Sempre dalle pagine del numero di giugno luglio del 1939 di Horror Stories ecco un "horror" storico, scritto da una delle grandi firme del periodo, Wyatt Blassingame, già apparso su queste pagine.
La vicenda, ambientata a New Orleans nel 1802, quando la Louisiana apparteneva ancora alla Francia, ci porta nel bel mezzo di un'epidemia di colera, e riguarda un intrigo orchestrato da un nobile francese per assicurarsi il futuro stato americano come piccolo regno personale, comprandolo direttamente da Napoleone. Un giovane locale e la sua ricca fidanzata inglese finiscono nel mezzo dell'intrigo, con una bellissima pellorossa lebbrosa che sembra spargare la malattia, un diabolico prelato preda di deliranti visioni morte per celebrare un finto matrimonio, e la morte e l'epidemia che aleggiano su tutto, rendendo la peste del Manzoni quasi una passeggiata.
Quasi esclusivamente basato sulle descrizioni, in perfetto stile lovecraftiano, il racconto direi che tiene dignitosamente anche a una lettura odierna, e il fascino dell'ambientazione - New Orleans è da sempre una delle città americane che più attraggano gli scrittori dell'orrore e del mistero - prevale sulla scarsa attendibilità della vicenda e la banalità della trama.
Altro buon esempio di shudder pulp del periodo, con l'elemento sadico praticamente assente, mentre prevale una qual certa sensualità malata - specialmente nella figura della pellerossa portatrice di morte - che ci ha ricordato numerose, affascinanti vampire della pagina e dello schermo.
lunedì 29 aprile 2013
domenica 28 aprile 2013
Un pulp al giorno: Bride of the Red Hate
Il pulp di oggi è una storiellina piuttosto divertente, nella sua scialba sciatteria; sempre tratta dal numero di giugno/luglio 1939 di Horror Stories, è scritta da Donald Dale, altro autore specialista di Mystery e Shudder Pulps, già incontrato in precedenza su queste pagine.
La vicenda ruota attorno a un'antica maledizione di una nobile casata scozzese, secondo la quale un demone dell'inferno (mirabilmente catturato in un dipinto presente nella magione di famiglia) arriva per uccidere tutte le mogli non scozzesi dei rampolli della stirpe. E' quello che accade anche alla nostra protagonista, fresca sposina dell'ultimo erede della famiglia, che arriva con la sorella per risistemare il castello su Long Island. Il demone esiste davvero? La spiegazione razionale è che si tratti di un nemmeno troppo ben elaborato piano di una banda di falsari, che hanno intenzione di sfruttare la tenuta e di inviare il novello sposo alla ricerca frenetica della moglie in giro per il mondo (dopo una sua finta lettera d'addio), ma la scomparsa dell'attore che avrebbe dovuto impersonare il demone - e che poi avrebbe detto di essere il vero demone - lascia spazio a dubbi sia nei protagonisti che nei lettori.
Tra gli shudder pulp che ci è capitato di leggere, questo è uno degli esempi più truci, con tanto di cadavere di donna sventrato e gettato nell'acido, oltre alle solite descrizioni di donne in fuga coperte solo di vestiti strappati o trasparenti sottovesti, e alle solite scene di bondage, fra tortura e solleticazioni sessuali. Nella media del periodo, piuttosto debole però nella trama.
La vicenda ruota attorno a un'antica maledizione di una nobile casata scozzese, secondo la quale un demone dell'inferno (mirabilmente catturato in un dipinto presente nella magione di famiglia) arriva per uccidere tutte le mogli non scozzesi dei rampolli della stirpe. E' quello che accade anche alla nostra protagonista, fresca sposina dell'ultimo erede della famiglia, che arriva con la sorella per risistemare il castello su Long Island. Il demone esiste davvero? La spiegazione razionale è che si tratti di un nemmeno troppo ben elaborato piano di una banda di falsari, che hanno intenzione di sfruttare la tenuta e di inviare il novello sposo alla ricerca frenetica della moglie in giro per il mondo (dopo una sua finta lettera d'addio), ma la scomparsa dell'attore che avrebbe dovuto impersonare il demone - e che poi avrebbe detto di essere il vero demone - lascia spazio a dubbi sia nei protagonisti che nei lettori.
Tra gli shudder pulp che ci è capitato di leggere, questo è uno degli esempi più truci, con tanto di cadavere di donna sventrato e gettato nell'acido, oltre alle solite descrizioni di donne in fuga coperte solo di vestiti strappati o trasparenti sottovesti, e alle solite scene di bondage, fra tortura e solleticazioni sessuali. Nella media del periodo, piuttosto debole però nella trama.
venerdì 26 aprile 2013
Un pulp al giorno: The woman who killed for Satan
Passiamo al numero giugno-luglio 1939 di Horror Stories per il racconto odierno, un perfetto esempio di shudder pulps deteriore scritto da Francis James, che già abbiamo incontrato su queste pagine.
La vicenda, assolutamente assurda e improbabile, come quasi tutte le storie narrate su questi pulp, è ancora narrata in prima persona dal protagonista, la cui bellissima moglie cade vittima del fascino diabolico di un predicatore folle, una sorta di novello Rasputin che invoca la punizione divina sulle persone empie, e che, dopo aver fatto denudare delle bellissime donne, le porta a uccidere, con del fuoco magico proveniente dalle loro mani, gli uomini che le hanno seguite, attirati dal desiderio sessuale. Come al solito, la spiegazione finale verte tutta su di un diabolico complotto per avidità e desiderio sessuale (uno degli amici del protagonista vuole a tutti costi averne la moglie e, non potendo ottenerla in modo più o meno onesto, ricorre alle droghe e all'ipnosi), ma è straordinariamente poco coerente, e l'intera baracconata sfugge decisamente di mano allo scrittore, non al meglio della forma.
Restano gli elementi tipici del racconto horror del periodo: nudità gratuite, forse meno elementi sado-masochisti del consueto - comunque presenti - il sesso e il denaro come motori ultimi di tutta la vicenda.
Deludente, ma nella media di un genere che con il passare degli anni (siamo ormai sul finire degli anni Trenta) aveva esaurito gran parte dello spirito anarchico e iconoclasta che ne animava gli inizi, e si apprestava a finire nel dimenticatoio.
La vicenda, assolutamente assurda e improbabile, come quasi tutte le storie narrate su questi pulp, è ancora narrata in prima persona dal protagonista, la cui bellissima moglie cade vittima del fascino diabolico di un predicatore folle, una sorta di novello Rasputin che invoca la punizione divina sulle persone empie, e che, dopo aver fatto denudare delle bellissime donne, le porta a uccidere, con del fuoco magico proveniente dalle loro mani, gli uomini che le hanno seguite, attirati dal desiderio sessuale. Come al solito, la spiegazione finale verte tutta su di un diabolico complotto per avidità e desiderio sessuale (uno degli amici del protagonista vuole a tutti costi averne la moglie e, non potendo ottenerla in modo più o meno onesto, ricorre alle droghe e all'ipnosi), ma è straordinariamente poco coerente, e l'intera baracconata sfugge decisamente di mano allo scrittore, non al meglio della forma.
Restano gli elementi tipici del racconto horror del periodo: nudità gratuite, forse meno elementi sado-masochisti del consueto - comunque presenti - il sesso e il denaro come motori ultimi di tutta la vicenda.
Deludente, ma nella media di un genere che con il passare degli anni (siamo ormai sul finire degli anni Trenta) aveva esaurito gran parte dello spirito anarchico e iconoclasta che ne animava gli inizi, e si apprestava a finire nel dimenticatoio.
giovedì 25 aprile 2013
I'm a Creep... mi piace Glee!
Ebbene sì, dopo diciassette puntate della quarta stagione, in occasione della puntata intitolata "Guilty Pleasures", è propria giunta l'ora di una sorta di outing sulle serie tv: guardo Glee dalla prima stagione (rigorosamente in lingua originale) e devo dire che mi diverto ancora a guardarlo.
Inizialmente la scusa era la curiosità, poi guardare qualcosa che non sconvolgesse la piccola Irene (senza dubbio meglio delle maratone di CSI, Criminal Minds e più recentemente Following, Hannibal e altre serie più o meno truci, che io e consorte ci facciamo quasi ogni sera), poi guardare qualcosa che la piccola Irene (via via un po' più grande) si divertiva a ballare sul letto, adesso qualcosa che la sempre meno piccola Irene (ma perennemente sul lettone genitoriale) potesse intravedere con la coda dell'occhio senza restarne terrorizzata, mentre si sorbisce le sue maratone a base di Dottoressa Peluche, My Little Pony e Handy Manny sul computer portatile.
Insomma, Glee è piano piano sedimentata nella nostra esistenza di fruitori del medium seriale televisivo e, nonostante i notevoli difetti (trame da liceali - cosa che peraltro i protagonisti sono - ripetitività estrema), continua a piacerci più che abbastanza. Gran parte dei protagonisti sono molto bravi, le canzoni scelte sono spesso in sintonia con i miei gusti (venute meno le maratone da musical che imperversavano nelle serie con Rachel e Kurt principali protagonisti - grandissime voci, si badi, ma preferisco altri generi di musica) e le coreografie dei vari numeri spesso divertenti e ben realizzate.
La puntata "colpevole", per esempio, è infarcita di curiosità con tuffi negli anni Ottanta (Wake me up before you go degli Wham), Novanta (le Spice Girls!), e di pezzi straordinari (come Against all Odds di Phil Collins e, soprattutto, la bellissima Creep dei Radiohead, resa in modo mirabile dal duetto Rachel e Brody, come sigillo della loro rottura). La chiusura, divertentissima, con Mamma Mia degli Abba e tutto il cast vestito come il mitico quartetto svedese, è il coronamento di una delle migliori puntate della stagione (almeno dal punto di vista delle scelte musicali), se non dell'intera serie.
Ci aspettano, sembra, almeno altre due stagioni di Glee. Speriamo che continui a essere all'altezza della media - discontinua - dell'ultimo periodo.
Inizialmente la scusa era la curiosità, poi guardare qualcosa che non sconvolgesse la piccola Irene (senza dubbio meglio delle maratone di CSI, Criminal Minds e più recentemente Following, Hannibal e altre serie più o meno truci, che io e consorte ci facciamo quasi ogni sera), poi guardare qualcosa che la piccola Irene (via via un po' più grande) si divertiva a ballare sul letto, adesso qualcosa che la sempre meno piccola Irene (ma perennemente sul lettone genitoriale) potesse intravedere con la coda dell'occhio senza restarne terrorizzata, mentre si sorbisce le sue maratone a base di Dottoressa Peluche, My Little Pony e Handy Manny sul computer portatile.
Insomma, Glee è piano piano sedimentata nella nostra esistenza di fruitori del medium seriale televisivo e, nonostante i notevoli difetti (trame da liceali - cosa che peraltro i protagonisti sono - ripetitività estrema), continua a piacerci più che abbastanza. Gran parte dei protagonisti sono molto bravi, le canzoni scelte sono spesso in sintonia con i miei gusti (venute meno le maratone da musical che imperversavano nelle serie con Rachel e Kurt principali protagonisti - grandissime voci, si badi, ma preferisco altri generi di musica) e le coreografie dei vari numeri spesso divertenti e ben realizzate.
La puntata "colpevole", per esempio, è infarcita di curiosità con tuffi negli anni Ottanta (Wake me up before you go degli Wham), Novanta (le Spice Girls!), e di pezzi straordinari (come Against all Odds di Phil Collins e, soprattutto, la bellissima Creep dei Radiohead, resa in modo mirabile dal duetto Rachel e Brody, come sigillo della loro rottura). La chiusura, divertentissima, con Mamma Mia degli Abba e tutto il cast vestito come il mitico quartetto svedese, è il coronamento di una delle migliori puntate della stagione (almeno dal punto di vista delle scelte musicali), se non dell'intera serie.
Ci aspettano, sembra, almeno altre due stagioni di Glee. Speriamo che continui a essere all'altezza della media - discontinua - dell'ultimo periodo.
lunedì 22 aprile 2013
Un pulp al giorno: Parade of the tiny killers
Chiudiamo la nostra disanima del numero di gennaio/febbraio del 1939 di Terror Tales, con un racconto lungo di un autore piuttosto celebre anche nel nostro Paese, Nat Schachner, generalmente accostato al nome di un altro autore pulp che abbiamo citato più volte su queste pagine, Arthur Leo Zagat, e quasi esclusivamente per racconti di fantascienza. Ma come ogni buon autore pulp che si rispetti, Schachner era piuttosto versatile e questo racconto - lontano dal capolavoro, badate bene - comunque lo dimostra.
La storia ricalca il cliche dei racconti del periodo: narrazione in prima persona del giovane protagonista maschile la cui fidanzata - regolarmente bionda e bellissima, con rare eccezioni - si trova in un pericolo letale. Stavolta, il pericolo è rappresentato da una miriade di pigmei africani dagli occhi misteriosiamente azzurri (tanto che vengono scambiati per bambini dipinti di scuro) e dalla loro divinità di pietra, capace di prender vita e minacciare l'esistenza di molte belle ragazze. Attraverso i consueti passaggi necessari allo svolgimento dell'azione, il racconto si risolve ancora una volta con una spiegazione terrena del mistero (i pigmei sono realmente tali e i bambini rapiti e poi uccisi dai perfidi orchestratori del complotto sono stati eliminati perché avevano scoperto il segreto della falsa divinità di pietra - una sorta di automa, azionato da un pigmeo al suo interno) e si chiude con un lieto fine appena meno intenso del consueto (il misterioso dio è nuovamente comparso nelle terre africane da cui era stato portato via con l'inganno).
Ciò che rende il racconto interessante sono i passaggi molto drammatici e coinvolgenti che Schachner introduce ogni tanto nella vicenda, come il momento in cui uno dei componenti della posse inviata nelle paludi locali alla ricerca delle donne e dei bambini scomparsi, finisce per uccidere il figlio che stava cercando (o crederà di averlo fatto, visto che poi l'autore, evidentemente accortosi di aver toccato un tasto un po' troppo drammatico in un racconto da due soldi su di una rivista di intrattenimento, decide di dare una spiegazione diversa: il bimbo è stato ucciso dal crudele curatore del museo di archeologia, ed è stato messo in mezzo alla palude per far ricadere la colpa del delitto su qualcun altro). La sequenza della presa di coscienza dell'azione compiuta dal padre, il suo cercare conforto negli occhi degli altri membri della spedizione - che invece evitano di guardarlo - e la sua decisione di inoltrarsi da solo in mezzo alle acque della palude con il cadavere del figlioletto fra le braccia è una scena che francamente tocca abbastanza il lettore (ricorda per certi versi la celebre scena della peste manzoniana - so di poter venire accusato di eresia per questo...). Per il resto siamo nella media della narrativa degli shudder pulp (per quanto con molta meno gratuità sulle scene sensuali di quanto non ci sia di solito - Schachner pare sotto questo punto di vista autore di maggiore spessore) e il racconto si segnala infine soltanto - ancora una volta - per la diabolicità dei bambini visti dagli adulti (stavolta, poverini, i colpevoli sono realmente dei pigmei, ma i bambini rapiti vengono sottoposti a controllo ipnotico e farmaceutico per indurli ad azion delittuose). Devo proprio scrivervi un pezzo... materiale sembra essercene parecchio.
La prossima volta torneremo ad occuparci di Horror Stories, con il nuovo numero appena ricevuto dagli amici di Radioarchives. Altre shudder stories da esaminare (e altri meravigliosi titoli da citare...)
La storia ricalca il cliche dei racconti del periodo: narrazione in prima persona del giovane protagonista maschile la cui fidanzata - regolarmente bionda e bellissima, con rare eccezioni - si trova in un pericolo letale. Stavolta, il pericolo è rappresentato da una miriade di pigmei africani dagli occhi misteriosiamente azzurri (tanto che vengono scambiati per bambini dipinti di scuro) e dalla loro divinità di pietra, capace di prender vita e minacciare l'esistenza di molte belle ragazze. Attraverso i consueti passaggi necessari allo svolgimento dell'azione, il racconto si risolve ancora una volta con una spiegazione terrena del mistero (i pigmei sono realmente tali e i bambini rapiti e poi uccisi dai perfidi orchestratori del complotto sono stati eliminati perché avevano scoperto il segreto della falsa divinità di pietra - una sorta di automa, azionato da un pigmeo al suo interno) e si chiude con un lieto fine appena meno intenso del consueto (il misterioso dio è nuovamente comparso nelle terre africane da cui era stato portato via con l'inganno).
Ciò che rende il racconto interessante sono i passaggi molto drammatici e coinvolgenti che Schachner introduce ogni tanto nella vicenda, come il momento in cui uno dei componenti della posse inviata nelle paludi locali alla ricerca delle donne e dei bambini scomparsi, finisce per uccidere il figlio che stava cercando (o crederà di averlo fatto, visto che poi l'autore, evidentemente accortosi di aver toccato un tasto un po' troppo drammatico in un racconto da due soldi su di una rivista di intrattenimento, decide di dare una spiegazione diversa: il bimbo è stato ucciso dal crudele curatore del museo di archeologia, ed è stato messo in mezzo alla palude per far ricadere la colpa del delitto su qualcun altro). La sequenza della presa di coscienza dell'azione compiuta dal padre, il suo cercare conforto negli occhi degli altri membri della spedizione - che invece evitano di guardarlo - e la sua decisione di inoltrarsi da solo in mezzo alle acque della palude con il cadavere del figlioletto fra le braccia è una scena che francamente tocca abbastanza il lettore (ricorda per certi versi la celebre scena della peste manzoniana - so di poter venire accusato di eresia per questo...). Per il resto siamo nella media della narrativa degli shudder pulp (per quanto con molta meno gratuità sulle scene sensuali di quanto non ci sia di solito - Schachner pare sotto questo punto di vista autore di maggiore spessore) e il racconto si segnala infine soltanto - ancora una volta - per la diabolicità dei bambini visti dagli adulti (stavolta, poverini, i colpevoli sono realmente dei pigmei, ma i bambini rapiti vengono sottoposti a controllo ipnotico e farmaceutico per indurli ad azion delittuose). Devo proprio scrivervi un pezzo... materiale sembra essercene parecchio.
La prossima volta torneremo ad occuparci di Horror Stories, con il nuovo numero appena ricevuto dagli amici di Radioarchives. Altre shudder stories da esaminare (e altri meravigliosi titoli da citare...)
giovedì 18 aprile 2013
Un pulp al giorno: Dead Hands seek my Bride!
Altro titolo meraviglioso per un'altra storia raccolta dal solito numero di gennaio/febbraio 1939 di Terror Tales, scritta da Dane Gregory (pseudonimo di Ormond Robbins, autore pulp abbastanza attivo per quasi un ventennio fra gli anni '30 e '50, con racconti di vario genere, dal giallo al western, con una predilezione per gli Shudder pulps, già incontrato nel nostro blog), che decisamente non regge alle premesse del titolo.
Si narra la vicenda di una giovane donna, che, scampata a uno stupro per opera dello scemo del villaggio (linciato dalla folla poco prima che potesse avere la meglio sulla ragazza), sogna ossessivamente la figura di Crazy Charlie, che secondo lei tornerà dalla tomba per completare lo scempio.
Portata dal marito, su consiglio medico, in una baita lontana nei boschi dello stato di Washington, viene effettivamente raggiunta dal folle tornato dalla tomba e salvata dal marito al termine di una lunga (troppo lunga, talmente lunga da diventare noiosa) sequenza di gioco gatto-topo nel buio della notte tempestosa del bosco e della baita montana. Il colpevole ovviamente è in carne e ossa (rarissamente le storie di Terror Tales ed epigoni sfociano realmente nel soprannaturale), il cugino del protagonista, artista spiantato che vuole vendicarsi dell'ingiustizia che lo ha visto privato di tutto da un padre spendaccione, mentre il cugino ha avuto ricchezza e una bellissima moglie.
Aldilà del fatto che la soluzione della vicenda arriva dentro il cervello del lettore non appena viene citato il suddetto cugino spiantato (ovvero dopo pochissime righe), il racconto è notevole come perfetto esempio di slasher ante litteram: sembra di muoversi in un film dei tardi anni Settanta, un precursore di Venerdì 13.
In questo il racconto, altrimenti dimenticabile, risulta molto interessante, segnalando ancora una volta la relativa modernità, anche per l'occhio odierno, di questi pulp da due soldi, che nascondono al loro interno della narrativa di genere ancora capace di suscitare quantomeno la curiosità antiquaria dei lettori di oggi, e meriterebbero di essere pubblicati anche in italiano (cosa che in qualche modo ci accingiamo a fare).
Si narra la vicenda di una giovane donna, che, scampata a uno stupro per opera dello scemo del villaggio (linciato dalla folla poco prima che potesse avere la meglio sulla ragazza), sogna ossessivamente la figura di Crazy Charlie, che secondo lei tornerà dalla tomba per completare lo scempio.
Portata dal marito, su consiglio medico, in una baita lontana nei boschi dello stato di Washington, viene effettivamente raggiunta dal folle tornato dalla tomba e salvata dal marito al termine di una lunga (troppo lunga, talmente lunga da diventare noiosa) sequenza di gioco gatto-topo nel buio della notte tempestosa del bosco e della baita montana. Il colpevole ovviamente è in carne e ossa (rarissamente le storie di Terror Tales ed epigoni sfociano realmente nel soprannaturale), il cugino del protagonista, artista spiantato che vuole vendicarsi dell'ingiustizia che lo ha visto privato di tutto da un padre spendaccione, mentre il cugino ha avuto ricchezza e una bellissima moglie.
Aldilà del fatto che la soluzione della vicenda arriva dentro il cervello del lettore non appena viene citato il suddetto cugino spiantato (ovvero dopo pochissime righe), il racconto è notevole come perfetto esempio di slasher ante litteram: sembra di muoversi in un film dei tardi anni Settanta, un precursore di Venerdì 13.
In questo il racconto, altrimenti dimenticabile, risulta molto interessante, segnalando ancora una volta la relativa modernità, anche per l'occhio odierno, di questi pulp da due soldi, che nascondono al loro interno della narrativa di genere ancora capace di suscitare quantomeno la curiosità antiquaria dei lettori di oggi, e meriterebbero di essere pubblicati anche in italiano (cosa che in qualche modo ci accingiamo a fare).
Hannibal: il prequel
Visto ieri il pilot della nuova serie televisiva dedicata alle imprese del nostro cannibale preferito, incentrato per adesso in realtà molto più sul suo rivale Will Graham, che non sul nostro serial killer gastronomo.
Ispirato al senso di delirio onirico più al meraviglioso Manhunter che non ai tanti (troppi) seguiti e remake con Hopkins nel ruolo di Lecter, il pilot segue gli inizi di collaboratore FBI del piuttosto schizzato Graham, che finisce poi per subire un profilo dallo stesso Lecter, scelto per la bisogna dallo stesso Jack Crawford (interpretato da Lawrence Fishburne, reduce dal ruolo piuttosto antipatico rivestito in CSI Las Vegas).
Abbiamo così Lecter che finisce per essere mentore di Graham nella soluzione di un caso e tra i due si consuma anche una gustosa colazione (sul cui contenuto proteico si potrebbero azzardare ipotesi...), prodromo di una possibile "amicizia". La direzione è quella di una rivalità competitiva alla Holmes/Moriarty, la costruzione di un binomio inscindibile, dove la malvagità dell'uno alimenta la creatività solutoria dell'altro, in un continuo rincorrersi autodistruttivo. Vedremo.
Il telefilm soffre di un eccesso di scene splatter al rallentatore, di scuola CSI ed epigoni, ma rispetto al precedentemente commentato Bates Motel si lascia almeno sicuramente vedere (non so per quante puntate).
Comunque, vista la moda di proporre al grande pubblico saghe basate su famiglie storiche (Tudors, Borgia, etc.), perché non fare una grande fiction sull'unico vero grande Annibale della storia e sulla sua famiglia: i Barca? Avrebbero sicuramente uno spettatore attento e interessato (e non poco critico)!
Ispirato al senso di delirio onirico più al meraviglioso Manhunter che non ai tanti (troppi) seguiti e remake con Hopkins nel ruolo di Lecter, il pilot segue gli inizi di collaboratore FBI del piuttosto schizzato Graham, che finisce poi per subire un profilo dallo stesso Lecter, scelto per la bisogna dallo stesso Jack Crawford (interpretato da Lawrence Fishburne, reduce dal ruolo piuttosto antipatico rivestito in CSI Las Vegas).
Abbiamo così Lecter che finisce per essere mentore di Graham nella soluzione di un caso e tra i due si consuma anche una gustosa colazione (sul cui contenuto proteico si potrebbero azzardare ipotesi...), prodromo di una possibile "amicizia". La direzione è quella di una rivalità competitiva alla Holmes/Moriarty, la costruzione di un binomio inscindibile, dove la malvagità dell'uno alimenta la creatività solutoria dell'altro, in un continuo rincorrersi autodistruttivo. Vedremo.
Il telefilm soffre di un eccesso di scene splatter al rallentatore, di scuola CSI ed epigoni, ma rispetto al precedentemente commentato Bates Motel si lascia almeno sicuramente vedere (non so per quante puntate).
Comunque, vista la moda di proporre al grande pubblico saghe basate su famiglie storiche (Tudors, Borgia, etc.), perché non fare una grande fiction sull'unico vero grande Annibale della storia e sulla sua famiglia: i Barca? Avrebbero sicuramente uno spettatore attento e interessato (e non poco critico)!
Un pulp al giorno: Death's winged squadron
Torniamo al numero di gennaio/febbraio del 1939 di Terror Tales per un racconto troppo particolare per non farne menzione in questo blog. Scritto da Edith and Ejler Jacobson (due nomi di una stessa persona, stando a quanto rintracciato su Internet), narra la vicenda di una sorta di kamikaze in miniature, ovvero di alcuni bambini disadattati di una zona disagiata di New York, che dotati di mini-velivoli si immolano contro adulti colpevoli di non si sa bene cosa (l'autrice non è molto chiara a riguardo, e i buchi nella trama sono degni di una forma di emmental svizzero), esplodendo in una miriade di coriandoli di lamiera, di ossa e di carne.
Scritto in maniera modesta, pieno di imprecisioni narrative e di assurdità ex machina come piovesse, il racconto merita la segnalazione come ennesimo esempio della malvagità insita nei bambini che trasuda da molte delle pagine degli shudder pulps (ho idea di scrivere un pezzo vero e proprio a riguardo, perché mi sembra molto emblematico del periodo e del contesto storico-sociale in cui questa narrativa veniva scritta): sono infatti molte numerose le cartoline dall'inferno dell'infanzia che vengono inviate dagli autori di Terror Tales, Horror Stories ed epigoni, scenari da incubo dove la minaccia dei piccoli assassini per il mondo degli adulti è immanente, opprimente, ed implacabilmente letale, senza che mai si pensi di trovare una soluzione meno feroce al problema (gli autori di questi pulp non lesinano certo colpi bassi al lettore, anche e soprattutto quando ci si riferisce a questi mostri in miniatura, che vengono eliminati né più né meno che se fossero veramente dei demoni infernali).
Aspetto opinioni al riguardo
Scritto in maniera modesta, pieno di imprecisioni narrative e di assurdità ex machina come piovesse, il racconto merita la segnalazione come ennesimo esempio della malvagità insita nei bambini che trasuda da molte delle pagine degli shudder pulps (ho idea di scrivere un pezzo vero e proprio a riguardo, perché mi sembra molto emblematico del periodo e del contesto storico-sociale in cui questa narrativa veniva scritta): sono infatti molte numerose le cartoline dall'inferno dell'infanzia che vengono inviate dagli autori di Terror Tales, Horror Stories ed epigoni, scenari da incubo dove la minaccia dei piccoli assassini per il mondo degli adulti è immanente, opprimente, ed implacabilmente letale, senza che mai si pensi di trovare una soluzione meno feroce al problema (gli autori di questi pulp non lesinano certo colpi bassi al lettore, anche e soprattutto quando ci si riferisce a questi mostri in miniatura, che vengono eliminati né più né meno che se fossero veramente dei demoni infernali).
Aspetto opinioni al riguardo
lunedì 15 aprile 2013
Un pulp al giorno: School Mistress of the Mad
Torniamo finalmente alla rubrica principe del nostro blog, con un racconto tratto dalle pagine del numero di gennaio/febbraio 1939 di Terror Tales.
Si tratta di School Mistress of the Mad, grandioso titolo (farò prossimamente un pezzo sui deliranti titoli dei racconti apparsi sulla rivista in questione) per un eccellente racconto lungo di Russell Gray, nome de plum del famoso scrittore di mystery Bruno Fischer, che si diverte molto in questa ecatombe lubrica e sanguinosa, epitome perfetta dello shudder pulp, che ormai volgeva al termine.
La vicenda ci immerge nei meravigliosi e inquietanti scenari della campagna americana, teatro delle più grandi gesta orrorifiche del cinema anni Settanta (Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, Un tranquilo weekend di paura, Grano rosso sangue, potrei proseguire per ore...), e mostra come le cose non fossero molto diverse neppure nell'immediato precedente della Seconda Guerra Mondiale.
Gray immagina una bellissima maestrina bionda adescata da una coppia di contadini bramosi di argento, perché finisca preda delle velleità copulatorie di un'intera comunità di dementi che da decenni si riproducono fra loro, i Grings, unici proprietari del malefico villaggio di Doom (nomen omen) e delle miniere d'argento situate nei suoi pressi. A salvare la giovane donna dalle grinfie di questi pervertiti dal corpo guasto non meno del cervello si mette un giovane venuto dalla città in campagna a casa della sorella per riposare dallo stress di ogni giorno (ottima scelta...), e, nonostante infinite torture e sventure, riuscirà nell'intento (e a sposare - ovviamente - la giovane maestrina).
Se la trama può sembrare già vista (forse lo era meno settanta e passa anni fa), il linguaggio e le situazioni sono francamente molto moderni nella loro brutalità e mancanza di censure: si passa da giovani donne che si denudano spontaneamente e si crogiolano nel piacere proveniente dal dolore (senza che si offra una chiara spiegazione del perché), a ombre malefiche che si muovono nell'oscurità e rigettano il fuoco e la luce (forse le anime dei cittadini di Doom, che hanno venduto al demonio il proprio io immortale in cambio di una progenie futura, dopo vent'anni di sterilità), a vittime buttate vive sul rogo, con il crepitio e l'odore della carne bruciata che pervade realmente le narici del lettore, tanto la narrazione è valida.
Racconto consigliato, quindi, a tutti gli amanti del genere horror, per scoprire una gemma lontana, che brilla ancora di luce propria e non riflessa.
Si tratta di School Mistress of the Mad, grandioso titolo (farò prossimamente un pezzo sui deliranti titoli dei racconti apparsi sulla rivista in questione) per un eccellente racconto lungo di Russell Gray, nome de plum del famoso scrittore di mystery Bruno Fischer, che si diverte molto in questa ecatombe lubrica e sanguinosa, epitome perfetta dello shudder pulp, che ormai volgeva al termine.
La vicenda ci immerge nei meravigliosi e inquietanti scenari della campagna americana, teatro delle più grandi gesta orrorifiche del cinema anni Settanta (Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, Un tranquilo weekend di paura, Grano rosso sangue, potrei proseguire per ore...), e mostra come le cose non fossero molto diverse neppure nell'immediato precedente della Seconda Guerra Mondiale.
Gray immagina una bellissima maestrina bionda adescata da una coppia di contadini bramosi di argento, perché finisca preda delle velleità copulatorie di un'intera comunità di dementi che da decenni si riproducono fra loro, i Grings, unici proprietari del malefico villaggio di Doom (nomen omen) e delle miniere d'argento situate nei suoi pressi. A salvare la giovane donna dalle grinfie di questi pervertiti dal corpo guasto non meno del cervello si mette un giovane venuto dalla città in campagna a casa della sorella per riposare dallo stress di ogni giorno (ottima scelta...), e, nonostante infinite torture e sventure, riuscirà nell'intento (e a sposare - ovviamente - la giovane maestrina).
Se la trama può sembrare già vista (forse lo era meno settanta e passa anni fa), il linguaggio e le situazioni sono francamente molto moderni nella loro brutalità e mancanza di censure: si passa da giovani donne che si denudano spontaneamente e si crogiolano nel piacere proveniente dal dolore (senza che si offra una chiara spiegazione del perché), a ombre malefiche che si muovono nell'oscurità e rigettano il fuoco e la luce (forse le anime dei cittadini di Doom, che hanno venduto al demonio il proprio io immortale in cambio di una progenie futura, dopo vent'anni di sterilità), a vittime buttate vive sul rogo, con il crepitio e l'odore della carne bruciata che pervade realmente le narici del lettore, tanto la narrazione è valida.
Racconto consigliato, quindi, a tutti gli amanti del genere horror, per scoprire una gemma lontana, che brilla ancora di luce propria e non riflessa.
sabato 13 aprile 2013
I dolori del giovane Norman
Se il cinema da ormai un lunghissimo periodo sembra mummificato su se stesso, in un vorticoso ripetersi di remake, rifacimenti, sequel, imitazioni di quanto già fatto in passato (quasi sempre con risultati parecchio lontani dall'originale, se non realmente obbrobriosi), pare che anche la televisione si accinga con sempre maggior insistenza a seguirne le spente orme.
Non parlerò in questo blog del "prequel" di Sex and the City (The Carrie Diaries), dal momento che, non avendo praticamente mai visto l'originale, mi sembrerebbe pretenzioso e fuori luogo analizzarne il parto recente, ma adesso di Bates Motel e nel prossimo futuro di Hannibal.
Cosa sia saltato in mente agli sceneggiatori hollywodiani di andare a recuperare un'icona assoluta del genere horror (per quanto il film non sia prettamente tale, e sia piuttosto da considerare un thriller, è divenuto tale per tutto l'immaginario collettivo e le miriadi di libri dedicati al genere da me più amato, che immancabilmente scelgono uno dei suoi fotogrammi - almeno - per metterlo sulla copertina o in una delle pagine più significative del volume) quale Norman Bates, per rifilarci una serie televisiva (che purtroppo so aver già ricevuto la green light per una seconda stagione...) dedicata alle sue gesta - o meglio all'origine delle sue gesta - ma in un contesto contemporaneo fatto di spider ultimo modello e smartphone connessi alla rete, francamente non so dire. Credo che difficilmente si sarebbe potuta effettuare una scelta più infelice (almeno per i puristi del genere, quale in questo caso mi ritengo di essere).
Se l'inizio del pilot, con il rinvenimento del cadavere in cantina del padre del giovane Norman (adolescente di 17 anni), apparentemente defunto per un malore o un incidente, ci può anche stare, così come l'introduzione del protagonista principale della trama, ovviamente la madre, dopo pochi minuti passati a chiedersi dove intendessero parare quelle sequenze iniziali, l'introduzione di telefonini ultima generazione, di un manipolo di ragazzotte ricche e viziate del mondo moderno e di party selvaggi a base di tecno e di droga, fanno subito venir voglia di spegnere tutto e rivoltarsi nella tomba insiema al povero Robert Bloch (e anche indubbiamente al vecchio Hitch).
Non intendo rivelare in quest post gli altri avvenimenti dell'episodio pilota, tutti rivolti a costruire un plot che possa portare come conseguenza ultima alla follia di Norman e al suo successivo tramutarsi in un killer seriale (ammesso che in questo telefilm poi lo diventi... a parte la mitica casa - rimasta tale e quale con altra folle discronia degli sceneggiatori, piuttosto idiota a dire il vero, nonostante il tentativo di spiegazione - non c'è molto di simile fra questo Norman e quello interpretato da Anthony Perkins e per sempre legato a quella interpretazione e a quella pellicola - nonostante l'abominio di Van Sant e i discutibili sequel dell'originale, almeno sempre con Perkins), ma posso soltanto definirmi completamente disgustato, ben più che semplicemente deluso, da questo insulso, insipido, lezioso e lecchino passaggio al medium televisivo di un film che ha semplicemente fatto la storia del cinema tout court e di un personaggio che non meritava certo di venir ridotto in questo modo. Temo anche che il proseguio della serie possa provare ad avanzare spiegazioni del Norman che abbiamo visto al cinema, quando non si spiega un'icona, non si psicanalizza un mito: Norman Bates è come Jason Voorhes, Freddy Kruger, Michael Myers. Non lo si spiega, non lo si discute: lo si ama e basta, come personaggio straordinario, con un solo volto (Perkins) e un solo film (Hitchcock). Tutto il resto è - come minimo - noia.
Non parlerò in questo blog del "prequel" di Sex and the City (The Carrie Diaries), dal momento che, non avendo praticamente mai visto l'originale, mi sembrerebbe pretenzioso e fuori luogo analizzarne il parto recente, ma adesso di Bates Motel e nel prossimo futuro di Hannibal.
Cosa sia saltato in mente agli sceneggiatori hollywodiani di andare a recuperare un'icona assoluta del genere horror (per quanto il film non sia prettamente tale, e sia piuttosto da considerare un thriller, è divenuto tale per tutto l'immaginario collettivo e le miriadi di libri dedicati al genere da me più amato, che immancabilmente scelgono uno dei suoi fotogrammi - almeno - per metterlo sulla copertina o in una delle pagine più significative del volume) quale Norman Bates, per rifilarci una serie televisiva (che purtroppo so aver già ricevuto la green light per una seconda stagione...) dedicata alle sue gesta - o meglio all'origine delle sue gesta - ma in un contesto contemporaneo fatto di spider ultimo modello e smartphone connessi alla rete, francamente non so dire. Credo che difficilmente si sarebbe potuta effettuare una scelta più infelice (almeno per i puristi del genere, quale in questo caso mi ritengo di essere).
Se l'inizio del pilot, con il rinvenimento del cadavere in cantina del padre del giovane Norman (adolescente di 17 anni), apparentemente defunto per un malore o un incidente, ci può anche stare, così come l'introduzione del protagonista principale della trama, ovviamente la madre, dopo pochi minuti passati a chiedersi dove intendessero parare quelle sequenze iniziali, l'introduzione di telefonini ultima generazione, di un manipolo di ragazzotte ricche e viziate del mondo moderno e di party selvaggi a base di tecno e di droga, fanno subito venir voglia di spegnere tutto e rivoltarsi nella tomba insiema al povero Robert Bloch (e anche indubbiamente al vecchio Hitch).
Non intendo rivelare in quest post gli altri avvenimenti dell'episodio pilota, tutti rivolti a costruire un plot che possa portare come conseguenza ultima alla follia di Norman e al suo successivo tramutarsi in un killer seriale (ammesso che in questo telefilm poi lo diventi... a parte la mitica casa - rimasta tale e quale con altra folle discronia degli sceneggiatori, piuttosto idiota a dire il vero, nonostante il tentativo di spiegazione - non c'è molto di simile fra questo Norman e quello interpretato da Anthony Perkins e per sempre legato a quella interpretazione e a quella pellicola - nonostante l'abominio di Van Sant e i discutibili sequel dell'originale, almeno sempre con Perkins), ma posso soltanto definirmi completamente disgustato, ben più che semplicemente deluso, da questo insulso, insipido, lezioso e lecchino passaggio al medium televisivo di un film che ha semplicemente fatto la storia del cinema tout court e di un personaggio che non meritava certo di venir ridotto in questo modo. Temo anche che il proseguio della serie possa provare ad avanzare spiegazioni del Norman che abbiamo visto al cinema, quando non si spiega un'icona, non si psicanalizza un mito: Norman Bates è come Jason Voorhes, Freddy Kruger, Michael Myers. Non lo si spiega, non lo si discute: lo si ama e basta, come personaggio straordinario, con un solo volto (Perkins) e un solo film (Hitchcock). Tutto il resto è - come minimo - noia.
martedì 9 aprile 2013
Galleria di Carneadi: Zag Murphy
Tra la miriade di personaggi minori del mondo dei pulp, il co-protagonista delle pagine di Operator 5 risponde al nome di Zag Murphy, una simpaticissima e improbabile spia statunitense negli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale. Creato dal praticamente sconosciuto Dale de Krier, Murphy è uno tra i personaggi più strani e divertenti che mi sia finora capitato di incontrare nel mondo dei pulp: piccolo, smunto, totalmente privo del physique du role della spia, dalla lingua tagliente e dalla totale mancanza di rispetto per routine e superiori, conquista il lettore fin dalle prime righe. Nell'avventura che mi è capitato di leggere (Flag of Fury), Zag cade prigioniero del suo arcinemico, il giapponese Baron Tankana, che ha intenzione di far saltare per aria tutto l'arsenale americano a Manila (non si era ancora in guerra, ma i venti di guerra anche nel Pacifico già si sentivano sferzanti - il racconto è della fine del 1937 e i giapponesi erano già parecchio attivi in Cina e non solo); grazie a una bandiera americana montata a rovescio, l'intraprendente Zag riesce a farsi salvare da una pattuglia di marines e il perfido Tankana si sottopone al classico suicidio rituale.
Aldilà della banalità della trama e del patriottismo insopportabile di molte situazioni (la propaganda trasuda da ogni riga in tutta la rivista), Zag Murphy e le sue folli risposte ai superiori (in questo caso l'improbabile colonnello Blondello - come diavolo si inventano i cognomi 'sti americani??) e i suoi ripetuti modi di dire (il principale, quando commette un errore, è dire "ho fatti Zag, quando avrei dovuto fare Zig"; ma l'altro che mi ha fatto sorridere molto è "upsy Daisy" - che è il nome di un personaggio della serie televisiva per bambini moooolto piccoli "La foresta dei sogni" - che forse altri neo-papà si sono dovuti sorbire in quantità industriale per far divertire la propria piccola o il proprio piccolo) si impongono decisamente all'attenzione e credo proprio che mi scaricherò tutta la serie di Operator 5 (la si trova in ebook a meno di 3 dollari a numero su Radio-Archives), non tanto per seguire le mirabolanti vicende del titolo principale del pulp, ma per questo piccolo, meraviglioso personaggio di contorno (che come spesso accade, è più gustoso della portata principale).
Aldilà della banalità della trama e del patriottismo insopportabile di molte situazioni (la propaganda trasuda da ogni riga in tutta la rivista), Zag Murphy e le sue folli risposte ai superiori (in questo caso l'improbabile colonnello Blondello - come diavolo si inventano i cognomi 'sti americani??) e i suoi ripetuti modi di dire (il principale, quando commette un errore, è dire "ho fatti Zag, quando avrei dovuto fare Zig"; ma l'altro che mi ha fatto sorridere molto è "upsy Daisy" - che è il nome di un personaggio della serie televisiva per bambini moooolto piccoli "La foresta dei sogni" - che forse altri neo-papà si sono dovuti sorbire in quantità industriale per far divertire la propria piccola o il proprio piccolo) si impongono decisamente all'attenzione e credo proprio che mi scaricherò tutta la serie di Operator 5 (la si trova in ebook a meno di 3 dollari a numero su Radio-Archives), non tanto per seguire le mirabolanti vicende del titolo principale del pulp, ma per questo piccolo, meraviglioso personaggio di contorno (che come spesso accade, è più gustoso della portata principale).
sabato 6 aprile 2013
Galleria di Carneadi: Operator 5
Torniamo dopo diversi giorni a questo blog, con un post dedicato a un altro personaggio preso di peso dal mondo dei mitici pulp anni Trenta: Jimmy Christopher, aka Operator 5, la straordinaria super spia statunitense, pronta a sventare ogni tipo di minaccia verso il suo Paese, sferrata dai nemici di mezzo mondo.
Protagonista di una lunga serie di romanzi brevi in una rivista che portava il suo stesso nome, Operator 5 è la quintessenza del buon patriota americano, tanto di moda in quel periodo. Inizialmente contrapposto a minacce provenienti dai tiranni di mezzo mondo - e in particolare dai "sosia" fantoccio dei vari Hitler, Stalin, Mussolini e compagnia cantante - Operator 5 si è evoluto nel corso degli anni in un serial post-catastrofico, dove gli Stati Uniti sono caduti sotto i colpi del Purple Emperor (un perfido sovrano mitteleuropeo) e dei suoi satrapi sparsi in tutto il mondo (in particolare il terribile Shan Hi Mung, sovrano delle steppe orientali).
Nella storia che mi è recentemente capitato di leggere, il numero 36 della saga, gli Stati Uniti sono appena usciti vittoriosi da uno degli scontri più cruenti contro l'Imperatore, lo hanno perfino fatto prigioniero, ma durante il trasporto verso la capitale temporanea degli Stati Uniti - Chicago - il sovrano viene liberato da una banda di mongoli sotto il comando di Mung, che però lo tiene a sua volta prigioniero, ponendosi come nuovo comandante dell'esercito del Male. In un'intensa serie di colpi di scena e di roboanti battaglie, Operator 5 riesce a salvare New York dalle armate gotiche, solo per ricevere due missive che comunicano come le forze mongole abbiano sconfitto l'esercito regolare americano presso Chicago, mancando di un soffio la cattura del nuovo presidente, e la flotta imperiale abbia sbarcato le proprie truppe a Charleston radendola al suolo e muova ora verso nord, in direzione Grande Mela: il romanzo termina con la risata di Operator 5, ben lieto di cimentarsi una volta di più contro una minaccia apparentemente impossibile da sostenere e situazioni belliche dove si trova in rimarchevole inferiorità.
Scritti da Emil Tepperman, questi romanzi del ciclo dell'Impero purpureo sono un rutilante susseguirsi di battaglie, di scontri, di epici duelli (meraviglioso quello fra il comandante delle truppe tedesche - una sorta di gigante armato di clava - e lo stesso Operator 5, nel romanzo appena concluso), di geniali trovate, penalizzate soltanto da dialoghi spesso imbarazzanti e da situazioni romantiche che spesso strappano la risata quanto a improbabilità.
Restano delle ottime prove di narrativa pulp, assolutamente godibili anche dai lettori di oggi - con un minimo di sospensione dell'incredulità - e anche molto interessanti dal punto di vista militare (il romanzo citato sfoggia perfino una mappa della principale battaglia descritta nel testo).
Del tutto sconosciute in Italia, le avventure di Operator 5 meriterebbero un palcoscenico migliore di quello al quale sono state relegate (ed è encomiabile il lavoro svolto dai ragazzi di Radioarchives che le stanno riproponendo - e mi danno modo di leggerle a mia volta!)
Protagonista di una lunga serie di romanzi brevi in una rivista che portava il suo stesso nome, Operator 5 è la quintessenza del buon patriota americano, tanto di moda in quel periodo. Inizialmente contrapposto a minacce provenienti dai tiranni di mezzo mondo - e in particolare dai "sosia" fantoccio dei vari Hitler, Stalin, Mussolini e compagnia cantante - Operator 5 si è evoluto nel corso degli anni in un serial post-catastrofico, dove gli Stati Uniti sono caduti sotto i colpi del Purple Emperor (un perfido sovrano mitteleuropeo) e dei suoi satrapi sparsi in tutto il mondo (in particolare il terribile Shan Hi Mung, sovrano delle steppe orientali).
Nella storia che mi è recentemente capitato di leggere, il numero 36 della saga, gli Stati Uniti sono appena usciti vittoriosi da uno degli scontri più cruenti contro l'Imperatore, lo hanno perfino fatto prigioniero, ma durante il trasporto verso la capitale temporanea degli Stati Uniti - Chicago - il sovrano viene liberato da una banda di mongoli sotto il comando di Mung, che però lo tiene a sua volta prigioniero, ponendosi come nuovo comandante dell'esercito del Male. In un'intensa serie di colpi di scena e di roboanti battaglie, Operator 5 riesce a salvare New York dalle armate gotiche, solo per ricevere due missive che comunicano come le forze mongole abbiano sconfitto l'esercito regolare americano presso Chicago, mancando di un soffio la cattura del nuovo presidente, e la flotta imperiale abbia sbarcato le proprie truppe a Charleston radendola al suolo e muova ora verso nord, in direzione Grande Mela: il romanzo termina con la risata di Operator 5, ben lieto di cimentarsi una volta di più contro una minaccia apparentemente impossibile da sostenere e situazioni belliche dove si trova in rimarchevole inferiorità.
Scritti da Emil Tepperman, questi romanzi del ciclo dell'Impero purpureo sono un rutilante susseguirsi di battaglie, di scontri, di epici duelli (meraviglioso quello fra il comandante delle truppe tedesche - una sorta di gigante armato di clava - e lo stesso Operator 5, nel romanzo appena concluso), di geniali trovate, penalizzate soltanto da dialoghi spesso imbarazzanti e da situazioni romantiche che spesso strappano la risata quanto a improbabilità.
Restano delle ottime prove di narrativa pulp, assolutamente godibili anche dai lettori di oggi - con un minimo di sospensione dell'incredulità - e anche molto interessanti dal punto di vista militare (il romanzo citato sfoggia perfino una mappa della principale battaglia descritta nel testo).
Del tutto sconosciute in Italia, le avventure di Operator 5 meriterebbero un palcoscenico migliore di quello al quale sono state relegate (ed è encomiabile il lavoro svolto dai ragazzi di Radioarchives che le stanno riproponendo - e mi danno modo di leggerle a mia volta!)
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