Torno dopo altra lunga pausa al blog ed ecco uscirmene con una trovata non indifferente: se facessi un post per due cose totalmente diverse con un solo titolo? Ed ecco trovato il modo: Dominion, titolo a un tempo di un famoso gioco da tavolo e di una nuova serie televisiva.
Partiamo dal gioco: Dominion è ormai un titolo molto conosciuto nel panorama dei boardgame, uscito da parecchi anni (poco dopo la mia uscita da Stratagemma, per questo non lo conoscevo se non di fama) e con uno stuolo di espansioni da far invidia a Magic The Gathering. E proprio quest'ultimo riferimento era stato uno dei principali motivi per cui avevo sempre nicchiato prima di provarlo. Poi, alla fine, pochi giorni fa abbiamo fatto una partita e l'ho trovato molto diverso da come me lo aspettavo. Per quanto probabilmente ripetitivo già nel medio periodo (e per questo continuano a far uscire espansioni su espansioni per variarlo e allungare la sua vita ludica prima di finire dimenticato sugli scaffali), il gioco è indubbiamente accattivante: il metodo di costruzione del mazzo di gioco e le variabili che vi si possono inserire sono interessanti, ma la sindrome magic è dietro l'angolo (per gusto personale). Posso lamentare la scarsa interazione fra i giocatori (presente anche in giochi che mi piacciono molto di più, come Seven Wonders), ma alcune delle dinamiche sono attraenti e il gioco si è rivelato migliore di parecchio rispetto alle attese.
Il telefilm Dominion è invece una derivazione da un misconosciuto film del 2010, Legion, che immagina un conflitto fra angeli all'indomani della scomparsa di Dio (ricorda qualcosa ai vecchi giocatori di ruolo? Immagino di sì... un aiutino... viene dalla Svezia). Ho visto per adesso soltanto il pilot, passabile senza essere nulla di particolare, ma aspetto qualche altra puntata per vedere come si sviluppa la cosa. Non ho visto il film da cui deriva, ma ho visto invece l'ottima serie The Prophecy (1995 e seguenti), che tratta argomenti simili con un ottimo cast e, specialmente all'inizio, ottime idee. Il telefilm soffre di molti dei difetti delle serie contemporanee di urban fantasy o science fantasy, puzza molto di già visto, ma come dicevo prima, merita almeno un paio di prove d'appello.
giovedì 24 luglio 2014
giovedì 3 luglio 2014
Leftovers: quel che resta dell'Umanità
Torno dopo una troppo lunga assenza sulle pagine di questo blog per condividere le mie impressioni sul pilot di una nuova serie che promette di essere oltremodo interessante: The Leftovers.
Questa produzione HBO (sinonimo di garanzia assoluta fin dai tempi di Band of Brothers) è assolutamente geniale fin dal titolo (con il termine leftovers si indicano in inglesi gli avanzi del pasto, gli scarti non mangiabili, come ossa di bistecca, bucce d'arancia, etc.), e racconta la vita delle persone di un immaginario paesino del nord dello stato di New York, Mapleton, tre anni dopo che un misterioso evento ha portato via - letteralmente, sono come svaniti per aria - il 2% dell'intera popolazione del pianeta.
Tratto dall'omonimo romanzo del 2011 di Tom Pollotta - che è anche uno dei produttori esecutivi e supervisori del progetto televisivo - il telefilm ci racconta in modo episodico (seguendo in questo lo schema del romanzo) la vita di alcuni abitanti del paese, di alcuni di questi "avanzi" dello strano pasto cosmico che ha privato il mondo di parecchi milioni di esseri viventi, senza lasciare spiegazione alcuna. Ognuno di loro reagisce a modo proprio, ma su tutto prevale un senso opprimente di nichilismo irrazionale che arriva a permeare lo spettatore simpatetico, grazie anche a una colonna sonora di fondo particolarmente ben collegata con la vicenda (una melodia semplice ma che ti entra dentro, simile, ma non uguale, all'inizio di New Born dei Muse - una delle mie canzoni preferite di sempre) e ad alcune geniali invenzioni narrative (come la setta dei cosiddetti Guilty Remnants, un gruppo di individui che si è imposto il silenzio assoluto - comunicano soltanto in forma scritta - e il fumo continuativo e annichilente, come forma di protesta assoluta verso l'evento che ha cambiato il mondo, e che però buona parte della gente comune, la gente perbene, cerca di dimenticare, di marginalizzare, di ricordare come anniversario annuale, in modo da trasformare un dramma senza senso e capace di annientare la ragione e l'anima di ognuna in una specie di parata rurale).
Ed è propria la presenza di questa setta, che manifesta costantemente la propria presenza, quasi da memento mori, in molti dei momenti del pilot (in un anelito di protesta pacifica e silenziosa, che riesce però a coinvolgere emotivamente, in un senso o nell'altro, altri protagonisti, in una missione apostolica che crea nuovi adepti e pone tanti, inquietanti interrogativi nello spettatore) a risultare l'elemento più straniante, più spiazzante, più capace di far urlare la tua anima interiore.
Lento, opprimente, misterioso e misterico, apparentemente privo di speranza ma latore di un messaggio che potrebbe rivelarsi salvifico, il pilot si insinua inesorabile dentro chi lo guarda, che può sì spegnere il telecomando e lasciar perdere tutto (in fondo, se non lo si interiorizza fin da subito, risulta indubitabilmente noioso), ma più facilmente ne finisce schiavo, succube dei tanti punti interrogativi che lo alimentano, dell'apparentemente placida e monotona vita quotidiana del paesaggio suburbano occidentale, che nasconde le inquietudini di un mondo (il nostro, non quello dello schermo) che da troppo tempo è morto e non se ne accorge ancora.
Sono quindi i giovani, il fratello e la sorella della famiglia protagonista, distrutta non dalle sparizioni, ma dal male interiore che la alimenta, a rivelarsi i simboli più angosciosi e angoscianti dello scenario nichilista abilmente diretto da Peter Berg: l'uno "autista" per ricchi esponenti delle classi elitarie che devono liberarsi del burden che li opprime dal momento dell'evento e che si recano da una specie di santone nero, che vive in una sorta di Waco miscelata con un resort extralusso, che cerca l'amore di una delle protette del guru, e sfugge alle ricerche del padre; l'altra liceale come tante, che si annulla come tutta la sua generazione (che forse ha realmente intenso, a livello intuitivo, se non razionale, come non vi sia alcun futuro per nessuno di loro e come il mondo abbia loro lasciato soltanto gli "avanzi" del pasto luculliano delle generazioni precedenti) in deliranti serate a base di sesso, alcol e droghe, senza nessuno scopo più alto, senza nessun domani, come i protagonisti del racconto di Matheson sulla fine del mondo o come l'intero corpus letterario del grandissimo, e misconosciuto, Thomas Ligotti.
Insomma, forse ne faccio qualcosa di più grande di quanto non sia, ma la visione di Leftovers non lascia indifferenti, non può farlo. Ditemi voi se sbaglio.
Questa produzione HBO (sinonimo di garanzia assoluta fin dai tempi di Band of Brothers) è assolutamente geniale fin dal titolo (con il termine leftovers si indicano in inglesi gli avanzi del pasto, gli scarti non mangiabili, come ossa di bistecca, bucce d'arancia, etc.), e racconta la vita delle persone di un immaginario paesino del nord dello stato di New York, Mapleton, tre anni dopo che un misterioso evento ha portato via - letteralmente, sono come svaniti per aria - il 2% dell'intera popolazione del pianeta.
Tratto dall'omonimo romanzo del 2011 di Tom Pollotta - che è anche uno dei produttori esecutivi e supervisori del progetto televisivo - il telefilm ci racconta in modo episodico (seguendo in questo lo schema del romanzo) la vita di alcuni abitanti del paese, di alcuni di questi "avanzi" dello strano pasto cosmico che ha privato il mondo di parecchi milioni di esseri viventi, senza lasciare spiegazione alcuna. Ognuno di loro reagisce a modo proprio, ma su tutto prevale un senso opprimente di nichilismo irrazionale che arriva a permeare lo spettatore simpatetico, grazie anche a una colonna sonora di fondo particolarmente ben collegata con la vicenda (una melodia semplice ma che ti entra dentro, simile, ma non uguale, all'inizio di New Born dei Muse - una delle mie canzoni preferite di sempre) e ad alcune geniali invenzioni narrative (come la setta dei cosiddetti Guilty Remnants, un gruppo di individui che si è imposto il silenzio assoluto - comunicano soltanto in forma scritta - e il fumo continuativo e annichilente, come forma di protesta assoluta verso l'evento che ha cambiato il mondo, e che però buona parte della gente comune, la gente perbene, cerca di dimenticare, di marginalizzare, di ricordare come anniversario annuale, in modo da trasformare un dramma senza senso e capace di annientare la ragione e l'anima di ognuna in una specie di parata rurale).
Ed è propria la presenza di questa setta, che manifesta costantemente la propria presenza, quasi da memento mori, in molti dei momenti del pilot (in un anelito di protesta pacifica e silenziosa, che riesce però a coinvolgere emotivamente, in un senso o nell'altro, altri protagonisti, in una missione apostolica che crea nuovi adepti e pone tanti, inquietanti interrogativi nello spettatore) a risultare l'elemento più straniante, più spiazzante, più capace di far urlare la tua anima interiore.
Lento, opprimente, misterioso e misterico, apparentemente privo di speranza ma latore di un messaggio che potrebbe rivelarsi salvifico, il pilot si insinua inesorabile dentro chi lo guarda, che può sì spegnere il telecomando e lasciar perdere tutto (in fondo, se non lo si interiorizza fin da subito, risulta indubitabilmente noioso), ma più facilmente ne finisce schiavo, succube dei tanti punti interrogativi che lo alimentano, dell'apparentemente placida e monotona vita quotidiana del paesaggio suburbano occidentale, che nasconde le inquietudini di un mondo (il nostro, non quello dello schermo) che da troppo tempo è morto e non se ne accorge ancora.
Sono quindi i giovani, il fratello e la sorella della famiglia protagonista, distrutta non dalle sparizioni, ma dal male interiore che la alimenta, a rivelarsi i simboli più angosciosi e angoscianti dello scenario nichilista abilmente diretto da Peter Berg: l'uno "autista" per ricchi esponenti delle classi elitarie che devono liberarsi del burden che li opprime dal momento dell'evento e che si recano da una specie di santone nero, che vive in una sorta di Waco miscelata con un resort extralusso, che cerca l'amore di una delle protette del guru, e sfugge alle ricerche del padre; l'altra liceale come tante, che si annulla come tutta la sua generazione (che forse ha realmente intenso, a livello intuitivo, se non razionale, come non vi sia alcun futuro per nessuno di loro e come il mondo abbia loro lasciato soltanto gli "avanzi" del pasto luculliano delle generazioni precedenti) in deliranti serate a base di sesso, alcol e droghe, senza nessuno scopo più alto, senza nessun domani, come i protagonisti del racconto di Matheson sulla fine del mondo o come l'intero corpus letterario del grandissimo, e misconosciuto, Thomas Ligotti.
Insomma, forse ne faccio qualcosa di più grande di quanto non sia, ma la visione di Leftovers non lascia indifferenti, non può farlo. Ditemi voi se sbaglio.
giovedì 29 maggio 2014
Guida al cinema di fantascienza
Oggi mi trovo, smaccatamente, ad autopromuovere un titolo che mi vede fra gli autori: la nuovissima (dovrebbe uscire ufficialmente domani) Guida al cinema fantascienza della casa editrice Odoya, scritta dal sottoscritto, insieme a Gian Filippo Pizzo e Michele Tetro. Con questo volume, il trio raggiunge la mezza dozzina di volumi dedicati al cinema di fantascienza (e fantasy) in poco più di un decennio.
Ancora cinema di fantascienza, direte? Sì, perché no?
Il presente volume, infatti, costituisce una sorta di unicum: diviso in due parti, presenta una prima metà dedicata alla storia cronologica del cinema di fantascienza, dalle sue origini fino a Snowpiercer (l'ultimo film che siamo riusciti a inserire prima di consegnare il testo), divisa in tre parti, ognuna affidata a un diverso autore; così, Gian Filippo Pizzo si occupa del periodo che va dalle origini fino a tutti gli anni Cinquanta, Michele Tetro del trentennio Sessanta-Ottanta (fortunello... ha la parte più interessante, quella dei capolavori...) e io del periodo contemporaneo, dal Novanta a oggi.
In questo modo, i lettori possono farsi un'idea piuttosto approfondita (in alcuni casi, molto approfondita) dell'intera storia del cinema di fantascienza, attraverso tre stili di scrittura diversi, ma affini, capaci di combinarsi molto bene fra loro (ormai, scriviamo insieme da quindici anni, e si vede), ma al tempo stesso di differenziarsi in giudizi e preferenze.
Così, limitandomi a parlare della mia parte - che in gran parte non era stata precedentemente affrontata dalle nostre opere, visto che l'ultimo volume parzialmente assimilabile per contenuto si fermava al 2001 - ho potuto colpire senza peli sulla lingua tutte le magagne del nuovo cinema di fantascienza (il sottotitolo del mio capitolo recita "La morte dell'immaginazione"), la sua estrema ripetitività, il suo essere un mero trionfo di effettistica sempre più sbalorditiva, ma capace di lasciare lo spettatore a bocca aperta non tanto per la meraviglia, quanto per gli sbadigli. Ho potuto, in particolare, crocifiggere a ogni pié sospinto l'opera omnia di Roland Emmerich (tanto che il Perù lo ha fatto cittadino onorario per la quantità di guano con cui l'ho ricoperto), ma non solo.
Ovviamente, non ho solo sparato a zero sulla fuffa che imperversa nelle sale, ma ho anche adeguatamente incensato le poche pellicole meritevoli - ancor di più vista l'orribile concorrenza che li circonda e tende ad assimilare tutto il genere, in perfetto stile Borg (non Bjorn).
Questa prima parte è integrata da un gran numero di box, attraverso i quali abbiamo radunato alcuni argomenti che ci sembrava importante evidenziare: così ho potuto inserire parecchi spunti interessanti e curiosi, come i film tratti da videogioco o, il mio preferito, i presidenti americani nel cinema di fantascienza.
La seconda parte del volume, invece, è un'agile e piuttosto completa mini guida a schede sui registi, gli attori, i personaggi, gli sceneggiatori, i soggettisti, etc. di oltre un secolo di fantascienza sul grande schermo. Ci trovate di tutto, da Kubrick a Matheson, da Margheriti a Predator, da Christopher Nolan a Philip Dick, da Jena Plisken a Barbarella, a decine di altri.
Parte dell'ottima collana di saggistica Odoya, segue l'impostazione grafica del precedente Guida alla Letteratura di Fantascienza (volume cui non ho collaborato, ma che consigli caldamente a tutti gli appassionati - e anche ai non appassionati, che potrebbero diventarlo) ed è quindi riccamente illustrato, pur mantenendo un formato e un costo decisamente apprezzabili.
E a fine anno aspettatevi il nostro prossimo volume (che ci vedrà tutti e tre di nuovo in azione, accanto al validissimo Walter Catalano) per la medesima collana Odoya: Guida alla Letteratura Horror...
Ancora cinema di fantascienza, direte? Sì, perché no?
Il presente volume, infatti, costituisce una sorta di unicum: diviso in due parti, presenta una prima metà dedicata alla storia cronologica del cinema di fantascienza, dalle sue origini fino a Snowpiercer (l'ultimo film che siamo riusciti a inserire prima di consegnare il testo), divisa in tre parti, ognuna affidata a un diverso autore; così, Gian Filippo Pizzo si occupa del periodo che va dalle origini fino a tutti gli anni Cinquanta, Michele Tetro del trentennio Sessanta-Ottanta (fortunello... ha la parte più interessante, quella dei capolavori...) e io del periodo contemporaneo, dal Novanta a oggi.
In questo modo, i lettori possono farsi un'idea piuttosto approfondita (in alcuni casi, molto approfondita) dell'intera storia del cinema di fantascienza, attraverso tre stili di scrittura diversi, ma affini, capaci di combinarsi molto bene fra loro (ormai, scriviamo insieme da quindici anni, e si vede), ma al tempo stesso di differenziarsi in giudizi e preferenze.
Così, limitandomi a parlare della mia parte - che in gran parte non era stata precedentemente affrontata dalle nostre opere, visto che l'ultimo volume parzialmente assimilabile per contenuto si fermava al 2001 - ho potuto colpire senza peli sulla lingua tutte le magagne del nuovo cinema di fantascienza (il sottotitolo del mio capitolo recita "La morte dell'immaginazione"), la sua estrema ripetitività, il suo essere un mero trionfo di effettistica sempre più sbalorditiva, ma capace di lasciare lo spettatore a bocca aperta non tanto per la meraviglia, quanto per gli sbadigli. Ho potuto, in particolare, crocifiggere a ogni pié sospinto l'opera omnia di Roland Emmerich (tanto che il Perù lo ha fatto cittadino onorario per la quantità di guano con cui l'ho ricoperto), ma non solo.
Ovviamente, non ho solo sparato a zero sulla fuffa che imperversa nelle sale, ma ho anche adeguatamente incensato le poche pellicole meritevoli - ancor di più vista l'orribile concorrenza che li circonda e tende ad assimilare tutto il genere, in perfetto stile Borg (non Bjorn).
Questa prima parte è integrata da un gran numero di box, attraverso i quali abbiamo radunato alcuni argomenti che ci sembrava importante evidenziare: così ho potuto inserire parecchi spunti interessanti e curiosi, come i film tratti da videogioco o, il mio preferito, i presidenti americani nel cinema di fantascienza.
La seconda parte del volume, invece, è un'agile e piuttosto completa mini guida a schede sui registi, gli attori, i personaggi, gli sceneggiatori, i soggettisti, etc. di oltre un secolo di fantascienza sul grande schermo. Ci trovate di tutto, da Kubrick a Matheson, da Margheriti a Predator, da Christopher Nolan a Philip Dick, da Jena Plisken a Barbarella, a decine di altri.
Parte dell'ottima collana di saggistica Odoya, segue l'impostazione grafica del precedente Guida alla Letteratura di Fantascienza (volume cui non ho collaborato, ma che consigli caldamente a tutti gli appassionati - e anche ai non appassionati, che potrebbero diventarlo) ed è quindi riccamente illustrato, pur mantenendo un formato e un costo decisamente apprezzabili.
E a fine anno aspettatevi il nostro prossimo volume (che ci vedrà tutti e tre di nuovo in azione, accanto al validissimo Walter Catalano) per la medesima collana Odoya: Guida alla Letteratura Horror...
mercoledì 14 maggio 2014
Un film (ogni tanto): Snowpiercer
L'imminente uscita del nuovo volume della premiata ditta Chiavini/Pizzo/Tetro dedicato alla storia del cinema di fantascienza mi ha spinto a qualche visione aggiuntiva. Ecco quindi che posso riprendere, saltuariamente, a postare qualche breve recensione di alcuni dei film di cui parliamo - più o meno lungamente - nel volume.
Iniziamo con quello che da alcuni critici è considerato il film di fantascienza più interessante dell'ultimo periodo: Snowpiercer.
Personalmente il film non mi ha convinto più di tanto: se ne sente troppo la derivazione fumettistica e possiede molti dei difetti (ma anche dei pregi, beninteso) del cinema fantastico europeo, in questo caso miscelato con prospettive asiatiche, che a mio personalissimo giudizio ne guastano la fruizione complessiva, caricandone il gusto di un esotismo prospettico che mi ha lasciato indifferente.
Certamente, il film è pieno di idee abbastanza innovative, a partire dallo scenario apocalittico dell'umanità costretta a vivere su di un solo treno in perenne movimento attraverso i cinque continenti su di un mondo completamente ricoperto dai ghiacci, ma già da qui se ne nota l'eccesso parodistico, l'improbabilità sardonica che ne caratterizza troppe scene, troppe situazioni.
Questa sorta di Titanic su rotaie, dove la classe più povera inscena una rivolta che vorrebbe portare il proprio leader a prendere il controllo della motrice, permette al regista di mettere sullo schermo tutti gli stereotipi del caso, che richiamano in primis Brazil di Gilliam, ma anche Accion Mutante di De la Iglesia e La città dei bimbi perduti di Caro (con più di una strizzatina d'occhio a veri capolavori dei primi anni Settanta, come I sopravvissuti - e in specie il Soylent verde)
In questa salita al Paradiso, attraverso tutta una serie di vagoni simili a gironi infernali, i protagonisti del film si trovano ad affrontare situazioni troppo spesso paradossali e caricaturali per riuscire a colpire nel profondo lo spettatore. Il film è, secondo me, totalmente privo di quella carica eversiva che poteva avere, ma si limita a presentare bozzetti, di qualità mutevole, prima di inaridirsi in un inutile discorso pre-conclusivo simil "Blade Runner" (forse è questo uno dei motivi dell'improprio accostamento fra le pellicole trovato da qualcuno dei critici evocati in precedenza) e trovare compimento in un finale tanto deludente, quanto probabilmente inevitabile.
Le righe precedenti, mi rendo conto, mostrano una mancanza di gradimento da parte del sottoscritto che è perfino superiore a quella realmente provata: in realtà, il film possiede delle sequenze senza dubbio di buon impatto, alcuni passaggi interessanti, e in definitiva si lascia guardare fino in fondo senza storcere eccessivamente il naso. C'è in effetti molto, molto di peggio. Solo che, mi aspettavo qualcosa di migliore.
Iniziamo con quello che da alcuni critici è considerato il film di fantascienza più interessante dell'ultimo periodo: Snowpiercer.
Personalmente il film non mi ha convinto più di tanto: se ne sente troppo la derivazione fumettistica e possiede molti dei difetti (ma anche dei pregi, beninteso) del cinema fantastico europeo, in questo caso miscelato con prospettive asiatiche, che a mio personalissimo giudizio ne guastano la fruizione complessiva, caricandone il gusto di un esotismo prospettico che mi ha lasciato indifferente.
Certamente, il film è pieno di idee abbastanza innovative, a partire dallo scenario apocalittico dell'umanità costretta a vivere su di un solo treno in perenne movimento attraverso i cinque continenti su di un mondo completamente ricoperto dai ghiacci, ma già da qui se ne nota l'eccesso parodistico, l'improbabilità sardonica che ne caratterizza troppe scene, troppe situazioni.
Questa sorta di Titanic su rotaie, dove la classe più povera inscena una rivolta che vorrebbe portare il proprio leader a prendere il controllo della motrice, permette al regista di mettere sullo schermo tutti gli stereotipi del caso, che richiamano in primis Brazil di Gilliam, ma anche Accion Mutante di De la Iglesia e La città dei bimbi perduti di Caro (con più di una strizzatina d'occhio a veri capolavori dei primi anni Settanta, come I sopravvissuti - e in specie il Soylent verde)
In questa salita al Paradiso, attraverso tutta una serie di vagoni simili a gironi infernali, i protagonisti del film si trovano ad affrontare situazioni troppo spesso paradossali e caricaturali per riuscire a colpire nel profondo lo spettatore. Il film è, secondo me, totalmente privo di quella carica eversiva che poteva avere, ma si limita a presentare bozzetti, di qualità mutevole, prima di inaridirsi in un inutile discorso pre-conclusivo simil "Blade Runner" (forse è questo uno dei motivi dell'improprio accostamento fra le pellicole trovato da qualcuno dei critici evocati in precedenza) e trovare compimento in un finale tanto deludente, quanto probabilmente inevitabile.
Le righe precedenti, mi rendo conto, mostrano una mancanza di gradimento da parte del sottoscritto che è perfino superiore a quella realmente provata: in realtà, il film possiede delle sequenze senza dubbio di buon impatto, alcuni passaggi interessanti, e in definitiva si lascia guardare fino in fondo senza storcere eccessivamente il naso. C'è in effetti molto, molto di peggio. Solo che, mi aspettavo qualcosa di migliore.
venerdì 9 maggio 2014
Terra promessa (e non parlo di Ramazzotti...)
Torniamo dopo parecchio tempo sul blog, con la recensione, del sottoscritto, a una recentissima antologia italiana di fantascienza, che merita un po' di attenzione
Terra Promessa
10 racconti sulla "fanta-decrescita"
a cura di Gian Filippo Pizzo
Edizioni Tabula fati - p. 208 - € 16
Tra i tanti temi toccati dalla
fantascienza, quello economico, come sottolinea il curatore di questa
antologia, Gian Filippo Pizzo, nella prefazione alla medesima, non è
certo stato sempre al centro della narrazione: marginale e
collaterale alla trama, lo si è visto comunque accennato in gran
parte delle distopie dello scorso e del presente millennio, sia
quella letterarie che quelle cinematografiche. Questa snella, ma
interessante antologia di racconti di fantascienza italiana, popolata
di nomi più o meno noti dell'universo fantascientifico nostrano (da
Catani a Grasso, passando per Altomare, Ricciardiello, Battisti,
Graziani, Morgando, Abbate, Debenedetti e lo stesso Pizzo), non vuole
certo colmare la lacuna in modo definitivo, ma più modestamente
porre le basi per un'interessante discussione sull'argomento,
affrontato non nella sua complessità ma in un aspetto particolare.
Il tema scelto, cui gli autori hanno contribuito le proprie idee e le
proprie capacità affabulatorie, è quello molto dibattuto e molto
attuale della "decrescita" - che oltre che con l'economia
ha a che vedere con l'ecologia e in definitiva con l'intero assetto
sociale - e le storie che ne sono scaturite, non tutte ovviamente del
medesimo livello, ma dotate in ogni modo di un alto grado di
leggibilità e scorrevolezza, ce ne mostrano uno spaccato
interpretativo, forse un po' troppo ideologizzato, ma comunque
coerente e capace di far riflettere, cogliendo quindi il bersaglio di
quella che dovrebbe essere una lettura non puramente fine a se stessa
e di intrattenimento, ma un alimento per il lettore interessato.
Assistiamo così a diverse visioni del
futuro prossimo venturo, generalmente accomunate da un qual certo
intrinseco pessimismo di fondo (d'altra parte difficilmente
evitabile, se si vuol rimanere all'interno di scenari realistici e
attualizzabili), una serie di cautionary tales
sufficientemente strutturati da non sembrare troppo ripetitivi, dove
l'elemento portante (la decrescita, appunto) gioca spesso (ma non
sempre) un ruolo fondamentale, rare volte assoggettato ad altre
esigenze narrative più classiche (il rapporto genitore/figlio, la
satira, il contrasto generazionale, gli Dei tecnologia e progresso
colpevoli degli scompensi del nostro povero pianeta e dei suoi
indegni abitanti).
Per quanto minoritaria (vi sono tre
sole scrittrici a fianco di sette autori uomini – ma credo che
siano grosso modo rispettate le percentuali realmente esistenti nel
campo della fantascienza italiana, anzi forse lo sbilanciamento della
presente raccolta è favorevole alle donne) la presenza femminile si
segnala per fantasia e capacità di estrapolazione e i racconti della
Debenedetti, della Abbate e della Graziani (in rigoroso ordine di
apparizione) si segnalano come tra i più interessanti della
raccolta.
In definitiva, la presente antologia si
configura quindi come un utile elemento di discussione, un tassello
di letteratura adulta, che invita alla riflessione su quale dei
nostri futuri possibili possiamo in qualche modo evitare.
Restate sintonizzati: torneremo a breve a parlare di altri libri, quelli del sottoscritto, in uscita a giorni
lunedì 31 marzo 2014
Una sera al cinema: Iron Man 3
Proviamo a iniziare una nuova rubrica, che sarà aggiornata nelle rare occasioni in cui riuscirò a vedere un film (ormai tra consorte e bambina guardo quasi esclusivamente telefilm da diversi anni a questa parte). Con notevole ritardo, ieri ho visto il terzo capitolo della saga di Iron Man sullo schermo, trovandolo a tratti francamente piuttosto noioso, ma nel complesso vedibile.
Tra i punti positivi del film la buona interpretazione di Robert Downey Junior nel ruolo di Tony Stark, personaggio cui ha dotato un fascino particolare che rende abbastanza il fumetto (almeno per come lo ricordo io!!!! Non credo di aver letto nuove storie di Iron Man su fumetto dai tardi anni Settanta...), aggiornandolo ai tempi e alle mode. Alcune scene di azione sono notevoli (la distruzione della casa di Stark sul promontorio, il combattimento finale sulla petroliera dismessa con le decine di armature impegnate...), la trama francamente scarsa (ci voleva anche l'incontro con il bambino che - non so esattamente perché - mi ha ricordato l'incontro dello sceriffo Bud Spencer con il piccolo alieno di "Chissà perché capitano tutte a me").
Deludente lo svilimento di quello che ricordo come il miglior nemico di Iron Man dei tempi d'oro (e uno dei grandi villain della Marvel delle origini), il Mandarino, ridotto a una controfigura di Bin Laden (che poi si rivela in effetti figura di facciata!!), e pessimo francamente il ruolo di villain reale di Guy Pearce, lontano anni luce dai tempi di "Memento".
In sostanza, devo recuperare parecchi film marveliani degli ultimi 5/6 anni per rimettermi in pari, ma questo Iron Man 3 mi ha lasciato un po' di amaro in bocca, dopo che specialmente il primo film mi era piaciuto parecchio (un po' meno il secondo), nonostante le mie remore sul personaggio (da sempre uno di quelli che piacciono meno del corposo universo creato da Stan Lee e compagnia).
Nelle prossime settimane cercherò di sondare quello che viene ritenuto il miglior film super-eroistico di sempre: The Avengers di Whedon. Vedremo...
Tra i punti positivi del film la buona interpretazione di Robert Downey Junior nel ruolo di Tony Stark, personaggio cui ha dotato un fascino particolare che rende abbastanza il fumetto (almeno per come lo ricordo io!!!! Non credo di aver letto nuove storie di Iron Man su fumetto dai tardi anni Settanta...), aggiornandolo ai tempi e alle mode. Alcune scene di azione sono notevoli (la distruzione della casa di Stark sul promontorio, il combattimento finale sulla petroliera dismessa con le decine di armature impegnate...), la trama francamente scarsa (ci voleva anche l'incontro con il bambino che - non so esattamente perché - mi ha ricordato l'incontro dello sceriffo Bud Spencer con il piccolo alieno di "Chissà perché capitano tutte a me").
Deludente lo svilimento di quello che ricordo come il miglior nemico di Iron Man dei tempi d'oro (e uno dei grandi villain della Marvel delle origini), il Mandarino, ridotto a una controfigura di Bin Laden (che poi si rivela in effetti figura di facciata!!), e pessimo francamente il ruolo di villain reale di Guy Pearce, lontano anni luce dai tempi di "Memento".
In sostanza, devo recuperare parecchi film marveliani degli ultimi 5/6 anni per rimettermi in pari, ma questo Iron Man 3 mi ha lasciato un po' di amaro in bocca, dopo che specialmente il primo film mi era piaciuto parecchio (un po' meno il secondo), nonostante le mie remore sul personaggio (da sempre uno di quelli che piacciono meno del corposo universo creato da Stan Lee e compagnia).
Nelle prossime settimane cercherò di sondare quello che viene ritenuto il miglior film super-eroistico di sempre: The Avengers di Whedon. Vedremo...
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martedì 18 marzo 2014
Visioni marzoline
Era un po' che non parlavo più di telefilm su queste pagine, quindi ecco un breve post riassuntivo.
Visto ieri il pilot della versione americana di Les Revenants, interessante serie francese, che ho però abbandonato dopo una puntata (per ragioni varie, principalmente, perché vedere una serie pur con i sottotitoli in una lingua che non riesci a seguire decentemente, francamente non mi diverte). Dal momento che gli americani non buttano via nulla, eccone la versione ammerigana, che inizialmente mi sembra però abbastanza dissimile. Per chi non la conosce la serie originale vedeva una ragazzina tornare tranquillamente a casa dai genitori, ignara di essere stata data per morta quando il suo pullman scolastico era finito nell'invaso di una diga parecchi anni prima. Nella versione USA, abbiamo invece un ragazzino che si sveglia in una risaia cinese, per poi scoprire, attraverso un agente dell'immigrazione (interpretato da Omar Epps, ex assistente di House nell'omonima serie), che in realtà il bambino è morto annegato in un fiume del Missouri 32 anni prima. Il suo ritorno a casa provoca ovviamente sconcerto e inizia a scoperchiare segreti che dovevano restare sepolti (e apre la strada al ritorno di altri "morti"). Vedremo come si sviluppa, per adesso è abbastanza intrigante e sufficientemente diverso dall'originale francese (almeno per quello che avevo visto), da potersi godere senza problemi. Buono il cast, con diverse facce note, viste un po' dovunque nelle serie televisive più disparate (da 70 show a NCIS, passando per Sleepy Hollow).
Divertente, soprattutto per l'azzeccatissima figura del capo ufficio "hitleriano", la nuova sitcom del Jack di Will & Grace. Sean saves the World lo vede padre gay di una giovane adolescente, impiegato di un'agenzia di vendite telefoniche, con colleghi strampalati e una madre (la "Alice" dell'omonimo telefilm anni Settanta/Ottanta) che lo martirizza. E' una sitcom alla fine simile a molte altre, con qualche battuta divertente, altre meno, ma il capo ufficio con i baffetti stile Fuhrer e il comportamento che ricorda quello di Marvin il robot della Guida Galattica a risultare divertentissimo. Vale la pena guardarne qualche puntata solo per lui. La serie è già stata tagliata dall'audience americana dopo una dozzina di puntata. Peccato perché sopravvivono cose molto peggiori...
Visto ieri il pilot della versione americana di Les Revenants, interessante serie francese, che ho però abbandonato dopo una puntata (per ragioni varie, principalmente, perché vedere una serie pur con i sottotitoli in una lingua che non riesci a seguire decentemente, francamente non mi diverte). Dal momento che gli americani non buttano via nulla, eccone la versione ammerigana, che inizialmente mi sembra però abbastanza dissimile. Per chi non la conosce la serie originale vedeva una ragazzina tornare tranquillamente a casa dai genitori, ignara di essere stata data per morta quando il suo pullman scolastico era finito nell'invaso di una diga parecchi anni prima. Nella versione USA, abbiamo invece un ragazzino che si sveglia in una risaia cinese, per poi scoprire, attraverso un agente dell'immigrazione (interpretato da Omar Epps, ex assistente di House nell'omonima serie), che in realtà il bambino è morto annegato in un fiume del Missouri 32 anni prima. Il suo ritorno a casa provoca ovviamente sconcerto e inizia a scoperchiare segreti che dovevano restare sepolti (e apre la strada al ritorno di altri "morti"). Vedremo come si sviluppa, per adesso è abbastanza intrigante e sufficientemente diverso dall'originale francese (almeno per quello che avevo visto), da potersi godere senza problemi. Buono il cast, con diverse facce note, viste un po' dovunque nelle serie televisive più disparate (da 70 show a NCIS, passando per Sleepy Hollow).
Divertente, soprattutto per l'azzeccatissima figura del capo ufficio "hitleriano", la nuova sitcom del Jack di Will & Grace. Sean saves the World lo vede padre gay di una giovane adolescente, impiegato di un'agenzia di vendite telefoniche, con colleghi strampalati e una madre (la "Alice" dell'omonimo telefilm anni Settanta/Ottanta) che lo martirizza. E' una sitcom alla fine simile a molte altre, con qualche battuta divertente, altre meno, ma il capo ufficio con i baffetti stile Fuhrer e il comportamento che ricorda quello di Marvin il robot della Guida Galattica a risultare divertentissimo. Vale la pena guardarne qualche puntata solo per lui. La serie è già stata tagliata dall'audience americana dopo una dozzina di puntata. Peccato perché sopravvivono cose molto peggiori...
domenica 9 marzo 2014
Un pulp al giorno: Passport to the Grave e The All american ace
Chiudiamo l'esame del primo numero della seconda serie di Battle Birds con due racconti piuttosto deludenti: il primo, Passport to the Grave, del praticamente ignoto Rupert P.Chandler, è ancora una volta una sequenza di stereotipi, con un traditore inglese nel mezzo di una squadriglia multinazionale di elite, svelato dal solito scavezzacollo yankee, che ruba perfino un Albatross a un asso tedesco e lo abbatte al termine di un lungo duello.
Perfino minore l'altro, The All american ace, dell'altrettanto ignoto Metteau Miles, su di un all american di football, baseball e pugilato, estremamente fortunato in battaglia e non solo, e come tale propenso ad azioni individuali fuori dai comandi ricevuti, che rischia di abbattere il suo miglior amico (ritenuto abbattuto in terra di nessuno, e morto nell'impatto, che invece è fuggito dalla prigionia tedesca e sta rientrando alla base su di un aereo nemico), e capisce come sia meglio dare ascolto ai superiori.
Molto interessante si rivela invece l'editoriale conclusivo della rivista, che ancora una volta offre uno spaccato della vita dell'epoca e in particolare di come gli Americani sul finire del 1939 vedevano l'andamento del conflitto europeo, ancora nelle sue primissime fasi. Vi si sente tutto l'orgoglio anche un po' smargiasso degli Yankee, ma anche un'autentica preoccupazione per la guerra che, già si sentiva, avrebbe finito per coinvolgere anche loro. Significativa, però, la totale mancanza di riferimento ai Giapponesi e anche una qual certa distanza dal conflitto europeo, senza alcun accenno al Nazismo e al Male assoluto, così come un totale tacere sulla Russia.
Speriamo di avere presto altro materiale del genere, per continuare con passione questa nostra rubrica
Perfino minore l'altro, The All american ace, dell'altrettanto ignoto Metteau Miles, su di un all american di football, baseball e pugilato, estremamente fortunato in battaglia e non solo, e come tale propenso ad azioni individuali fuori dai comandi ricevuti, che rischia di abbattere il suo miglior amico (ritenuto abbattuto in terra di nessuno, e morto nell'impatto, che invece è fuggito dalla prigionia tedesca e sta rientrando alla base su di un aereo nemico), e capisce come sia meglio dare ascolto ai superiori.
Molto interessante si rivela invece l'editoriale conclusivo della rivista, che ancora una volta offre uno spaccato della vita dell'epoca e in particolare di come gli Americani sul finire del 1939 vedevano l'andamento del conflitto europeo, ancora nelle sue primissime fasi. Vi si sente tutto l'orgoglio anche un po' smargiasso degli Yankee, ma anche un'autentica preoccupazione per la guerra che, già si sentiva, avrebbe finito per coinvolgere anche loro. Significativa, però, la totale mancanza di riferimento ai Giapponesi e anche una qual certa distanza dal conflitto europeo, senza alcun accenno al Nazismo e al Male assoluto, così come un totale tacere sulla Russia.
Speriamo di avere presto altro materiale del genere, per continuare con passione questa nostra rubrica
giovedì 6 marzo 2014
Un pulp al giorno: The Valley of the Green Death
Ci stiamo avvicinando alla conclusione del primo numero della seconda serie di Battle Birds con un altro racconto aviatorio a firma Harold F.Cruickshank, un pulper molto attivo in vari campi nel periodo in esame, ma per tantissimi anni legato in particolare ai racconti di guerra (in particolare su Battle Stories e War Stories sul finire degli anni Venti).
Il racconto in esame è un altro classico della narrativa pulp americana: pilota conosciuto per la ricerca della gloria a tutti i costi, giovane testa calda che vuole vendicare il fratello caduto, pare, per colpa del suddetto cacciatore di gloria, scienziato tedesco al contempo celebre asso dell'aviazione che inventa un gas capace di uccidere i piloti, scoperta che il cacciatore di gloria in realtà è un individuo teso soltanto al successo della propria nazione, perdono del testa calda, perché in realtà il fratello è morto per colpe proprie, anzi l'altro lo ha perfino aiutato ad andarsene senza venire riempito di vergogna.
Se la miscela è questa e gli ingredienti sono sempre i soliti, Cruickshank è cuoco sufficientemente abile da tirarne fuori una buona torta, forse non squisita e indimenticabile, ma certamente mangiabile fino in fondo.
Il difetto principale che si può trovare a questo, come a tanti altri racconti del periodo, è l'essere troppe volte costretti in spazi molto limitati, meno di una dozzina di pagine, e questa limitazione forza gli autori all'uso di stereotipi, senza particolari approfondimenti di personaggi o di trama. Noto questa limitazione in particolare in questo tipo di narrativa, avendola trovata molto meno nelle precedenti letture horror e ancor meno in quelle mystery o noir, dove la varietà della trama rende meno visibili questi stilemi.
Ma anche questo sono i pulp e noi continuiamo ad amarli sempre di più.
Il racconto in esame è un altro classico della narrativa pulp americana: pilota conosciuto per la ricerca della gloria a tutti i costi, giovane testa calda che vuole vendicare il fratello caduto, pare, per colpa del suddetto cacciatore di gloria, scienziato tedesco al contempo celebre asso dell'aviazione che inventa un gas capace di uccidere i piloti, scoperta che il cacciatore di gloria in realtà è un individuo teso soltanto al successo della propria nazione, perdono del testa calda, perché in realtà il fratello è morto per colpe proprie, anzi l'altro lo ha perfino aiutato ad andarsene senza venire riempito di vergogna.
Se la miscela è questa e gli ingredienti sono sempre i soliti, Cruickshank è cuoco sufficientemente abile da tirarne fuori una buona torta, forse non squisita e indimenticabile, ma certamente mangiabile fino in fondo.
Il difetto principale che si può trovare a questo, come a tanti altri racconti del periodo, è l'essere troppe volte costretti in spazi molto limitati, meno di una dozzina di pagine, e questa limitazione forza gli autori all'uso di stereotipi, senza particolari approfondimenti di personaggi o di trama. Noto questa limitazione in particolare in questo tipo di narrativa, avendola trovata molto meno nelle precedenti letture horror e ancor meno in quelle mystery o noir, dove la varietà della trama rende meno visibili questi stilemi.
Ma anche questo sono i pulp e noi continuiamo ad amarli sempre di più.
mercoledì 5 marzo 2014
Un pulp al giorno: Eagles fly alone
Per il racconto di oggi, eccoci arrivare all'incontro con uno dei più famosi autori di racconti aviatori dell'epoca dei pulp, il "nostro" Orlando Rigoni, prolifico e valido scrittore di storie di guerra e western nella sua più che trentennale carriera.
Il racconto in esame, "Eagles fly alone", è il migliore di quelli incontrati finora su questa rivista: vi si raccontano le vicende di un gruppo di straordinari piloti americani composto da reietti, tanto abili quanto ingovernabili, che si trovano improvvisamente costretti loro malgrado a cedere alle innovazioni tattiche del combattimento aereo dell'ultimo periodo del primo conflitto mondiale.
Rigoni è molto abile nella descrizione delle battaglie e nella caratterizzazione dei personaggi (stereotipi, se vogliamo, ma dotati di un certo qual gusto tarantiniano ante litteram) e se il racconto, con il consueto lieto fine, può sembrare in fondo fin troppo sdolcinato, possiede un fascino innegabile e numerosi passaggi di narrativa di combattimento di ottimo livello (particolarmente azzeccata, per esempio, per un amante della narrativa orrorifica, la descrizione della fine dell'asso tedesco Von Groeten che si copre il volto con la mano per evitare la salva di traccianti che arrivano dallo Spad nemico, e l'arto viene praticamente disintegrato dai proiettili e il viso che cercava inutilmente di proteggere viene ridotto a una poltiglia sanguinosa).
Speriamo che i restanti racconti della rivista tengano il passo di quest'ultimo, capace di risollevare il pulp dai troppi stilemi visti e rivisti che avevano caratterizzato i racconti precedenti,
Il racconto in esame, "Eagles fly alone", è il migliore di quelli incontrati finora su questa rivista: vi si raccontano le vicende di un gruppo di straordinari piloti americani composto da reietti, tanto abili quanto ingovernabili, che si trovano improvvisamente costretti loro malgrado a cedere alle innovazioni tattiche del combattimento aereo dell'ultimo periodo del primo conflitto mondiale.
Rigoni è molto abile nella descrizione delle battaglie e nella caratterizzazione dei personaggi (stereotipi, se vogliamo, ma dotati di un certo qual gusto tarantiniano ante litteram) e se il racconto, con il consueto lieto fine, può sembrare in fondo fin troppo sdolcinato, possiede un fascino innegabile e numerosi passaggi di narrativa di combattimento di ottimo livello (particolarmente azzeccata, per esempio, per un amante della narrativa orrorifica, la descrizione della fine dell'asso tedesco Von Groeten che si copre il volto con la mano per evitare la salva di traccianti che arrivano dallo Spad nemico, e l'arto viene praticamente disintegrato dai proiettili e il viso che cercava inutilmente di proteggere viene ridotto a una poltiglia sanguinosa).
Speriamo che i restanti racconti della rivista tengano il passo di quest'ultimo, capace di risollevare il pulp dai troppi stilemi visti e rivisti che avevano caratterizzato i racconti precedenti,
martedì 4 marzo 2014
Un pulp al giorno: The Ghost rides West
Terzo appuntamento giornaliero con le avventure di guerra aerea tratte dal primo numero della seconda serie di Battle Birds, del febbraio 1940. L'autore del racconto è Moran Tudury, misconosciuto scrittore pulp attivo nel periodo 1928-1942, autore però di una miriade di racconti sportivi, stando a quanto si ricava dalla Rete. Il breve racconto in esame è l'ennesima variante di idee che oggi francamente sembrano perfino banali: il "Ghost" del titolo è un asso dell'aviazione tedesca, il cui Fokker è ornato di una coppia di teschi bianchi e neri e che sembra capace di risorgere ogni volta dalle ceneri, visto che sembra abbattutto a ogni missione e puntualmente ritorno dall'inferno per mietere morte nei cieli delle Fiandre. Un pilota americano della squadriglia Lafayette lo abbatte, finisce a sua volta abbattuto e poi in un campo di prigionia, dove riceve la visita proprio dell'asso tedesco che lo deride. Ma il crucco commette un errore e Slattery - questo il nome del texano - fugge dal campo, torna dai suoi e vola nuovamente nei cieli in cerca della fantasmatica preda. Ha scoperto come quel pilota sembra invincibile: non vola sull'aereo dotato dei teschi che ogni volta viene abbattuto - al prezzo però di numerosi aerei alleati. Lui si trova in retroguardia, protetto dalla formazione, colpisce in fondo e non rischia mai. Ovviamente Slattery avrà la meglio e il Fantasma volerà verso ovest per non tornare più.
Che altro dire? Già al terzo racconto un pulp aviatorio inizia a stancare: i duelli sono sempre gli stessi, gli stilemi anche, lo spazio di poche pagine non consente una grossa caratterizzazione dei personaggi, manca il sense of wonder che altri pulp possedevano. Resta una lettura fattibile, ma soffre più di altri, forse, il passare del tempo.
Che altro dire? Già al terzo racconto un pulp aviatorio inizia a stancare: i duelli sono sempre gli stessi, gli stilemi anche, lo spazio di poche pagine non consente una grossa caratterizzazione dei personaggi, manca il sense of wonder che altri pulp possedevano. Resta una lettura fattibile, ma soffre più di altri, forse, il passare del tempo.
Un pulp al giorno: Bullets for the Brave
Continuiamo la nostra disamina del primo numero della seconda serie del pulp aviatorio "Battle Birds", con un racconto del poi celebrato giallista David Goodis, che iniziò la sua carriera come autore pulp tout court, particolarmente attivo nel campo aviatorio, appunto.
Questo "Bullets for the brave" possiede tutti gli stilemi del classico racconto pulp "all'inferno e ritorno", con le vicende di un giovane asso dell'aviazione americana, Cal Berry, che dopo essere stato abbattuto da un pilota tedesco, fatica a ritrovare il coraggio di affrontare e cieli e vieni dipinto come vigliacco. Tornato in aria e nuovamente abbattuto in un epico duello, finisce in mezzo alla terra di nessuno, viene catturato dai tedeschi, ruba l'uniforme di un ufficiale tedesco dopo un bombardamento, torna nelle proprie linee, viene accusato di tentata diserzione e condannato al carcere a vita. Prima di venir tradotto sulla nave che dovrebbe riportarlo in patria, fugge, recupera un aereo e sventa una minaccia tedesca, abbattendo perfino il pilota che lo aveva tirato giù dal cielo la prima volta. Si salverà e avrà ripristinato l'onore.
Perfino banale nella sua classica costruzione, il racconto è comunque ben scritto, con un qual certo gusto macabro nelle descrizioni delle morti in trincea e una buona competenza nella narrazione dei duelli aerei, e si nota la stoffa di un autore poi ben conosciuto anche nel nostro Paese (molti dei suoi romanzi gialli sono apparsi sulle collane gialle della Mondadori)
Questo "Bullets for the brave" possiede tutti gli stilemi del classico racconto pulp "all'inferno e ritorno", con le vicende di un giovane asso dell'aviazione americana, Cal Berry, che dopo essere stato abbattuto da un pilota tedesco, fatica a ritrovare il coraggio di affrontare e cieli e vieni dipinto come vigliacco. Tornato in aria e nuovamente abbattuto in un epico duello, finisce in mezzo alla terra di nessuno, viene catturato dai tedeschi, ruba l'uniforme di un ufficiale tedesco dopo un bombardamento, torna nelle proprie linee, viene accusato di tentata diserzione e condannato al carcere a vita. Prima di venir tradotto sulla nave che dovrebbe riportarlo in patria, fugge, recupera un aereo e sventa una minaccia tedesca, abbattendo perfino il pilota che lo aveva tirato giù dal cielo la prima volta. Si salverà e avrà ripristinato l'onore.
Perfino banale nella sua classica costruzione, il racconto è comunque ben scritto, con un qual certo gusto macabro nelle descrizioni delle morti in trincea e una buona competenza nella narrazione dei duelli aerei, e si nota la stoffa di un autore poi ben conosciuto anche nel nostro Paese (molti dei suoi romanzi gialli sono apparsi sulle collane gialle della Mondadori)
domenica 2 marzo 2014
Un pulp al giorno: Last Flight of the Damned
Finalmente riapre questa rubrica, grazie a un nuovo pulp inviatomi da Radioarchive per il proofreading.
Si tratta del numero 1 della seconda serie di Battle Birds, datato 1940, uno dei numerosi pulp aviatori che imperversarono nelle edicole americane fra la fine degli anni Venti e la prima metà dei Trenta, che ebbero una breve ripresa durante il secondo conflitto mondiale, adattando gli argomenti - in precedenza quasi esclusivamente limitati alla Prima Guerra Mondiale - al nuovo scenario planetario in corso di mutamento.
In questo primo numero, le storie sono ancora legate al conflitto sulle trincee e in generale al temporalmente breve intervento statunitense nel medesimo.
Il racconto di oggi è scritto da una delle firme di punta del genere, Robert Sidny Bowen, ed un classico del modo di fare narrativa dei pulp non di primo livello: scrittura scialba e forse neppure riletta, idea generalmente derivativa, capacità affabulatoria limitata ma ben inserita in un contesto standard capace di richiamare lettori. Si tratta di caratteristiche comuni, se ci pensiamo bene, a buona parte dei telefilm odierni.
Comunque sia, il racconto in esame racconta le vicende di un coraggioso - e come altrimenti? - capitano dell'aviazione americana che si trova coinvolto contro l'ultimo ritrovato della scienza militare teutonica, una sorta di raggio laser ante litteram, capace di schiantare in volo numerosi aerei alleati. Trovatosi di fronte al consueto scienziato pazzo e al solito cavalleresco rivale tedesco su Fokker bianco e arancione (una bella livrea, in effetti), il nostro eroe scoprirà la base nascosta da dove opera il curioso marchingegno (praticamente come quando in un gioco di ruolo il GM mette una gomma sopra il punto della mappa che non vuole si esplori) e dopo alcune improbabili peripezie, avrà la meglio. Tutto molto scontato e tutto in realtà piuttosto mal scritto, tanto che mi meraviglio non poco del successo del suo autore, brillante soltanto in alcuni passaggi di combattimento aereo (che d'altra parte devono essere il pezzo forte di un tale prodotto narrativo).
Nonostante questi limiti, oggi assolutamente visibili e non scusabili, il racconto si lascia leggere sino in fondo, pur nella sua scontata banalità, perché possiede - e si sente ancora oggi, invece - tutto il fascino della narrativa pulp e ne rappresenta un esempio medio assolutamente in linea con il tenore del genere in esame.
Nei prossimi giorni vedremo cos'altro ha da offrire questo numero di Battle Birds.
Si tratta del numero 1 della seconda serie di Battle Birds, datato 1940, uno dei numerosi pulp aviatori che imperversarono nelle edicole americane fra la fine degli anni Venti e la prima metà dei Trenta, che ebbero una breve ripresa durante il secondo conflitto mondiale, adattando gli argomenti - in precedenza quasi esclusivamente limitati alla Prima Guerra Mondiale - al nuovo scenario planetario in corso di mutamento.
In questo primo numero, le storie sono ancora legate al conflitto sulle trincee e in generale al temporalmente breve intervento statunitense nel medesimo.
Il racconto di oggi è scritto da una delle firme di punta del genere, Robert Sidny Bowen, ed un classico del modo di fare narrativa dei pulp non di primo livello: scrittura scialba e forse neppure riletta, idea generalmente derivativa, capacità affabulatoria limitata ma ben inserita in un contesto standard capace di richiamare lettori. Si tratta di caratteristiche comuni, se ci pensiamo bene, a buona parte dei telefilm odierni.
Comunque sia, il racconto in esame racconta le vicende di un coraggioso - e come altrimenti? - capitano dell'aviazione americana che si trova coinvolto contro l'ultimo ritrovato della scienza militare teutonica, una sorta di raggio laser ante litteram, capace di schiantare in volo numerosi aerei alleati. Trovatosi di fronte al consueto scienziato pazzo e al solito cavalleresco rivale tedesco su Fokker bianco e arancione (una bella livrea, in effetti), il nostro eroe scoprirà la base nascosta da dove opera il curioso marchingegno (praticamente come quando in un gioco di ruolo il GM mette una gomma sopra il punto della mappa che non vuole si esplori) e dopo alcune improbabili peripezie, avrà la meglio. Tutto molto scontato e tutto in realtà piuttosto mal scritto, tanto che mi meraviglio non poco del successo del suo autore, brillante soltanto in alcuni passaggi di combattimento aereo (che d'altra parte devono essere il pezzo forte di un tale prodotto narrativo).
Nonostante questi limiti, oggi assolutamente visibili e non scusabili, il racconto si lascia leggere sino in fondo, pur nella sua scontata banalità, perché possiede - e si sente ancora oggi, invece - tutto il fascino della narrativa pulp e ne rappresenta un esempio medio assolutamente in linea con il tenore del genere in esame.
Nei prossimi giorni vedremo cos'altro ha da offrire questo numero di Battle Birds.
venerdì 7 febbraio 2014
Il gioco della settimana: Age of Empires III
Cosa? direte. Adesso si mette a parlare anche di giochi per computer? Ma neanche per idea. Il post che avete sotto gli occhi riguarda la versione da tavolo del famoso gioco per PC, una tutto sommata gradevole sorpresa, portata dal nostro "fillerman" di fiducia (così chiamato per la sua capacità di portare all'ultimo momento dei giochi dal regolamento lungo - se non complesso - e spacciarli per riempitivi della serata).
Il titolo è piuttosto fuorviante, visto che il gioco in sé somiglia piuttosto a Sid Meier's Colonization o ancor di più a Gold of the Americas (mitico gioco SSG, di per sé una trasposizione non autorizzata - credo - del mitico SPI Conquistador, firmato Richard Berg, wargame cartaceo della metà degli anni Settanta).
I giocatori, fino a cinque, rappresentano infatti nazioni che intendono colonizzare il Nuovo Mondo per sfruttarne le risorse. Il sistema di gioco, tutto sommato molto fluido, è abbastanza interessante: dopo aver stabilito l'ordine di turno, ciascun giocatore inizia a sistemare le proprie pedine a disposizione per pianificare la propria strategia di gioco. Esistono cinque tipi di pedine: una generica, i coloni (le più diffuse), di cui generalmente ogni giocatore dispone nel numero di cinque a turno; e quattro tipi specializzati, ovvero Capitani (che servono sostanzialmente per avere un bonus nelle azioni di colonizzazione), Mercanti (che danno parecchi soldi se usati come coloni), Soldati (che hanno il duplice scopo di consentire i conflitti e di incassare molti più soldi quando si esplora - con successo - un territorio inesplorato) e Missionari (che contano come due coloni se mandati in una zona da colonizzare).
Durante la pianificazione del turno, il giocatore più scegliere fra parecchie azioni dove sistemare le sue pedine: cambiare l'ordine del turno (che consente di guadagnare posizioni per il completamento delle azioni del turno in corso e di quello seguente, oltre a un guadagno di soldi, che può diventare anche piuttosto consistente, se molti giocatori vi si fiondano);inviare coloni nelle zone esplorate (per acquisire il controllo della medesima, occorre inviare tre coloni prima degli altri; chi ha più coloni prende punti vittoria alla fine di ognuna delle tre ere di gioco - composte da 3, 3 e 2 turni); acquisire merci (che combinate a gruppi di 3 o più forniscono denaro a ogni turno); acquisire vascelli (che servono soltanto come jolly per le combinazioni di merci), preparare spedizioni per zone inesplorate (fulcro del gioco), acquisire tessere speciali (che possono dare pedine in più gratis a ogni turno, denaro, etc.; alcune sono veramente essenziali e chi se le aggiudica ottiene un buon vantaggio), acquisire coloni specializzati (una sola opzione per ogni tipo, più una generica a pagamento) e infine dichiarare guerre (sistema senza dadi: semplicemente ogni soldato elimina un colono avversario).
E' estramemente importante capire che tipo di strategia effettuare nel turno, perché molte delle opzioni sono limitate: per esempio, si possono inviare solo 9 coloni per turno nelle zone esplorate (fra tutti i giocatori, in una partita a cinque), c'è un solo capitano disponibile (il primo che si mette nella casella Capitano impedisce ad altri di farlo in quel turno) e così via. Quindi, essere tra i primi ad agire nel turno ha i suoi vantaggi (ma generalmente chi muove dopo ottiene più soldi come compensazione).
La parte esplorativa è la più divertente: sopra ogni zona inesplorata c'è una pedina che rappresenta il valore delle forze locali da vincere e gli introiti in denaro che si ottengono, oltre ai punti vittoria finali; se la forza di spedizione è almeno uguale al valore della pedina, si vince e si può lasciare un colono in zona, oltre a prendere la pedina e quanto produce in termine soldi punti vittoria; altrimenti, la spedizione fallisce. Le pedine valgono da 2 a 5 punti (mentre le carte - che si cominciano a scoprire, una volta esplorati tutti i territori della mappa - invero pochi - arrivano fino a 6) ed è quindi strategico preparare spedizioni che abbiano almeno cinque punti forza.
Nel complesso il gioco è superiore alle attese, anche se la parte "combattimento" è francamente troppo semplicistica, e soprattutto si offre a semplici possibili varianti, capaci di complicarlo un pochino, senza snaturarlo del tutto.
Se lo trovate a buon prezzo, può valere la pena
Il titolo è piuttosto fuorviante, visto che il gioco in sé somiglia piuttosto a Sid Meier's Colonization o ancor di più a Gold of the Americas (mitico gioco SSG, di per sé una trasposizione non autorizzata - credo - del mitico SPI Conquistador, firmato Richard Berg, wargame cartaceo della metà degli anni Settanta).
I giocatori, fino a cinque, rappresentano infatti nazioni che intendono colonizzare il Nuovo Mondo per sfruttarne le risorse. Il sistema di gioco, tutto sommato molto fluido, è abbastanza interessante: dopo aver stabilito l'ordine di turno, ciascun giocatore inizia a sistemare le proprie pedine a disposizione per pianificare la propria strategia di gioco. Esistono cinque tipi di pedine: una generica, i coloni (le più diffuse), di cui generalmente ogni giocatore dispone nel numero di cinque a turno; e quattro tipi specializzati, ovvero Capitani (che servono sostanzialmente per avere un bonus nelle azioni di colonizzazione), Mercanti (che danno parecchi soldi se usati come coloni), Soldati (che hanno il duplice scopo di consentire i conflitti e di incassare molti più soldi quando si esplora - con successo - un territorio inesplorato) e Missionari (che contano come due coloni se mandati in una zona da colonizzare).
Durante la pianificazione del turno, il giocatore più scegliere fra parecchie azioni dove sistemare le sue pedine: cambiare l'ordine del turno (che consente di guadagnare posizioni per il completamento delle azioni del turno in corso e di quello seguente, oltre a un guadagno di soldi, che può diventare anche piuttosto consistente, se molti giocatori vi si fiondano);inviare coloni nelle zone esplorate (per acquisire il controllo della medesima, occorre inviare tre coloni prima degli altri; chi ha più coloni prende punti vittoria alla fine di ognuna delle tre ere di gioco - composte da 3, 3 e 2 turni); acquisire merci (che combinate a gruppi di 3 o più forniscono denaro a ogni turno); acquisire vascelli (che servono soltanto come jolly per le combinazioni di merci), preparare spedizioni per zone inesplorate (fulcro del gioco), acquisire tessere speciali (che possono dare pedine in più gratis a ogni turno, denaro, etc.; alcune sono veramente essenziali e chi se le aggiudica ottiene un buon vantaggio), acquisire coloni specializzati (una sola opzione per ogni tipo, più una generica a pagamento) e infine dichiarare guerre (sistema senza dadi: semplicemente ogni soldato elimina un colono avversario).
E' estramemente importante capire che tipo di strategia effettuare nel turno, perché molte delle opzioni sono limitate: per esempio, si possono inviare solo 9 coloni per turno nelle zone esplorate (fra tutti i giocatori, in una partita a cinque), c'è un solo capitano disponibile (il primo che si mette nella casella Capitano impedisce ad altri di farlo in quel turno) e così via. Quindi, essere tra i primi ad agire nel turno ha i suoi vantaggi (ma generalmente chi muove dopo ottiene più soldi come compensazione).
La parte esplorativa è la più divertente: sopra ogni zona inesplorata c'è una pedina che rappresenta il valore delle forze locali da vincere e gli introiti in denaro che si ottengono, oltre ai punti vittoria finali; se la forza di spedizione è almeno uguale al valore della pedina, si vince e si può lasciare un colono in zona, oltre a prendere la pedina e quanto produce in termine soldi punti vittoria; altrimenti, la spedizione fallisce. Le pedine valgono da 2 a 5 punti (mentre le carte - che si cominciano a scoprire, una volta esplorati tutti i territori della mappa - invero pochi - arrivano fino a 6) ed è quindi strategico preparare spedizioni che abbiano almeno cinque punti forza.
Nel complesso il gioco è superiore alle attese, anche se la parte "combattimento" è francamente troppo semplicistica, e soprattutto si offre a semplici possibili varianti, capaci di complicarlo un pochino, senza snaturarlo del tutto.
Se lo trovate a buon prezzo, può valere la pena
sabato 18 gennaio 2014
Il gioco del venerdì: Last Will
Abbiamo finalmente ripreso il nostro incontro settimanale del venerdì dedicato ai giochi da tavolo, ed ecco spuntare dal nulla un "curioso" prodotto di origine ceca, Last Will, la cui alta valutazione su Boardgamegeek ha francamente lasciato perplesso i più del mio gruppo.
Ma andiamo con ordine: l'idea alla base è quella del vecchio film anni Ottanta "Chi più spende più guadagna", ovvero liberarsi il prima possibile di tutti i propri averi, per guadagnarsi la ricchissima eredità dell'eccentrico zio. Per far questo, i giocatori si muovono all'interno di un tabellone piuttosto variegato, per aggiudicarsi un certo numero di carte (che rappresentano i vari tipi di spesa che puoi fare per spendere il tuo budget) e cercare di andare in bancarotta prima degli altri.
In sostanza, si tratta di un gioco di carte, che usa un tabellone per controllare quali carte vengono giocate e in che modo.
Allora, la prima azione del turno, è sistemare un proprio segnalino sulla plancia che indica l'ordine di gioco, il numero di carte da pescare, le azioni che puoi provare a fare sulla plancia generale, e le azioni che puoi fare sulla tua plancia di gioco (fondamentale, perché è praticamente solo sulla tua plancia che giochi le carte che ti fanno spendere).
Già questa prima scelta, offre un certo numero di possibilità, ma sfavorisce molto chi gioca più indietro nel turno (in quanto, in una partita a cinque giocatori, l'ultimo a scegliere, solitamente si trova costretto a scelte forzate, e visto che i turni massimi sono sette, chi inizia la partita per primo e quello immediatamente alla sua sinistra hanno una chance in più degli altri di scegliere con più opzioni... non mi sembra molto equo - nonostante poi la nostra partita sia stata vinta da chi giocava come quarto al primo turno, e quindi abbia goduto di un solo turno di prima scelta). In questa prima fase del turno, il giocatore deve decidere cosa privilegiare: se il numero di carte da pescare (la merce da vendere, in pratica), se le azioni sulla plancia (che ti consentono principalmente di variare i differenziali del mercato immobiliare - altro elemento portante per la strategia di gara - e di prendere alcune carte non pescandole a caso dai mazzi ma vedendole direttamente sulla plancia), o il numero di azioni (ovvero carte da giocare e soldi da pagare). Determina anche chi agisce prima nel turno (che può essere importante in qualche occasione, ma non mi sembra così fondamentale - lo è più, secondo me, essere il primo a poter scegliere.
Come detto, il mercato immobiliare gioca un ruolo importante, perché tra le varie carte che si possono pescare (e generalmente si parte con almeno una all'inizio del gioco) ci sono varie proprietà, che si possono acquistare spendendo subito parecchi soldi (di solito da 3 a 5 volte quanto si spende con una carta normale) e poi mantenere (a costi potenzialmente incrementati). La fregatura sta nel fatto che poi bisogna rivendere la proprietà acquistata (auspicabilmente a prezzo ribassato - fino alla metà per poche carte, di solito ci si deve accontentare di un terzo o anche meno) e quindi riprendere un po' di soldi. Ma non si può andare in bancarotta se si hanno proprietà in gioco, quindi il loro utilizzo (come quasi tutto il resto nella partita) deve essere valutato con il bilancino. Considerato il numero di errori piuttosto ampio che abbiamo compiuto (il gioco è relativamente semplice, ma non spiegato benissimo e la mancata conoscenza delle carte e delle loro funzioni precise ha rallentato e alla fine fortemente compromesso la nostra partita), la durata del gioco ci è parsa un tantino eccessiva (ben oltre i 60 minuti previsti sulla scatola) e il divertimento altrettanto moderato (è vero che su questo ha influito una qual certa antipatia d'istinto per il gioco da parte di buona parte dei presenti, senza nessun motivo particolare). Le strategie mi sembrano particolarmente prevedibili e legate a come agire al meglio nelle mosse che ti consentono le scelte più favorevoli e limitare i danni quando sei costretto a prendere quello che resta; d'altro canto, il gioco sembra abbastanza equilibrato (siamo falliti in quattro nello stesso turno di gioco, con il vincitore che ha goduto di un moderato vantaggio in punti sugli altri, a parte uno di noi che ha completamente fallito l'azzardo proprietà e non è riuscito a fallire) e probabilmente, se giocato con più entusiasmo e raziocinio, può anche essere divertente. Ma come nel caso di altri giochi molto ben valutati (leggi Bohnanza, che abbiamo cassato dopo un paio di mani, e Tikal, che non abbiamo neppure provato una volta lette le regole), le peculiarità del nostro gruppo lo rendono tale da essere del tutto mal digeribile dai nostri stomaci, e quindi difficilmente rigiocato
Ma andiamo con ordine: l'idea alla base è quella del vecchio film anni Ottanta "Chi più spende più guadagna", ovvero liberarsi il prima possibile di tutti i propri averi, per guadagnarsi la ricchissima eredità dell'eccentrico zio. Per far questo, i giocatori si muovono all'interno di un tabellone piuttosto variegato, per aggiudicarsi un certo numero di carte (che rappresentano i vari tipi di spesa che puoi fare per spendere il tuo budget) e cercare di andare in bancarotta prima degli altri.
In sostanza, si tratta di un gioco di carte, che usa un tabellone per controllare quali carte vengono giocate e in che modo.
Allora, la prima azione del turno, è sistemare un proprio segnalino sulla plancia che indica l'ordine di gioco, il numero di carte da pescare, le azioni che puoi provare a fare sulla plancia generale, e le azioni che puoi fare sulla tua plancia di gioco (fondamentale, perché è praticamente solo sulla tua plancia che giochi le carte che ti fanno spendere).
Già questa prima scelta, offre un certo numero di possibilità, ma sfavorisce molto chi gioca più indietro nel turno (in quanto, in una partita a cinque giocatori, l'ultimo a scegliere, solitamente si trova costretto a scelte forzate, e visto che i turni massimi sono sette, chi inizia la partita per primo e quello immediatamente alla sua sinistra hanno una chance in più degli altri di scegliere con più opzioni... non mi sembra molto equo - nonostante poi la nostra partita sia stata vinta da chi giocava come quarto al primo turno, e quindi abbia goduto di un solo turno di prima scelta). In questa prima fase del turno, il giocatore deve decidere cosa privilegiare: se il numero di carte da pescare (la merce da vendere, in pratica), se le azioni sulla plancia (che ti consentono principalmente di variare i differenziali del mercato immobiliare - altro elemento portante per la strategia di gara - e di prendere alcune carte non pescandole a caso dai mazzi ma vedendole direttamente sulla plancia), o il numero di azioni (ovvero carte da giocare e soldi da pagare). Determina anche chi agisce prima nel turno (che può essere importante in qualche occasione, ma non mi sembra così fondamentale - lo è più, secondo me, essere il primo a poter scegliere.
Come detto, il mercato immobiliare gioca un ruolo importante, perché tra le varie carte che si possono pescare (e generalmente si parte con almeno una all'inizio del gioco) ci sono varie proprietà, che si possono acquistare spendendo subito parecchi soldi (di solito da 3 a 5 volte quanto si spende con una carta normale) e poi mantenere (a costi potenzialmente incrementati). La fregatura sta nel fatto che poi bisogna rivendere la proprietà acquistata (auspicabilmente a prezzo ribassato - fino alla metà per poche carte, di solito ci si deve accontentare di un terzo o anche meno) e quindi riprendere un po' di soldi. Ma non si può andare in bancarotta se si hanno proprietà in gioco, quindi il loro utilizzo (come quasi tutto il resto nella partita) deve essere valutato con il bilancino. Considerato il numero di errori piuttosto ampio che abbiamo compiuto (il gioco è relativamente semplice, ma non spiegato benissimo e la mancata conoscenza delle carte e delle loro funzioni precise ha rallentato e alla fine fortemente compromesso la nostra partita), la durata del gioco ci è parsa un tantino eccessiva (ben oltre i 60 minuti previsti sulla scatola) e il divertimento altrettanto moderato (è vero che su questo ha influito una qual certa antipatia d'istinto per il gioco da parte di buona parte dei presenti, senza nessun motivo particolare). Le strategie mi sembrano particolarmente prevedibili e legate a come agire al meglio nelle mosse che ti consentono le scelte più favorevoli e limitare i danni quando sei costretto a prendere quello che resta; d'altro canto, il gioco sembra abbastanza equilibrato (siamo falliti in quattro nello stesso turno di gioco, con il vincitore che ha goduto di un moderato vantaggio in punti sugli altri, a parte uno di noi che ha completamente fallito l'azzardo proprietà e non è riuscito a fallire) e probabilmente, se giocato con più entusiasmo e raziocinio, può anche essere divertente. Ma come nel caso di altri giochi molto ben valutati (leggi Bohnanza, che abbiamo cassato dopo un paio di mani, e Tikal, che non abbiamo neppure provato una volta lette le regole), le peculiarità del nostro gruppo lo rendono tale da essere del tutto mal digeribile dai nostri stomaci, e quindi difficilmente rigiocato
martedì 14 gennaio 2014
Un pulp al giorno: Tea Leaves
Torna una delle rubriche cui tengo di più sul mio blog e lo fa con un curioso racconto fantasy molto delicato, opera di un autore non particolarmente noto in Italia, il reverendo Henry S.Whitehead, scomparso nel 1932.
Si tratta del suo primo racconto pubblicato sulle pagine di Weird Tales, per la precisione sul numero del maggio 1924, dove ebbe l'onore di trovarsi fianco a fianco con il suo mentore, H.P.Lovecraft - che qui compariva con un racconto invero minore, "Imprigionato con i faraoni", ghost written per il celeberrimo Harry Houdini.
Se la maggior parte dei racconti successivi della produzione fantastica di Whitehead (che molto di rado, nella sua breve esperienza letteraria, presto troncata dalla prematura morte, si cimentò in generi diversi dal fantastico) sono incentrati sull'ambientazione caraibica e sui misteri magici legati alla religione vudù e ad altre possibili avventure esotiche (il suo personaggio di punta, Gerald Canevin, suo stesso alter-ego, è narratore di una quindicina di storie in gran parte ambientate nei Caraibi, isole in cui lo stesso Whitehead soggiornò a lungo), per questo suo esordio letterario sulla più celebre rivista pulp della storia del fantastico, lo scrittore statunitense sceglie un curioso racconto, Tea Leaves, appunto, che ci narra le vicende di una "bruttina stagionata", una maestrina di paese ormai vicina ai quaranta anni, rassegnatamente zitella che con una botta di vita si regala una crociera in Europa. Appassionata lettrice dei presagi delle foglie del té, durante la navigazione interpreta una lettura come qualcosa che le porterà l'amore. Durante l'ultima tappa della crociera, in uno strano negozio londinese, la donna trova una collana di pietre rosate che nel tempo scoprirà essere appartenuta nientemeno che alla regina Elisabetta (la prima ovviamente); oltre alla ricchezza troverà anche l'amore, sotto forma di un gioielliere coetaneo.
La particolarità del racconto - dal punto di vista della trama piuttosto deludente e appena velato di fantastico (il luogo dove acquista la collana sembra uscito da un fumetto di Dylan Dog e il suo indirizzo è quello nascosto nel presagio delle foglie del té) - è la leggerezza con cui Whitehead maneggia la vicenda e la sua protagonista femminile (molto rara nel resto della sua opera).
Di Whitehead torneremo a parlare molto presto e, se ci seguite anche nelle nostre escursioni librarie, dopo Weinbaum e l'imminente volume sui western howardiani, andremo ad affrontare la narrativa più orrorifica dello scrittore americano.
Si tratta del suo primo racconto pubblicato sulle pagine di Weird Tales, per la precisione sul numero del maggio 1924, dove ebbe l'onore di trovarsi fianco a fianco con il suo mentore, H.P.Lovecraft - che qui compariva con un racconto invero minore, "Imprigionato con i faraoni", ghost written per il celeberrimo Harry Houdini.
Se la maggior parte dei racconti successivi della produzione fantastica di Whitehead (che molto di rado, nella sua breve esperienza letteraria, presto troncata dalla prematura morte, si cimentò in generi diversi dal fantastico) sono incentrati sull'ambientazione caraibica e sui misteri magici legati alla religione vudù e ad altre possibili avventure esotiche (il suo personaggio di punta, Gerald Canevin, suo stesso alter-ego, è narratore di una quindicina di storie in gran parte ambientate nei Caraibi, isole in cui lo stesso Whitehead soggiornò a lungo), per questo suo esordio letterario sulla più celebre rivista pulp della storia del fantastico, lo scrittore statunitense sceglie un curioso racconto, Tea Leaves, appunto, che ci narra le vicende di una "bruttina stagionata", una maestrina di paese ormai vicina ai quaranta anni, rassegnatamente zitella che con una botta di vita si regala una crociera in Europa. Appassionata lettrice dei presagi delle foglie del té, durante la navigazione interpreta una lettura come qualcosa che le porterà l'amore. Durante l'ultima tappa della crociera, in uno strano negozio londinese, la donna trova una collana di pietre rosate che nel tempo scoprirà essere appartenuta nientemeno che alla regina Elisabetta (la prima ovviamente); oltre alla ricchezza troverà anche l'amore, sotto forma di un gioielliere coetaneo.
La particolarità del racconto - dal punto di vista della trama piuttosto deludente e appena velato di fantastico (il luogo dove acquista la collana sembra uscito da un fumetto di Dylan Dog e il suo indirizzo è quello nascosto nel presagio delle foglie del té) - è la leggerezza con cui Whitehead maneggia la vicenda e la sua protagonista femminile (molto rara nel resto della sua opera).
Di Whitehead torneremo a parlare molto presto e, se ci seguite anche nelle nostre escursioni librarie, dopo Weinbaum e l'imminente volume sui western howardiani, andremo ad affrontare la narrativa più orrorifica dello scrittore americano.
giovedì 9 gennaio 2014
Le ruote dentate del calendario maya: prima impressione su Tzolk'in
Il nostro procacciatore di giochi preferito è tornato con la calza della befana carica di un nuovo titolo, dall'aspetto accattivante, che poi si è rivelato "non male" anche come esperienza di gioco.
Si tratta di Tz'olkin, l'ennesimo gioco che si muove sulla scia di Caylus, Village, Agricola e simili, ma con un meccanismo decisamente particolare, che si evince subito dall'assemblaggio del tabellone. E si tratta di un'operazione quasi ingegneristica per chi, come il sottoscritto, è assolutamente negato per le attività fai-da-te: il tabellone infatti comprende una grossa ruota dentata centrale - il calendario maya del titolo - che mette in movimento, come ingranaggi di un meccanismo complesso, altre cinque ruote più piccole, che rappresentano il fulcro del gioco.
Ognuno dei giocatori - fino a quattro - ha come scopo quello di ottenere più punti vittoria degli avversari, attraverso i soliti, numerosi, meccanismi: in questo caso, si fanno punti principalmente attraverso il progresso nei templi delle tre divinità del gioco (con un meccanismo molto simile a Terra Nova), la costruzione di edifici e, soprattutto, monumenti, l'avanzamento delle proprie pedine sulla "ruota" dedicata alle attività religiose, grazie all'uso dei teschi di cristallo (ci sono anche quelli, non manca nulla!), etc. etc.
Come nella maggior parte dei giochi di questo tipo, il giocatore deve accumulare vari tipi di risorsa (principalmente mais, che oltre che a funzioni di sostentamento - fondamentali quando si tratta di cibare i lavoratori, o si rischia di pagare mostruose penalità in termini di punti vittoria negativi - può essere usato come utilissima moneta di scambio in numerose altre funzioni), per cercare di ottenerne altri e arrivare a quelle che ti portano alla vittoria. Ma la caratteristica che lo rende particolare è appunto la presenza del sistema di ingranaggi che serve da tabella dei turni (con quattro turni fondamentali visto che vi si ottengono punti vittoria parziali, risorse aggiuntive, e si paga il mais per nutrire la massa operaia) e da generatore delle azioni che ogni giocatore può effettuare nel suo turno.
A ogni turno, infatti, il giocatore deve scegliere se collocare i propri operai sulle ruote dentate (ognuna delle quali ha una funzione e dei costi diversi; si parte sempre dalla casella libera più bassa) oppure recuperarli ed effettuare l'azione correlata alla posizione raggiunta dall'operaio in base al movimento della ruota.
Questo sistema è il motore della partita e il suo uso consapevole porta alla vittoria. L'interazione con gli altri è, come di consueto, piuttosto limitata, ma ci sono degli artifici tecnici che possono portare a brutte sorprese nella pianificazione delle mosse successive.
Ci sono troppe cose per poterle spiegare tutte in breve e correrei solo il rischio di annegare il lettore in una marea di dati sterili. Basta dire, però, che il sistema scorre fluido e dopo una sola lettura delle regole siamo stati in grado di completare una partita a ranghi completi in circa 90 minuti (rispettando quindi fin da subito i tempi di gioco indicati dalla scatola - che di solito toppano alla grande per difetto). Abbiamo sicuramente compiuto qualche errore (inevitabile, vista la particolarità del meccanismo e la massa delle regole, non tanto la sua complessità, che definirei media) e un paio di interpretazioni di regole hanno dato adito ad accesi (e al momento irrisolti) dibattiti, ma nel complesso la partita è filata via liscia ed è stata godibile.
Che altro dire? Riproveremo sicuramente il gioco a breve, per cercare di confermare la buona impressione iniziale, anche se credo che, come molti dei giochi sopra citati, la sua rigiocabilità sia relativamente limitata (parlo nel lungo periodo) e che si finisca per ripetere grosso modo le stesse strategie, con l'unica differenziazione data quindi dalla scelta delle risorse iniziali o dai monumenti da costruire (entrambe dovute inizialmente all'alea del caso). Ma spero di sbagliarmi
Si tratta di Tz'olkin, l'ennesimo gioco che si muove sulla scia di Caylus, Village, Agricola e simili, ma con un meccanismo decisamente particolare, che si evince subito dall'assemblaggio del tabellone. E si tratta di un'operazione quasi ingegneristica per chi, come il sottoscritto, è assolutamente negato per le attività fai-da-te: il tabellone infatti comprende una grossa ruota dentata centrale - il calendario maya del titolo - che mette in movimento, come ingranaggi di un meccanismo complesso, altre cinque ruote più piccole, che rappresentano il fulcro del gioco.
Ognuno dei giocatori - fino a quattro - ha come scopo quello di ottenere più punti vittoria degli avversari, attraverso i soliti, numerosi, meccanismi: in questo caso, si fanno punti principalmente attraverso il progresso nei templi delle tre divinità del gioco (con un meccanismo molto simile a Terra Nova), la costruzione di edifici e, soprattutto, monumenti, l'avanzamento delle proprie pedine sulla "ruota" dedicata alle attività religiose, grazie all'uso dei teschi di cristallo (ci sono anche quelli, non manca nulla!), etc. etc.
Come nella maggior parte dei giochi di questo tipo, il giocatore deve accumulare vari tipi di risorsa (principalmente mais, che oltre che a funzioni di sostentamento - fondamentali quando si tratta di cibare i lavoratori, o si rischia di pagare mostruose penalità in termini di punti vittoria negativi - può essere usato come utilissima moneta di scambio in numerose altre funzioni), per cercare di ottenerne altri e arrivare a quelle che ti portano alla vittoria. Ma la caratteristica che lo rende particolare è appunto la presenza del sistema di ingranaggi che serve da tabella dei turni (con quattro turni fondamentali visto che vi si ottengono punti vittoria parziali, risorse aggiuntive, e si paga il mais per nutrire la massa operaia) e da generatore delle azioni che ogni giocatore può effettuare nel suo turno.
A ogni turno, infatti, il giocatore deve scegliere se collocare i propri operai sulle ruote dentate (ognuna delle quali ha una funzione e dei costi diversi; si parte sempre dalla casella libera più bassa) oppure recuperarli ed effettuare l'azione correlata alla posizione raggiunta dall'operaio in base al movimento della ruota.
Questo sistema è il motore della partita e il suo uso consapevole porta alla vittoria. L'interazione con gli altri è, come di consueto, piuttosto limitata, ma ci sono degli artifici tecnici che possono portare a brutte sorprese nella pianificazione delle mosse successive.
Ci sono troppe cose per poterle spiegare tutte in breve e correrei solo il rischio di annegare il lettore in una marea di dati sterili. Basta dire, però, che il sistema scorre fluido e dopo una sola lettura delle regole siamo stati in grado di completare una partita a ranghi completi in circa 90 minuti (rispettando quindi fin da subito i tempi di gioco indicati dalla scatola - che di solito toppano alla grande per difetto). Abbiamo sicuramente compiuto qualche errore (inevitabile, vista la particolarità del meccanismo e la massa delle regole, non tanto la sua complessità, che definirei media) e un paio di interpretazioni di regole hanno dato adito ad accesi (e al momento irrisolti) dibattiti, ma nel complesso la partita è filata via liscia ed è stata godibile.
Che altro dire? Riproveremo sicuramente il gioco a breve, per cercare di confermare la buona impressione iniziale, anche se credo che, come molti dei giochi sopra citati, la sua rigiocabilità sia relativamente limitata (parlo nel lungo periodo) e che si finisca per ripetere grosso modo le stesse strategie, con l'unica differenziazione data quindi dalla scelta delle risorse iniziali o dai monumenti da costruire (entrambe dovute inizialmente all'alea del caso). Ma spero di sbagliarmi
sabato 4 gennaio 2014
Il ritorno del figliol prodigo: "Sherlock" terza serie
Ci era mancato. Nonostante "Elementary" non sia da buttare e si lasci guardare con piacere, lo "Sherlock" targato BBC e Benedict Cumberbatch è decisamente di un altro livello e il suo ritorno sugli schermi in questo periodo festivo era l'evento più atteso (prima della quarta stagione di Game of Thrones, ovviamente) per i "malati" di telefilm di gusto raffinato (ma anche no).
E la prima puntata della terza stagione non ha lesinato piacevolezze assortite ai fan dell'investigatore di Baker Street, regalandoci emozioni e divertimento, in un profluvio speziato di citazioni, rimandi, riferimenti interni, battute, smorfie (dell'impagabile Watson), duelli familiari (questi Mycroft/Sherlock sono anni luce superiori nel loro scontrarsi in punta di fioretto ai "poveri" - se confrontati - protagonisti di Elementary), accompagnato da una tecnica di elaborazioni immagini, fatta di sapienti rallentamenti e accelerazioni dei frames, che cattura lo spettatore, lo adagia in un brodo di giuggiole dal primo all'ultimo istante della - lunga - puntata, e lo accompagna soddisfatto alla conclusione, avido di altro nettare - consapevole che anche in questa occasione le puntate saranno soltanto tre, ma tutte da assaporare fino all'ultima stilla.
Deliziosa anche l'idea del club del "carro funebre vuoto" - fondato da chi non crede che Sherlock sia veramente morto -e deliranti e spesso trasgressive le spiegazioni del come si sia salvato dal tuffo dal tetto del palazzo che chiudeva la precedente stagione, al termine dello scontro con Moriarty.
Insomma, devo dirmi completamente soddisfatto dall'inizio della terza serie, e non vedo l'ora di goderne il resto (per breve che possa essere). The game is afoot!
E la prima puntata della terza stagione non ha lesinato piacevolezze assortite ai fan dell'investigatore di Baker Street, regalandoci emozioni e divertimento, in un profluvio speziato di citazioni, rimandi, riferimenti interni, battute, smorfie (dell'impagabile Watson), duelli familiari (questi Mycroft/Sherlock sono anni luce superiori nel loro scontrarsi in punta di fioretto ai "poveri" - se confrontati - protagonisti di Elementary), accompagnato da una tecnica di elaborazioni immagini, fatta di sapienti rallentamenti e accelerazioni dei frames, che cattura lo spettatore, lo adagia in un brodo di giuggiole dal primo all'ultimo istante della - lunga - puntata, e lo accompagna soddisfatto alla conclusione, avido di altro nettare - consapevole che anche in questa occasione le puntate saranno soltanto tre, ma tutte da assaporare fino all'ultima stilla.
Da qui alla conclusione del post ci saranno parecchi SPOILER, quindi OCCHIO!
Che la vicenda narrata nell'episodio sia in definitava assolutamente marginale (il rifacimento dell'attentato di Guy Fawkes attraverso una carrozza della metropolitana carica di esplosivo) conta il giusto. L'intero episodio è giocato sulle emozioni dei protagonisti, sull'umorismo sottile che lo permea per intero, sull'irresistibile sfacciataggine del protagonista, sul suo giganteggiare in un mondo meschino - se a lui confrontato; assolutamente memorabile, in questa prospettiva, lo scambio di battute con Mycroft, sull'impossibilità di quest'ultimo di trovare un minimo di compagnia nel genere umano tutto, quando perfino lo straordinario fratello Sherlock gli risulta inferiore, e il tentativo di Sherlock di "capire" - e ci riesce molto meglio di quanto non voglia far credere - le anime di passaggio che affollano il mondo, rendendolo comunque degno di essere affrontato, in attesa di una nuova sfida, in cerca di avversari degni di Moriarty.Deliziosa anche l'idea del club del "carro funebre vuoto" - fondato da chi non crede che Sherlock sia veramente morto -e deliranti e spesso trasgressive le spiegazioni del come si sia salvato dal tuffo dal tetto del palazzo che chiudeva la precedente stagione, al termine dello scontro con Moriarty.
Insomma, devo dirmi completamente soddisfatto dall'inizio della terza serie, e non vedo l'ora di goderne il resto (per breve che possa essere). The game is afoot!
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