego, è narratore di una quindicina di storie in gran parte ambientate nei Caraibi, isole in cui lo stesso Whitehead soggiornò a lungo), per questo suo esordio letterario sulla più celebre rivista pulp della storia del fantastico, lo scrittore statunitense sceglie un curioso racconto, Tea Leaves, appunto, che ci narra le vicende di una "bruttina stagionata", una maestrina di paese ormai vicina ai quaranta anni, rassegnatamente zitella che con una botta di vita si regala una crociera in Europa. Appassionata lettrice dei presagi delle foglie del té, durante la navigazione interpreta una lettura come qualcosa che le porterà l'amore. Durante l'ultima tappa della crociera, in uno strano negozio londinese, la donna trova una collana di pietre rosate che nel tempo scoprirà essere appartenuta nientemeno che alla regina Elisabetta (la prima ovviamente); oltre alla ricchezza troverà anche l'amore, sotto forma di un gioielliere coetaneo.
La particolarità del racconto - dal punto di vista della trama piuttosto deludente e appena velato di fantastico (il luogo dove acquista la collana sembra uscito da un fumetto di Dylan Dog e il suo indirizzo è quello nascosto nel presagio delle foglie del té) - è la leggerezza con cui Whitehead maneggia la vicenda e la sua protagonista femminile (molto rara nel resto della sua opera).
Di Whitehead torneremo a parlare molto presto e, se ci seguite anche nelle nostre escursioni librarie, dopo Weinbaum e l'imminente volume sui western howardiani, andremo ad affrontare la narrativa più orrorifica dello scrittore americano.
giovedì 9 gennaio 2014
Le ruote dentate del calendario maya: prima impressione su Tzolk'in
Il nostro procacciatore di giochi preferito è tornato con la calza della befana carica di un nuovo titolo, dall'aspetto accattivante, che poi si è rivelato "non male" anche come esperienza di gioco.
Si tratta di Tz'olkin, l'ennesimo gioco che si muove sulla scia di Caylus, Village, Agricola e simili, ma con un meccanismo decisamente particolare, che si evince subito dall'assemblaggio del tabellone. E si tratta di un'operazione quasi ingegneristica per chi, come il sottoscritto, è assolutamente negato per le attività fai-da-te: il tabellone infatti comprende una grossa ruota dentata centrale - il calendario maya del titolo - che mette in movimento, come ingranaggi di un meccanismo complesso, altre cinque ruote più piccole, che rappresentano il fulcro del gioco.
Ognuno dei giocatori - fino a quattro - ha come scopo quello di ottenere più punti vittoria degli avversari, attraverso i soliti, numerosi, meccanismi: in questo caso, si fanno punti principalmente attraverso il progresso nei templi delle tre divinità del gioco (con un meccanismo molto simile a Terra Nova), la costruzione di edifici e, soprattutto, monumenti, l'avanzamento delle proprie pedine sulla "ruota" dedicata alle attività religiose, grazie all'uso dei teschi di cristallo (ci sono anche quelli, non manca nulla!), etc. etc.
Come nella maggior parte dei giochi di questo tipo, il giocatore deve accumulare vari tipi di risorsa (principalmente mais, che oltre che a funzioni di sostentamento - fondamentali quando si tratta di cibare i lavoratori, o si rischia di pagare mostruose penalità in termini di punti vittoria negativi - può essere usato come utilissima moneta di scambio in numerose altre funzioni), per cercare di ottenerne altri e arrivare a quelle che ti portano alla vittoria. Ma la caratteristica che lo rende particolare è appunto la presenza del sistema di ingranaggi che serve da tabella dei turni (con quattro turni fondamentali visto che vi si ottengono punti vittoria parziali, risorse aggiuntive, e si paga il mais per nutrire la massa operaia) e da generatore delle azioni che ogni giocatore può effettuare nel suo turno.
A ogni turno, infatti, il giocatore deve scegliere se collocare i propri operai sulle ruote dentate (ognuna delle quali ha una funzione e dei costi diversi; si parte sempre dalla casella libera più bassa) oppure recuperarli ed effettuare l'azione correlata alla posizione raggiunta dall'operaio in base al movimento della ruota.
Questo sistema è il motore della partita e il suo uso consapevole porta alla vittoria. L'interazione con gli altri è, come di consueto, piuttosto limitata, ma ci sono degli artifici tecnici che possono portare a brutte sorprese nella pianificazione delle mosse successive.
Ci sono troppe cose per poterle spiegare tutte in breve e correrei solo il rischio di annegare il lettore in una marea di dati sterili. Basta dire, però, che il sistema scorre fluido e dopo una sola lettura delle regole siamo stati in grado di completare una partita a ranghi completi in circa 90 minuti (rispettando quindi fin da subito i tempi di gioco indicati dalla scatola - che di solito toppano alla grande per difetto). Abbiamo sicuramente compiuto qualche errore (inevitabile, vista la particolarità del meccanismo e la massa delle regole, non tanto la sua complessità, che definirei media) e un paio di interpretazioni di regole hanno dato adito ad accesi (e al momento irrisolti) dibattiti, ma nel complesso la partita è filata via liscia ed è stata godibile.
Che altro dire? Riproveremo sicuramente il gioco a breve, per cercare di confermare la buona impressione iniziale, anche se credo che, come molti dei giochi sopra citati, la sua rigiocabilità sia relativamente limitata (parlo nel lungo periodo) e che si finisca per ripetere grosso modo le stesse strategie, con l'unica differenziazione data quindi dalla scelta delle risorse iniziali o dai monumenti da costruire (entrambe dovute inizialmente all'alea del caso). Ma spero di sbagliarmi
Si tratta di Tz'olkin, l'ennesimo gioco che si muove sulla scia di Caylus, Village, Agricola e simili, ma con un meccanismo decisamente particolare, che si evince subito dall'assemblaggio del tabellone. E si tratta di un'operazione quasi ingegneristica per chi, come il sottoscritto, è assolutamente negato per le attività fai-da-te: il tabellone infatti comprende una grossa ruota dentata centrale - il calendario maya del titolo - che mette in movimento, come ingranaggi di un meccanismo complesso, altre cinque ruote più piccole, che rappresentano il fulcro del gioco.
Ognuno dei giocatori - fino a quattro - ha come scopo quello di ottenere più punti vittoria degli avversari, attraverso i soliti, numerosi, meccanismi: in questo caso, si fanno punti principalmente attraverso il progresso nei templi delle tre divinità del gioco (con un meccanismo molto simile a Terra Nova), la costruzione di edifici e, soprattutto, monumenti, l'avanzamento delle proprie pedine sulla "ruota" dedicata alle attività religiose, grazie all'uso dei teschi di cristallo (ci sono anche quelli, non manca nulla!), etc. etc.
Come nella maggior parte dei giochi di questo tipo, il giocatore deve accumulare vari tipi di risorsa (principalmente mais, che oltre che a funzioni di sostentamento - fondamentali quando si tratta di cibare i lavoratori, o si rischia di pagare mostruose penalità in termini di punti vittoria negativi - può essere usato come utilissima moneta di scambio in numerose altre funzioni), per cercare di ottenerne altri e arrivare a quelle che ti portano alla vittoria. Ma la caratteristica che lo rende particolare è appunto la presenza del sistema di ingranaggi che serve da tabella dei turni (con quattro turni fondamentali visto che vi si ottengono punti vittoria parziali, risorse aggiuntive, e si paga il mais per nutrire la massa operaia) e da generatore delle azioni che ogni giocatore può effettuare nel suo turno.
A ogni turno, infatti, il giocatore deve scegliere se collocare i propri operai sulle ruote dentate (ognuna delle quali ha una funzione e dei costi diversi; si parte sempre dalla casella libera più bassa) oppure recuperarli ed effettuare l'azione correlata alla posizione raggiunta dall'operaio in base al movimento della ruota.
Questo sistema è il motore della partita e il suo uso consapevole porta alla vittoria. L'interazione con gli altri è, come di consueto, piuttosto limitata, ma ci sono degli artifici tecnici che possono portare a brutte sorprese nella pianificazione delle mosse successive.
Ci sono troppe cose per poterle spiegare tutte in breve e correrei solo il rischio di annegare il lettore in una marea di dati sterili. Basta dire, però, che il sistema scorre fluido e dopo una sola lettura delle regole siamo stati in grado di completare una partita a ranghi completi in circa 90 minuti (rispettando quindi fin da subito i tempi di gioco indicati dalla scatola - che di solito toppano alla grande per difetto). Abbiamo sicuramente compiuto qualche errore (inevitabile, vista la particolarità del meccanismo e la massa delle regole, non tanto la sua complessità, che definirei media) e un paio di interpretazioni di regole hanno dato adito ad accesi (e al momento irrisolti) dibattiti, ma nel complesso la partita è filata via liscia ed è stata godibile.
Che altro dire? Riproveremo sicuramente il gioco a breve, per cercare di confermare la buona impressione iniziale, anche se credo che, come molti dei giochi sopra citati, la sua rigiocabilità sia relativamente limitata (parlo nel lungo periodo) e che si finisca per ripetere grosso modo le stesse strategie, con l'unica differenziazione data quindi dalla scelta delle risorse iniziali o dai monumenti da costruire (entrambe dovute inizialmente all'alea del caso). Ma spero di sbagliarmi
sabato 4 gennaio 2014
Il ritorno del figliol prodigo: "Sherlock" terza serie
Ci era mancato. Nonostante "Elementary" non sia da buttare e si lasci guardare con piacere, lo "Sherlock" targato BBC e Benedict Cumberbatch è decisamente di un altro livello e il suo ritorno sugli schermi in questo periodo festivo era l'evento più atteso (prima della quarta stagione di Game of Thrones, ovviamente) per i "malati" di telefilm di gusto raffinato (ma anche no).
E la prima puntata della terza stagione non ha lesinato piacevolezze assortite ai fan dell'investigatore di Baker Street, regalandoci emozioni e divertimento, in un profluvio speziato di citazioni, rimandi, riferimenti interni, battute, smorfie (dell'impagabile Watson), duelli familiari (questi Mycroft/Sherlock sono anni luce superiori nel loro scontrarsi in punta di fioretto ai "poveri" - se confrontati - protagonisti di Elementary), accompagnato da una tecnica di elaborazioni immagini, fatta di sapienti rallentamenti e accelerazioni dei frames, che cattura lo spettatore, lo adagia in un brodo di giuggiole dal primo all'ultimo istante della - lunga - puntata, e lo accompagna soddisfatto alla conclusione, avido di altro nettare - consapevole che anche in questa occasione le puntate saranno soltanto tre, ma tutte da assaporare fino all'ultima stilla.
Deliziosa anche l'idea del club del "carro funebre vuoto" - fondato da chi non crede che Sherlock sia veramente morto -e deliranti e spesso trasgressive le spiegazioni del come si sia salvato dal tuffo dal tetto del palazzo che chiudeva la precedente stagione, al termine dello scontro con Moriarty.
Insomma, devo dirmi completamente soddisfatto dall'inizio della terza serie, e non vedo l'ora di goderne il resto (per breve che possa essere). The game is afoot!
E la prima puntata della terza stagione non ha lesinato piacevolezze assortite ai fan dell'investigatore di Baker Street, regalandoci emozioni e divertimento, in un profluvio speziato di citazioni, rimandi, riferimenti interni, battute, smorfie (dell'impagabile Watson), duelli familiari (questi Mycroft/Sherlock sono anni luce superiori nel loro scontrarsi in punta di fioretto ai "poveri" - se confrontati - protagonisti di Elementary), accompagnato da una tecnica di elaborazioni immagini, fatta di sapienti rallentamenti e accelerazioni dei frames, che cattura lo spettatore, lo adagia in un brodo di giuggiole dal primo all'ultimo istante della - lunga - puntata, e lo accompagna soddisfatto alla conclusione, avido di altro nettare - consapevole che anche in questa occasione le puntate saranno soltanto tre, ma tutte da assaporare fino all'ultima stilla.
Da qui alla conclusione del post ci saranno parecchi SPOILER, quindi OCCHIO!
Che la vicenda narrata nell'episodio sia in definitava assolutamente marginale (il rifacimento dell'attentato di Guy Fawkes attraverso una carrozza della metropolitana carica di esplosivo) conta il giusto. L'intero episodio è giocato sulle emozioni dei protagonisti, sull'umorismo sottile che lo permea per intero, sull'irresistibile sfacciataggine del protagonista, sul suo giganteggiare in un mondo meschino - se a lui confrontato; assolutamente memorabile, in questa prospettiva, lo scambio di battute con Mycroft, sull'impossibilità di quest'ultimo di trovare un minimo di compagnia nel genere umano tutto, quando perfino lo straordinario fratello Sherlock gli risulta inferiore, e il tentativo di Sherlock di "capire" - e ci riesce molto meglio di quanto non voglia far credere - le anime di passaggio che affollano il mondo, rendendolo comunque degno di essere affrontato, in attesa di una nuova sfida, in cerca di avversari degni di Moriarty.Deliziosa anche l'idea del club del "carro funebre vuoto" - fondato da chi non crede che Sherlock sia veramente morto -e deliranti e spesso trasgressive le spiegazioni del come si sia salvato dal tuffo dal tetto del palazzo che chiudeva la precedente stagione, al termine dello scontro con Moriarty.
Insomma, devo dirmi completamente soddisfatto dall'inizio della terza serie, e non vedo l'ora di goderne il resto (per breve che possa essere). The game is afoot!
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