lunedì 28 gennaio 2013

I seguaci del serial killer...amante di Poe

Tra esattamente una settimana, come si vede dai frequenti spot televisivi sulle reti legate a Sky, anche la Fox italiana presenterà il nuovo "evento" televisivo dell'anno: The Following, nuova fatica televisiva di Kevin Williamson, guru anni Novanta di serie cult come Dawson's Creek, ma anche e soprattutto di pellicole come Scream e So cos'hai fatto e, più di qualsiasi altra cosa si voglia dire, The Faculty, film che adoro in modo viscerale e che mi fa porre su un piedistallo il buon Williamson.
Avendo visto la prima puntata in lingua originale, ecco il mio primo giudizio (passibile di revisione futura, dopo aver visto qualche altra puntata del progetto).
Aiutato da un cast importante (Kevin Bacon nel ruolo dell'agente FBI, alcolizzato e fuori dal bureau dopo la soluzione del caso, ma anche e soprattutto James Purefoy nel ruolo del professore di letteratura, appassionato di Poe, poi serial killer - di quest'ultimo si ricorderanno numerose interpretazioni in pellicole fantasy come Il destino di un cavaliere, Il drago e il George, ma soprattutto il ruolo di Solomon Kane nella pellicola omonima tratta dai racconti di Howard, discutibile quanto si vuole ma in fondo piuttosto "ganza"), Williamson sceneggia un pilot ben congegnato, con tutti i puntini sulle "i", prevedibile quanto si vuole (quale dei suoi film non lo è), ma con i meccanismi fluidi e oliati di chi sa il fatto suo, con le citazioni giuste al momento giusto (quale dei suoi film non ne ha), con un'idea di base molto intrigante: quanti "followers" per usare il termine inglese, che chiaramente richiama al linguaggio dei vari Facebook, Twitter e compagnia varia, può avere un serial killer in attesa di essere giustiziato? Cosa potranno fare per lui? Quanti potranno seguirne le orme, dando vita a una confraternita di assassini seriali?
Il pilot pone le domande, fornisce poche risposte (ovviamente non ne riporto nessuna, per non rovinare il gusto della visione a chi vuole seguirlo in italiano), ma si segnala subito come un progetto da seguire per forza per i fan del genere, stanchi della ripetitività di serie ormai abbastanza stanche come Criminal Minds (che pure seguo ancora con affetto, se non con la partecipazione di un tempo) ed epigone.
Nel cast si segnala anche la presenza di Maggie Grace (reduce da Lost) e di Shawn Ashmore (anche lui conosciuto agli appassionati di fantasy per il ruolo di Ged nella miniserie televisiva dedicata al ciclo di Earthsea della Le Guin).
Il fatto che il professore serial killer si ispiri a Poe e la perfezione della bellezza nel momento della morte (comune a molte delle "eroine" dello scrittore bostoniano) rende perfetta la citazione di questo telefilm nel mio blog, ma spero che le premesse si confermino nel lungo termine e che questo The Following sfrutti le potenzialità che indubitabilmente possiede, senza essere sopraffatto dagli stereotipi e dal gusto delle citazioni che sono il marchio di fabbrica di Williamson. A suo onore bisogna dire che con Scream ha rinverdito un genere ormai trito e ritrito come quello dello slasher movie, dandogli un'iniezione di linfa rinvigorente, prima che l'horror virasse brutalmente verso il documentaristico-beota stile Blair Witch Project e purulenti epigoni, o il sadismo viscerale e alla lunga stancante del genere che vede come capofila Saw e ha generato covate di simili carnai - meno male che ogni tanto dal nulla spuntano pellicole come Drag me to Hell per far vedere come i grandi del genere sappiano ancora fare un horror come piace agli intenditori, fine dell'inciso.
Ho quindi buoni auspici per il progetto e spero tanto di non sbagliarmi, così come di creare, con i miei post, una schiera di fedeli followers (come io lo sono stato di Lapo e Chiara con il loro Serie poco serie - ricominciate a scrivere ragazzi!) che segua le mie orme nel tracciare una strada interpretativa nel complesso, labirintico e discontinuo (tre attributii messi lì in modo sostanzialmente caotico, per seguire la regola basilare della triade degli aggettivi, necessaria a completare ed enunciare correttamente ogni sostantivo che scegliate) della fiction televisiva. Fine del predicozzo. Alla prossima

Trenta pirati su una cassa da morto...

Oggi la macchina dei giochi da tavolo ci porta sopra un simpatico gioco tutto nostrano, Libertalia, divertente variazione del ben noto sistema di Citadels.
Ci si può giocare fino a 6 (e più siamo meglio è), e ogni giocatore deve cercare di accumulare il maggior numero di tesori, attraverso 30 diversi personaggi, giocati in tre diverse manche. Come in Citadels, ogni personaggio ha poteri particolari e il loro corretto utilizzo, o mancato tale, porta al successo o alla sconfitta. La cosa notevole è che ogni giocatore, dopo un primo turno in cui ognuno gioca, nel modo che vuole per le sei fasi di ogni turno, con i medesimi personaggi (semplicemente, scegliendo quale giocare in ciascuna fase - ognuna delle quali offre vantaggi o svantaggi, a seconda di come vengono pescate le ricompense per quella fase), nei successivi, oltre ad altri personaggi uguali per tutti, ognuno può giocare ancora i personaggi avanzati dai turni precedenti, rendendo molto diversa e variopinta ogni partita.
Il sistema funziona piuttosto bene, le partite sono molto divertenti, alcuni personaggi sono molto più forti di altri (ma questo succede in qualsiasi gioco dove vi siano dei personaggi diversi - pensiamo a Bang o a Talisman, tanto per citare i primi due che mi sono venuti in mente) e quindi il loro corretto utilizzo è alla base di ogni strategia vincente.
L'argomento piratesco è carino, senza essere straordinario, ma il gioco funziona, è piuttosto rapido e si presta alle prove ripetute anche nella stessa serata.

Per allungare un post altrimenti piuttosto striminzito, vorrei invece segnalare come assolutamente da scansare (almeno per i gusti del mio gruppo, che, come avrete ormai capito, ha idee piuttosto precise ed estremiste su quello che cerca in un gioco) due prodotti invece molto apprezzati - almeno uno - su Boardgamegeek e altrove: il primo è Tikal, gioco di esplorazione di piramidi nelle giungle messicane che da noi è stato scartato dopo la semplice lettura del regolamento (record finora non battuto da nessun altro), nonostante sia stato anche gioco dell'anno sul finire degli anni Novanta; l'altro è un design del mitico Knizia (secondo me terribilmente sopravvalutato come autore di giochi), Palmyra, uscito anch'esso più di una dozzina di anni or sono per la Editrice Giochi, brutto, ma non del tutto ingiocabile, gioco sulle carovane del deserto, con un sistema che non prevede le solite aste care all'autore, ma uno di compra vendita di prodotti, relativamente poco sensato, sicuramente poco divertente, fortunatamente piuttosto rapido e limitato a soli 4 giocatori (con un turno finale praticamente prefissato e poche strategie diverse).
Sono in entrambi i casi giochi da un massimo di quattro giocatori, che vista l'abbondanza di prodotti destinati a un tal numero di partecipanti, il nostro consiglio è di tenere lontano dalla vista e dai tavoli (ma ovviamente, come in numerosi altri casi, si tratta solo di giudizi personali - di un gruppo ormai esperto di quattro/cinque giocatori che ne ha provati diverse decine negli ultimi anni, ma sempre e comunque l'insindacabile giudizio personale di un manipolo di "ragazzi" ormai in là con gli anni, non troppo propensi alla novità assoluta - con la possibile eccezione del sottoscritto - e con gusti ludici ben precisi).

venerdì 25 gennaio 2013

Green Arrow... meglio la Freccia Nera...

Giunti ormai alla decima puntata della serie televisiva tratta dal famoso fumetto Green Arrow della DC Comics, è l'ora di dare un parere sul prodotto: e il giudizio attuale non può che essere, in fin dei conti, piuttosto negativo.
Iniziato sotto i migliori auspici, con attori non particolarmente noti (se si eccettua Paul Blackthorne, interprete del ruolo del Detective Quentin Lace, nemesi del miliardario Oliver Queen - ovvero Green Arrow - nonché padre di Dinah Laurel Lance - la bellissima Katie Cassidy - ex fiamma di Oliver, poi passata fra le braccia del miglior amico del medesimo, ovvero Tommy Merlin), e un plot abbastanza fumettistico, senza debordare negli effetti speciali (il budget sembra limitato), con il trascorrere delle puntate sta iniziando a diventare sempre più parlato e inamidato, con l'azione che inizia a vedersi sempre più con il lanternino (l'ultima puntata è stata una noia mortale), mentre si intensificano le sottotrame amorose, che inficiano il godimento del comics trasposto sullo schermo.
E dire che invece, all'inizio, in particolare la sottotrama relativa al naufragio e i lunghi anni trascorsi sull'isola del giovane miliardario viziato - fucina del suo diventare Green Arrow - mi era sembrata foriera di ottime prospettive, di un fumetto trasposto in TV senza esagerare con gli effetti e il lato più infantile dei comics, ma con una qual certa cura filologica nel riproporre il mondo della DC Comics (senza toccare i grandi come Superman e Batman), mostrandoci pian piano altre presenze di quel mondo (da Deathstroke, a Huntress, a parte delle Birds of Prey). Ma da un po' di puntate a questa parte, tutto sembra essersi spento, il piacere iniziale si sta trasformando in stanca routine, e non sono troppo certo di voler continuare a seguirlo.
Peccato, perché dopo che un paio di anni or sono il promettente (almeno secondo me) The Cape era stato bruscamente interrotto, cadendo sotto la mannaia dell'audience, si sentiva il bisogno di un prodotto analogo, stavolta anche di derivazione aulica, in grado di rinverdire i fasti di vecchie serie TV (senz'altro più fracassone, come la Wonder Woman anni Settanta e Ottanta). Invece, eccoci più propensi a infamare che non a incensare le avventure dell'arciere dal cappuccio verde, tanto che come asserisco nel titolo, si sente quasi la mancanza di sceneggiati d'altri tempi, come La freccia nera di Anton Giulio Majano, tratto dall'omonimo romanzo di Robert Louis Stevenson, trampolino di lancio per la giovanissima e del tutto sconosciuta Loretta Goggi.
Se si aggiunge a questo la notizia della prematura (ma in fondo nemmeno troppo) scomparsa di un'altra serie super-eroistica sui generis, quell'Alphas, che andava di stagione in stagione trasformandosi sempre più in un clone senza costumi degli X Men, ecco che si apre lo scenario per qualche altro ingresso importante nel ristretto novero dei derivati (e non mi riferisco alle operazioni bancarie) dei comics books. Speriamo che venga riempito in modo adeguato

giovedì 24 gennaio 2013

Presidenti americani a confronto...

In attesa di vedermi il nuovo colossal targato Spielberg, Lincoln, ieri sera mi sono concesso la visione del primo episodio di una nuova sitcom statunitense: 1600 Penn, ovvero la vita di un presidente americano circondato da una famiglia piuttosto disfunzionale.
L'impressione è piuttosto negativa: nonostante Bill Pullman riprenda il ruolo di presidente degli Stati Uniti, dopo esserlo già stato in uno dei più grandi polpettoni fantascientifici della storia, l'inguardabile Independence Day, e gli sia accanto una sempre più bella Jenna Elfman (l'indimenticabile Dharma Finkelstein del diverntessimo Dharma e Greg) nel ruolo di  first lady-oggetto alle prese con il nugolo di figli e figlie ricevuti in eredità dalla precedente moglie del presidente, il telefilm si risolve in una serie di gag piuttosto mediocri, indeciso sul livello di grevità da far scendere sulla serie, tenendosi in un limbo pericolosamente asettico.
Così, se il figlio universitario a oltranza, idiota come pochi, ma alla fine risolutore di questioni di portata internazionale, risulta un clone spiccicato di Jack Black in un qualsiasi suo ruolo (alcune gag strappano una risatina, di cui ci si vergogna subito dopo), gli altri membri della famiglia come la figlia maggiore, presa a modello di perfezione, ma ora incinta, e la coppia di figli minori (maschio e femmina studenti delle medie, in competizione amorosa per la stessa ragazza) per adesso sono caratteri appena abbozzati.
Insomma, c'è secondo me troppa carne al fuoco per il poco tempo a disposizione, si è voluto prendere in giro la famiglia presidenziale senza avere il coraggio di colpire in modo spietato, si è originato una serie "rimpiazzo" (ovvero le serie televisive che subentrano a metà stagione quando gli ascolti della serie originariamente prevista in quella slot oraria hanno decretato l'epurazione della medesima) che puzza lontano un miglio di serie rimpiazzo, ed è molto facile che duri molto, molto poco.
C'è di molto meglio, anche se non sono particolarmente esperto di sitcom attuali, a parte l'imperdibile The Big Bang Theory

Galleria di Carneadi: Bill Brent

Questa volta parliamo di un personaggio apparso numerose volte sulle pagine della mitica rivista pulp Dime Detective nel corso degli anni Quaranta, per la precisione in quindici racconti e romanzi brevi dal 1941 al 1946 (almeno stando alle asserzioni della Battered Silicon Press, la piccola casa editrice americana che pochi anni fa ha pubblicato in un volume a tiratura limitata, e dal prezzo altissimo, le "Compleat Adventures" del Nostro).
Creato da Frederick C.Davis (giallista famoso anche per altri personaggi poco noti - o del tutto ignoti - al pubblico italiano, dei quali forse ci capiterà di parlare in futuro), Bill Brent è un intraprendente (leggi: perenne rompiscatole) giornalista che si crede investigatore, costretto suo malgrado a vestire i panni Lorna Lorne (avete notato una cosa: i nomi e cognomi con la medesima iniziale non sono un marchio di fabbrica della Bonelli e neppure dei super-eroi Marvel, nonostante la celebre dissertazione a riguardo di Rajesh Koothrappali in una puntata - adesso non ricordo quale - del mai sufficientemente celebrato The Big Bang Theory; evidentemente risalgono già al periodo dei pulp, se non a prima...), il suo fantomatico alter-ego femminile che cura la rubrica della posta del cuore nel giornale per cui lavora, il New York Recorder.
Alla costante ricerca del modo di togliersi dall'ingrato compito - che in realtà sotto sotto adora - di vestire i panni femminili e rispondere in modo adeguato alla miriade di lettere che riceve (è la rubrica di punta del giornale), Brent si impiccia di tutti i casi irrisolti della polizia locale, e, con sopraffina abilità, riesce ogni volta a trovare la soluzione del problema prima del poliziotto incaricato di risolverlo (secondo uno schema caro alla coppia Holmes-Lestrade).
Per il mio attuale incarico di proof-reader per la Radioarchives, mi è capitato di leggere proprio in questi giorni uno dei romanzi brevi dedicati al personaggio, che in precedenza, devo dire la verità, mi era del tutto ignoto, e sono rimasto folgorato: è una storia geniale, un mystery tanto in fin dei conti banale per il fondo della trama (un incidente domestico che porta a una serie di delitti per venire in possesso di una cospicua eredità), quanto mirabilmente strutturato, deliziosamente ritmato e ironicamente descritto da Davis. Se il buongiorno si vede dal mattino, Davis è un signor giallista, un eccellente autore pulp, e il suo Brent/Lane un giano bifronte, un doctor Jekyll e sister Hyde, veramente indimenticabile, un misto di humour e cinismo, di sventatezza e brillantezza mentale, che richiama forse vagamente alla memoria le atmosfere della serie di pellicole sull'Uomo Ombra della coppia Powell-Loy, ma non è priva di colpi di scena e atmosfera molto più pulp (ad esempio l'inizio, con due efferati omicidi di un lattaio e di un donnaiolo fedigrafo, avvenuti davanti a una donna seminuda nel gelo dell'inverno newyorkese, mette subito la vicenda su di un binario noir, che poi sembra svanire in un tunnel, per riemergere nel finale, insieme a tutti quanti gli altri binari che nel frattempo si sono dipanati nella trama, in una specie di stazione centrale che li accoglie tutti quanti in modo straordinariamente efficace.
Insomma, un autore e un personaggio che meritano una scoperta (o riscoperta, anche se non credo che niente di Davis e Bill Brent sia apparso in Italia), e spero proprio che da Radioarchive venga fuori qualche altra gemma sul personaggio (visto che i pulp originali in cui sono uscite queste storie costano centinaia di dollari e la raccolta completa non molto meno).

Allenatore di orchi

Un altro degli acquisti dell'ultimo quarto del 2012 è stato Blood Bowl Team Manager, gioco di carte per 2-4 giocatori, liberamente ispirato al mitico gioco da tavolo della Games Workshop. Spinto all'acquisto dalla possibilità di rigiocare in modo diverso a uno dei pochi giochi, in fin dei conti, che mi aveva dato la possibilità di partecipare a un torneo ai tempi di Stratagemma (essendo gli altri Subbuteo e, ovviamente, Formula dè... che ricordi meravigliosi dei sabato pomeriggio trascorsi a combattere a suon di seste e dadi a 30 faccia... e la regola Jenson Button... basta, altrimenti mi commuovo), avevo incautamente sperato che fosse giocabile anche in più di 4 (essendo il mio gruppo del venerdì composto da un totale di cinque membri, sostanzialmente assidui); in realtà, giocarlo in 5 risulta una forzatura e infatti l'unica partita giocata in cinque aveva lasciato un po' di amaro in bocca. Riprovato invece qualche tempo fa in quattro giocatori, Blood bowl team manager si è rivelato un ottimo gioco, con un buon sistema (che sicuramente ho in mente di riadattare per qualcosa di diverso), possibilità di infiniti duelli contro gli avversari (e in questo una piacevole variazione dall'infinito numero di giochi del nostro gruppo, pur molto diversi fra loro, che ti fanno giocare praticamente da solo, con minima interazione con gli avversari e quindi, poco sugo), capovolgimenti di classifica inattesi e molte altre piacevoli "spezie" per un piatto già di per sé godibile.
Il gioco vi mette alla guida di una squadra di Blood Bowl e in competizione con gli altri manager attraverso una serie di tornei o partite, prendendo parte alle quali (e possibilmente vincendo), si acquisisce la possibilità di arricchire la squadra di Star Players e di numerosi aiuti che possono portare il team più vicino al successo, che qui viene calcolato in base al numero dei tifosi che si hanno alla fine.
Il sistema fila liscio senza grossi intoppi, una partita dura meno di due ore, le squadre sembrano abbastanza equilibrate (e dotate delle caratteristiche già riscontrabili nel gioco originale), l'attesa per l'imminente espansione che aggiunge Vampiri, Non Morti e Elfi Scuri al roster attuale (dato da Umani, Chaos, Orchi, Nani, Elfi silvani e Skaven) cresce in modo esponenziale.
Da riprovare più volte, non appena saremo di nuovo in quattro... consigliato agli amanti del gioco originale, che non hanno il tempo di fare un vero torneo (anche online, visto che dovrebbe sempre essere attivo l'ottimo sito che consente di giocare alla versione Java del gioco originale; senza contare che da poco tempo è arrivata in edicola a un prezzo irrisorio - 9.95 euro - la versione PC di Blood Bowl, perfino nella Legendary Edition, che dovrebbe avere disponibili grosso modo tutte le squadre del mondo di Blood Bowl, compreso tutte quelle qui non presenti, come uomini lucertola, nani del caos, amazzoni, elfi alti, e varie altre che ora mi sfuggono).
Insomma, gli appassionati del gioco hanno di che gioire: per quanto ciclicamente fuori produzione nella versione base da tavolo, Blood Bowl ha trovato il modo di risorgere in molti modi e maniere, dando a tutti quanti la possibilità di assaporarne e goderne l'infinito potenziale ludico.

domenica 20 gennaio 2013

C'è vita su Marte...secondo Thornton Ayre!

Visto che sono stato preso come proofreader da Radioarchives.com, inizierò a postare dei brevi post dedicati alle mie "letture" pulp.
Iniziazmo con il mio test di prova (andato bene, visto che mi hanno accolto nel team), riguardante un breve racconto di fantascienza di Thornton Ayre (pseudonimo di John Russell Fearn, scrittore inglese di fantascienza, noto come l'uomo dai mille nomi, per aver pubblicato storie sotto decine di pseudonimi - il più noto dei quali, qui da noi, è Vargo Statten), apparso sul primissimo numero della rivista Super Science Stories, del Marzo 1940.
Leggere una storia di questo tenere è una ventata di "folle" freschezza, se paragonata a quanto si legge al giorno d'oggi: piena di errori lessicali, con una punteggiatura riprovevole, ripetizioni di termini a ogni pié sospinto, insomma, da matita blu e rossa professorale ogni due righe, ma anche pazzamente divertente, una vera zozzeria per i gusti contemporanei,ma così dannatamente pulp da amarla subito!
La trama è già un gioiellino di assurdità: nel 1980 l'uomo ha raggiunto il totale dominio dei cieli (ma non dello spazio, a quanto sembra) e centinaia di auto volanti solcano l'atmosfera a varie altezze. Gli addetti a una delle sonde di controllo del traffico poste a chilometri di altezza captano uno strano segnale radio, da cui fuoriesce la dolcissima voce di una cantante dal nome sconosciuto. Subito dopo, una forza inarrestabile strappa il loro cavo di attracco e li trascina con sé in una folle corsa spaziale che (con la velocità del viaggio a cavallo del Gladiatore ferito da Vindobona all'assolata Spagna nel pulp romano di Ridley Scott) si conclude nientemeno che su Marte, pianeta abitato da un cordiale dittatore mussoliniano, che ha inventato una mega-calamita gigante, capace di trascinare aeronavi da un pianeta all'altro, che intende sfruttare i prigionieri perché convincano gli stupidi Terrestri a costruire un marchingegno analogo sul loro pianeta, per aprire le porte all'invasione marziana. I due terrestri, con l'aiuto della bella cantante di cui sopra (in realtà regina del pianeta rosso - diventato verde e azzurro nel frattempo - sotto mentite spoglie), sventeranno la minaccia marziana, facendo sfragellare nei dintorni di New York l'intera flotta d'invasione (costituita da un nugolo di emeriti imbecilli, vista la facilità con cui si fanno buggerare).
Aldilà della pochezza della trama, il racconto è estremamente divertente, nella delirante follia cui accennavo prima: stracolmo di stereotipi, con il personaggio femminile ridotto a una macchietta (ovviamente, uno dei due protagonisti maschili la sposerà, dopo essersene innamorato a prima vista, senza che la donna dica assolutamente nulla a riguardo), è comunque ricco di idee tanto folli quanto interessanti: per esempio, Marte appariva rosso e disabitato agli occhi dei telescopi terrestri, perché molte centinaia di anni prima, per difendersi da un'invasione aliena, i marziani autoctoni avevano ricoperto l'intero pianeta di un guscio metallico, arrugginitosi a causa degli scarichi fognari (ecco spiegato il colore rosso: era ruggine!); ma gli invasori avevano parzialmente crettato la copertura (ed ecco spiegati i canali di Marte!) ed erano penetrati all'interno, portando a una lunghissima battaglia, conclusasi con un lungo periodo di barbarie, la commistione dei due popoli e la rinascita di un nuovo Marte, guidato da un folle dittatore da operetta, che avendo captato le trasmissioni radio terrestri (ecco il motivo per cui i Marziani parlano inglese e nessuna lingua locale!), non pensa di meglio che conquistare anche il nostro pianeta.
Divertente la risposta della regina marziana a uno dei terrestri che chiede come mai, oltre alla lingua, i marziani siano del tutto simili ai terrestri anche dal punto di vista fisico: la regina dice che è stato sempre l'effetto della radio. I suoi progenitori erano un po' diversi, ma loro si erano adattati... grandiosa!
Insomma, se queste sono le premesse, credo proprio che mi divertirò un sacco a leggere queste storie della pulp fiction del passato e anche voi con me, se avrete la pazienza di seguirmi, in questi miei deliri giornalieri...

venerdì 18 gennaio 2013

Lotito docet, o come abusare del latino e renderlo una lingua comica

L'idea di questo post mi è venuta ascoltando un po' di trasmissioni politiche negli ultimi giorni: avrete certamente notato come accanto all'abuso di termini inglesi (spread, spending review e compagnia cantante), molti dei più o meno celebri candidati a sistemarsi per la vita... ehm, volevo dire a rivestire il prestigioso e onorevole incarico di nostro rappresentante in una delle due camere parlamentari, sfoggino un uso colloquiale di locuzioni latine, assolutamente prive di senso nel contesto in cui vengono citate, secondo la scuola del grande (in senso comico, ovviamente) presidente della Lazio, Claudio Lotito.
Ecco così sortir fuori dalle bocche di cotanti signori (penoso tentativo di imitatio - toh, il latino! - dantesca), cose tipo rebus sic stantibus (stando così le cose), stricto sensu (in senso stretto), lato sensu (in senso lato) e via giù con inserti del genere, del tutto privi di senso (per accompagnarmi alle ultime due frasi citate), messi lì per parlar bene, ma soprattutto, in puro stile Azzeccagarbugli (già avevano capito tutto ai tempi del Manzoni, anzi ai tempi dei Promessi Sposi, ovvero primo trentennio del Seicento), per confondere le idee alla gente semplice, che guarda la televisione a quelle ore del mattino o della notte (o che portano dei poveri capponi a un bieco avvocatucolo per poter avere un consulto sulla possibilità di sposarsi o meno... un post più polposo sui Promessi Sposi giungerà a breve, promesso)
Se in taluni casi, la citazione latina - alla Lotito - può servire come sfoggio culturale e anche per ottenere un effetto divertente e di captatio benevolentiae (via, non c'è verso, ho preso anch'io la Lotite) da parte dello spettatore smaliziato, nella maggior parte dei casi non serve assolutamente a niente. I tre esempi citati sopra, che tipo di vantaggio portano nell'inserirli nella frase, se non per sembrare falsamente sardi (con un profluvio di finali in "u"), o per dimostrare che parlano in modo diverso da come mangiano (vedeteci pure un doppio senso in quel verbo "mangiare")? Se tali formule, tutte riprese dal mondo degli avvocati e dei tribunali, possono avere un minimo di diritto di cittadinanza in un contesto forense (per la tradizione del diritto romano che arriva fino a noi - anche se in modo più consistente nel mondo anglosassone, dove formule come habeas corpus e simili sono proprio parte integrante del sistema di leggi), inserite nella bocca del signor nessuno di turno, sia esso di centro, di destra o di sinistra (gli strafalcioni non hanno colore politico) producono un effetto comico esilarante (o altrimenti le lacrime agli occhi vengono per la depressione che ci coglie nel vedere chi finirà per rappresentarci... mi sovvengono alla mente le parole di una celebre canzone dei Sex Pistols riguardo a chi dovrebbe realmente governare in the UK e mi chiedo se non sia davvero l'unica soluzione per togliere un po' di poltrone e di bambagia da sotto le chiappe di quegli infami figuri che si tirano palline di carta e fanno le linguacce per 16 mila euro al mese... ma non esiste un ufficio del Preside?), anche perché spesso fanno figure di cacca veramente da finire sottoterra (come la completa resa sarda del precedente stricto sensu diventato strictu sensu, o peggio un simul stabunt vel simul cadent (ovvero insieme staranno così insieme cadranno, altra frase fatta del gergo giuridico), pronunciata erroneamente da non ricordo quale candidato montiano in una trasmissione televisiva (disse cadunt, presente indicativo, invece di cadent, futuro semplice), che fu corretto nientemeno che dall'ex ministro Brunetta (che almeno dimostra di sapere il latino, che è già qualcosa).
Insomma, da amante viscerale della lingua latina quale mi pregio di essere, chiedo un po' di decenza ai signori candidati alle prossime politiche: finitela con l'uso di locuzioni avite, di frasi del gergo giuridico, di rimpasti maccheronici che farebbero drizzare i capelli al Folengo (andate su Wikipedia a vedere chi è se non lo sapete, mi sono scocciato di digitare parentesi più lunghe del testo... ecco, lo sto facendo un'altra volta!), e cercate di dire poche cose, semplici, in un linguaggio comprensibile anche alla nonna con la quinta elementare (che probabilmente vale almeno quanto il diploma superiore di oggi, quanto a competenze scolastiche, ma di questo parlerò un'altra volta), senza mascherare il vuoto che avete nelle vostre teste con della fuffa a mazzetti (per citare la Gialappa, che merita senza dubbio di essere citata più del Digesto - ancora Wikipedia, please).

giovedì 17 gennaio 2013

Finalmente Moriarty!

E' da un po' che stavo valutando se postare qualcosa relativo a Elementary, la nuova versione "ammerigana" delle avventure del nostro beneamato Sherlock Holmes, abbellita di numerose trovate "eretiche" nei confronti del canone sacro: aldilà dell'ambientazione contemporanea (già sperimentata con notevole successo in Sherlock - ma è una produzione BBC, quindi sacra per definizione), il setting newyorkese (già toccato in un film TV con Roger Moore nel ruolo di Holmes, se non erro - vado a memoria) e soprattutto la presenza di un Watson in gonnella (aargh! Peggio di un graffio sulla lavagna!! E invece, no, in fondo in fondo...) avevano solleticato le attese dei fan meno integralisti, e quindi del sottoscritto.
Giunti alla dodicesima puntata della prima serie è il caso di cominciare a parlarne, anche perché - finalmente - si sente aria di Moriarty (e figurati, poteva forse mancare?). In realtà, Moriarty agisce per interposta persona, il notevole Vinnie Jones (ex difensore del Tottenham e sorta di Danny Trejo di Albione quanto a comporsate e ruoli costruiti con lo stampino- che non a caso, nel telefilm, durante lo svolgimento dei suoi compiti di assassino sintonizza il televisore delle vittime per guardarsi le partite dell'Arsenal - eccellente ironia, per un ex-giocatore degli Spurs!), ma immagino che dopo le rivelazioni sul suo essere il vero mandante morte di Irene Adler (ovviamente unico vero amore di Sherlock... per quale motivo pensate che mia figlia si chiami appunto Irene... Sherlock forever!), si aprono le porte alle dodici successive puntate della stagione che forse inizieranno a essere più collegate da un filo unico nella trama.
Holmes è un giovane ex-tossicodipendente, figlio di genitore tanto ricco quanto ben poco sensibile, che lo affida alle cure di Joan Watson per tenerlo sulla buona strada. Spostatosi a New York dalla natia Londra, vi troverà un ex ispettore di Scotland Yard (interpretato da Aidan Quinn... quanti se lo ricordano accanto a Madonna e Rosanna Arquette in Cercasi Susan disperatamente? Ah, i beati anni Ottanta!), che subito lo utilizza come consulante nella risoluzione dei casi più strani e difficoltosi.
Attori carini, setting meno, trame altalenanti, alcune ottime, altre meno, indubitabilmente inferiore al citato Sherlock (che adoro follemente), ma comunque godibile e necessario per i fan, come il sottoscritto.
Aspetto quindi con ansia la seconda parte della stagione, che riprenderà - in lingua originale - fra un paio di settimane.
Nel contempo, visto che credo sia partito su Raidue in versione italiana proprio la scorsa domenica, non perdetevelo. C'è un sacco di roba peggiore in TV e spero proprio che questa serie sopravviva (visto che la BBC sembra molto incerta su di un'eventuale terza serie di Sherlock - anche perché Watson si è messo in testa di togliere il suo Tesssorroo a un poveraccio che non aveva fatto nulla di male... dannato Jackson!).

Eroi Fantasy ? No, piloti di formula uno svizzeri!

Proseguendo nella nostra galleria di carneadi, questa volta tocchiamo il magico mondo della Formula Uno dei tempi d'oro, i primi anni Cinquanta (e in realtà anche la fine degli anni Quaranta, quando ancora non esisteva un campionato mondiale vero e proprio, ma si svolgevano decine di gare ogni anno in ogni parte del mondo), quando correre in automobile era veramente pericoloso (in alcuni anni i piloti defunti durante competizioni e prove si contano con le dita di più di due mani...) e non si prendevano certo gli stipendi inauditi degli "eroi" moderni.
Spulciando vari siti internet e altre pubblicazioni a caccia di dati per i miei giochi dedicati al dorato mondo della formula uno classica (chi fosse interessato al demo, glielo mando...), mi sono imbattuto in una coppia di piloti svizzeri (ben prima del celebre Clay Regazzoni, compagno anche di Niki Lauda negli anni d'oro della Ferrari anni Settanta) dal nome che sembra preso di peso da un romanzo di appendice ambientato in epoca rinascimentale o dalla Francia dei paladini: Toulo de Graffenried (nientemeno che barone) e Ottorino Volonterio (altro nobiluomo, di professione avvocato).
Se il secondo (che sembrerebbe il nome di un personaggio di Teocoli a Mai Dire Gol e invece è un vero svizzero italiano) ha appena sfiorato il mondiale di formula uno (con tre soli gran premi disputati fra il 1954 e il 1957, giunto una sola volta al traguardo - Monza 1957, undicesimo a 15 giri dal vincitore!! - e in due occasioni dividendo la macchina con un altro pilota - evenienza normale all'epoca), il barone de Graffenried è invece un personaggio più significativo, non tanto per i risultati nel mondiale vero e proprio (dove il suo miglior risultato è un quarto posto a Spa nel 1953), quando per le gare precedenti l'inizio del mondiale, con una grande vittoria a Silverstone nel 1949. Se ne è poi andato dal mondo alla veneranda età di 92 primavere nel 2007.
Sperando che questo piccolo gossip vi abbia incuriosito tanto da andarvi a cercare altri dati relativi ai due "eroi" rossocrociati nei numerosi database dedicati sparsi per la Rete.

domenica 13 gennaio 2013

Feels like...Haven!

Quanti di voi si ricordano di Feels like Heaven e dei Fiction Factory? La canzone risale alla fine del 1983, ma forse - grazie a Radio Capital TV e ai suoi video vintage - anche i più giovani tra i lettori del blog potrebbero averla sentita. Non che la cosa importi molto, visto che ho semplicemente preso spunto dal titolo per parlare di una serie televisiva appena giunta al termine della sua terza stagione: Haven.
Prodotto della fertile, ma spesso sconclusionata, vena creativa del canale televisivo SyFy (e approdata nel nostro Paese prima su Steel, poi su Rai4), la serie si ispira (in maniera, molto, ma molto, ma molto, libera) al racconto The Colorado Kid di Stephen King (mida del fantastico, perennemente sopravvalutato). Narra le vicende di un agente donna, Audrey Parker (la quasi sconosciuta Emily Rose - in precedenza nota per aver dato voce e corpo a una delle eroine del gioco d'avventura per PS3 Uncharted), in uno strano paesino del Maine (ovviamente, trattandosi di King), Haven, appunto. Il termine in inglese, significa, tra le varie cose, anche "rifugio, e qui ci si riferisce a come il luogo "faccia buca" (per usare una nostra colorita ma comprensibile perifrasi) per tutte le persone "dotate" di un qualche potere anomalo (che come nel caso dell'eccellente sequenza di racconti super-eroistici delle antologie Wild Cards, ideate da George R.R.Martin, prima del trionfo di Game of Thrones, spesso o quasi sempre sono assurdi e debilitanti per chi li possiede e l'intero paese).
Nei tre mezzi anni di programmazione (si trattava inizialmente di una serie estiva - cioè da 13 episodi, promossa nell'ultimo anno a serie autunnale, ma rimasta comunque a quota tredici, come numero di puntate), le avventure dell'agente Parker e degli altri strani eroi di Haven (in particolare, lo sceriffo Nathan Wuornos  - altro attore emerito sconosciuto, Lucas Bryant - e il simpaticissimo anti-eroe Duke Crocker  - il moderatamente famoso Eric Balfour, già in 24 e in film come il remake di Non aprite quella porta e Skyline, ma già giovanissimo nei primissimi episodi di Buffy l'ammazzavampiri; senza dimenticare i fratelli-coltelli Dave and Vince, giornalisti ed editori del giornale locale, conoscitori di molti dei segreti del posto, e le comparsate di uno degli eroi del wrestling, Edge) si sviluppano attraverso una continua serie di sorprese e di colpi di scena, che via via che passano le puntate, si strutturano in una trama portante che nella terza serie prende il sopravvento e prelude a un cliffhanging che sicuramente è stato scelto dopo la decisione di giungere a una quarta stagione...
Per molti versi simile al cult anni Novanta X Files, Haven soffre un po' degli stessi difetti: se molte delle idee iniziali sono indubbiamente buone (come la presenza di persone con "problemi" - definizione politicamente corretta per individui la cui presenza porta solo morte e distruzione per quelli che incontrano -con l'agente Parker immune ai loro effetti, che periodicamente torna nel villaggio - una volta ogni 27 anni, a partire dalla prima comparsa negli anni Cinquanta del XX secolo - per porre rimedio alla loro ricomparsa ciclica), i personaggi azzeccati (anche se in certo modo stereotipi), gli attori bravi, gli sceneggiatori altrettanto abili (c'è la mano - almeno come produttore - di uno dei grandi del fantastico televisivo dell'ultimo quindicennio, J.J.Abrams), la prevalenza di una trama iper-ramificata sottostante a tutto quanto alla lunga stanca, si notano miriadi di incongruenze, si sente la pressione di non sapere quando dover porre termine a tutto quanto (il dramma delle serie televisive odierne, eccessivamente vittime esclusive dell'audience, ballerina per definizione) e quindi la necessità di lasciarsi spazi per conclusioni improvvise e prolungamenti indefiniti.
Nel complesso però, i pregi sono superiori ai difetti e, senza entrare in ulteriori dettagli per non sciupare la visione a chi non la conoscesse, mi sento di poter dire che se gli anni Novanta erano stati, per gli appassionati del fantastico paranormale, gli anni di Mulder e Scully, questi primi anni della seconda decade del XXI secolo possono essere, per lo stesso tipo di pubblico, gli anni di Parker, Wuornos e Crocker (atipico triangolo, che meriterebbe ben più di un post e spiegazioni più dettagliate, che non mi sento di fare, per non rovinare con troppi spoiler la scoperta dei loro segreti via via che passano le puntate).
Forse poco vista da noi, anche per la programmazione su reti di secondo piano (nonostante Rai4 ormai da tempo sia il vero punto di riferimento per gli appassionati di fiction fantastica nostrana), Haven è un telefilm che raggiunge meritatamente la quarta stagione: speriamo che gli sceneggiatori siano sufficientemente abili da non alterare troppo gli equilibri faticosamente raggiunti e capaci di dare un senso compiuto all'intero baraccone (le cui falle cominciano pericolosamente a fare acqua quanto a coerenza) in attesa del finale (auspicabilmente la prossima stagione sarà l'ultima, altrimenti tempo un vero e proprio disastro di trama, come sta avvenendo - parere personale - con Fringe, di cui parlerò un'altra volta).
E già che ci siete, se non la conoscete, ascoltatevi anche Feels like Heaven dei Fiction Factory, che non è niente male come possibile emblema dei favolosi anni Ottanta...

venerdì 11 gennaio 2013

Samurai Sword: suicidio rituale...

Ieri sera era venerdì e come da tradizione il mio gruppo di gioco si è riunito per un'altra serata ludica.
Questa volta abbiamo provato per la prima volta il clone orientale di Bang! partorito dalla mente di Sciarra e compagni. Dico subito che il tentativo di riproporre le atmosfere del suddetto gioco in un'ambientazione diversa può dirsi sostanzialmente fallito.
Rispetto all'originale, Samurai Sword apporta una singola modifica efficace (almeno sulla carta): l'eliminazione del punto più debole dell'altrimenti ottimo Bang!: il rischio che un giocatore esca già al primo giro dalla partita e sia costretto a vedere gli altri giocare per un'ora o anche più. Almeno in questo, il nuovo prodotto risolve il problema, inserendo il sistema dei punti onore affiancati ai punti ferita: quando un giocatore esaurisce i punti feriti, cede un punto onore al giocatore che lo ha ridotto a zero punti ferita e al turno successivo può riprendere il gioco. Nel resto del turno in cui resta senza ferite è sostanzialmente fuori dal gioco, ma può in talune situazioni continuare a ricevere carte.
Come in Bang! vi sono quattro ruoli (Shogun, Samurai, Ninja e Ronin al posto di Sceriffo/Vice/Bandito e Rinnegato), ma a parte il fatto che lo Shogun deve rivelarsi, sembra esserci molta meno importanza nel cercare di non far capire all'altro chi sei.
La partita termina quando un giocatore arriva a zero punti onore: a quel punto si rivelano i ruoli e ogni giocatore moltiplica per un modificatore i punti onore che gli sono rimasti (generalmente il moltiplicatore è 1, tranne per il Ronin che moltiplica per 2 o per 3 in base a quanti sono i giocatori in partenza) e la squadra (Shogun/Samurai, Ninja o Ronin) che ha più punti vince.
Altre modifiche rispetto a Bang! sono un sistema più semplice di calcolo della distanza per gli attacchi (per attaccare si scarta direttamente dalla mano un'arma che ha indicata sia la gittata - denominata difficoltà - sia i danni che infligge - aumentabili con alcune carte personaggio o azione; la difficoltà è data dalla distanza fisica dei giocatori più modifiche dovute ad armature o personaggi; interessante il fatto che giocatori senza punti ferita o senza carte in mano siano considerati fuori dal gioco (indifesi e quindi non attaccabili) e che non vengano considerati nel calcolo della distanza) e un numero molto limitato di carte azione (con la possibilità di duplicare le carte in gioco più e più volte, così si possono avere più armature in gioco allo stesso tempo per lo stesso giocatore e carte che consentono di giocare più attacchi nello stesso turno - altrimenti limitati a uno).
Tutto questo, unito a carte che fanno pescare a tutti un visibilio di carte a ogni turno, rende il gioco sostanzialmente ingestibile dal punto di vista strategico e tutto si riduce a un turbinio di carte giocate una via l'altra (restare senza carte rende inattaccabili e quindi conviene finirle...), un po' come il gioco delle magie in Talisman per personaggi come Mago, Profetessa e simili (che continuano a giocare magie inutili per poter pescare quella giusta), con quasi nessun conto per chi attacca chi (certo, come in Bang! se la partita finisce con un giocatore che toglie l'ultimo punto a un compagno di squadra, quest'ultima subisce una penalità forse decisiva) e l'ingratissimo ruolo del Ronin, assolutamente meno giocabile del già limitato Rinnegato.
Noi abbiamo giocato in 5, forse in 7 è meglio, ma al momento devo decisamente sconsigliare l'acquisto e il passaggio a questo sistema a tutti i giocatori di Bang! Restiamo nel Far West che è meglio.

mercoledì 9 gennaio 2013

Galleria di Carneadi: Haskel van Manderpootz

Inizio la mia nuova rubrica, dedicata ai personaggi poco conosciuti della narrativa fantastica (e non solo), con un grande caratterista di uno dei più grandi autori che la fantascienza avrebbe mai potuto darci, se il Fato non avesse deciso di togliercelo poco più che trentenne, dopo averl lasciato ai posteri una scarna eredità di racconti e romanzi brevi (buona parte dei quali pubblicati postumi e in parte frutto di collaborazioni - che forse potremmo anche chiamare riscritture post mortem). Parlo, ovviamente, di Stanley Graham Weinbaum, universalmente noto come il creatore di Tweerl, il primo alieno alieno della storia della fantascienza (in quel capolavoro che risponde al nome di A Martian Odissey). Ma come al solito ho già divagato fin troppo e riempito di numerose parentesi la prima parte di questo post.
Veniamo quindi a parlare del personaggio: Haskel van Manderpootz è l'epitome dello scienziato eccentrico, un anziano fisico tanto geniale quanto egocentrico (si definisce appena superiore ad Albert Einstein), inventore di alcuni dei marchingegni più strampalati (e singolarmente geniali) dell'intera storia della (fanta)scienza. Nemesi più o meno volontaria del giovane perdigiorno Dixon Wells (sfigato ex allievo del professore, facile agli innamoramenti impossibili da corrispondere), il rubizzo professore è protagonista di tre racconti di Weinbaum, due dei quali usciti in italiano (il terzo lo sarà a breve :): Worlds of If (I mondi del se), The Ideal (L'ideale) e The point of View.
Nel primo, van Manderpootz (che parla di se, anche nei dialoghi, in terza persona, come un altro egocentrico di successo del passato, tale Caio Giulio Cesare) inventa un congegno che consente di vivere eventuali futuri alternativi, sfruttando delle linee temporali parallale a quella corrente; Dixon Wells potrà così innamorarsi di una ragazza che nella sua linea temporale è morta in un disastro aereo che lui aveva evitato, perdendo (come sua consuetudine, visto che è perennemente in ritardo a ogni tipo di appuntamento) il velivolo che doveva prendere.
Nel secondo, il professore inventa una macchina che consente di rendere reale l'ideale di ciascuno, anche in campo amatorio, tanto che il buon Wells, sempre preda delle frecce di Eros, si può così innamorare di una donna inesistente, ma per lui perfetta.
Nel terzo e ultimo racconto, invece, van Manderpootz escogita un apparecchio ancor più curioso e singolare, che consente di vedere il mondo attraverso il punto di vista di un'altra persona, con il risultato che Wells perderà la testa per una bruttina stagionata, la signorina Fitch, segretaria del professore, vista come una dea dallo sfigatissimo tecnico di laboratorio del professore. Ancora una volta, nonostante i suoi sforzi, il buon Wells andrà in bianco.
Scritte con un linguaggio brioso e vivace, piene di idee nuove e intriganti (nonostante siano state scritte intorno alla metà degli anni Trenta del secolo scorso), le storie di van Manderpootz rappresentano uno dei lati migliori della fantascienza dell'epoca immediatamente precedente a quella d'Oro (che si fa iniziare - sulla scorta di Asimov e dei suoi innumerevoli scritti - al 1939) e una spinta ulteriore a frugare in una soffitta (quella della narrativa pulp anni Venti-Quaranta) piena di polvere e di cianfrusaglie, ma anche di chicche e di gioielli preziosi, del tutto sconosciuti al pubblico italiano.
Se avremo fortuna e voi la pazienza di seguirci, nei prossimi tempi potremmo regalarvi dei meravigliosi cameo da mettere in bella mostra nelle vostre collezioni.
Un'ultima nota: Weinbaum, che scrisse tutte le sue opere negli anni centrali della Grande Depressione, è stato profetico nell'indovinare la crisi che al momento ha investito tutto il mondo occidentale; nel citato racconto I mondi del se, parla infatti della grande crisi del 2009. Direi che ci ha dato!

You say you want a REVOLUTION...

No, non parleremo dei quattro di Liverpool, ma di una nuova (relativamente tale) serie televisiva di fantascienza, a breve anche sui nostri schermi. Di nuovo un telefilm?, direte. Sì, e non per rubare il mestiere agli ottimi Lapo e Chiara e al loro bel blog http://seriepocoserie.blogspot.it/ (cui mi onoro di collaborare), ma per ora è quello che passa il convento. A breve inizierò a parlare di narrativa popolare anni Venti e Trenta, per introdurre il lavoro che mi appresto a svolgere (con altri amici) nei mesi (auspicabilmente, anni) futuri, ma voglio prepararmi bene, non scrivere parole a caso.

In questi giorni di fine vacanze e con ancora molte delle serie che seguo ancora ferme ai box a smaltire pandori  anche Oltreoceano (Melegatti, come insegna la pubblicità), è giunta l'ora di tirar fuori dal cassetto... pardon, dalla chiavetta usb, il pilot di una serie che ha già riscosso un discreto consenso (a quanto sento) di pubblico a opera degli Ammerigani (con 2 emme e la gi, perché il telefilm, come sentirete è molto, molto, molto, "ammerigano"): Revolution (titolo evidentemente preso dalla celeberrima canzone dei Beatles, visto che nei titoli c'è anche un gioco di parole con "Evolution" - termine che compare nella seconda strofa del testo - ma potrebbe anche essere solo un caso, vista la banalità della rima).
Due parole sulla trama (per ora ovviamente solo abbozzata): un bel giorno sparisce dal mondo ogni forma di energia (quella elettrica, ma anche batterie, motori, etc) e l'umanità torna a prima della rivoluzione industriale. Con un flashforward di 15 anni, seguiamo le vicende di una famiglia (fratello e sorella tardo adolescenti, e matrigna cinica e feroce, che gira con del whisky avvelenato da offrire a eventuali banditi incontrati per strada...) costretta a fuggire dal pacifico villaggio dove vivono dalla milizia del governo Monroe (una delle tante repubbliche in cui sono rinati i nuovi States dopo la catastrofe), in cerca dello zio Miles (un ex sergente dei marines, in confronto al quale Ezio Auditore è un novellino nel maneggiare spade e coltelli, come dimostra una - discreta, anche se molto Hong Kong style - scena della parte finale del telefilm, dove affronta e sconfigge praticamente da solo una dozzina abbondante di avversari - che, ovviamente, pur armati di balestre e fucili - su questi torneremo dopo - si dimostrano incapaci di usarli e preferiscono farsi scannare in corpo a corpo). Oltre a questo, il pilot fornisce alcuni altri spunti di sviluppo di trama che ovviamente saranno seguiti, immagino, nelle puntate successive.
Ci troviamo di fronte, quindi, all'ennesimo telefilm post-olocausto o simile, dopo Walking Dead (del quale per adesso ho potuto vedere purtroppo solo il pilot della prima serie, causa eccessiva sensibilità della consorte, ma spero di rimediare in futuro) e Falling Skies (del quale ho visto il pilot, e mi è bastato), con premesse diverse, ma sviluppo immagino similare. In realtà, la cosa cui più somiglia è il bistrattato film di Costner L'uomo del giorno dopo (ovvero The Postman, dal bel romanzo di David Brin), che invece a me non era dispiaciuto.
L'impressione iniziale non è malissimo, anche se ci si muove su strade percorse tante e tante volte, sia nella fiction narrativa sia in quella televisivo/cinematografica (per non dire videoludica - Fallout?!?). Molti dei volti presentati sono praticamente sconosciuti (come la protagonista femminile, somigliante alla Kirsten Stewart della saga di Twilight... sarà un caso che il protagonista maschile, il Miles "EZio Auditore" di cui sopra sia quel Billy Burke che nella saga licantropo-vampirica della Meyer è il padre di Bella?!? Bah! Misteri del casting...), ma si rivede nel ruolo del capo dei miliziani a caccia della famigliola quel Giancarlo Esposito che in Once Upon the Time è l'incarnazione dello "specchio, specchio delle mie brame" della Regina Cattiva, e, soprattutto, nel ruolo del "cattivo" Monroe (altro sergente dei marines, compagno d'armi di Miles) quel David Lyons che avevo indossato i panni dell'eroe mascherato di The Cape, nella sfortunata serie televisiva di un paio di anni or sono, caduto sventuratamente sotto i colpi dell'ascia dell'audience.
Il pilot e l'ambientazione pullulano di altri difetti più o meno gravi (per esempio, perché fra le varie cose che smettono di funzionare ci sono anche le armi da fuoco moderne, tanto che i miliziani rispolverano improbabili fucili ad avancarica dei tempi della Rivoluzione Americana (oops... Ammerigana)?? Perché è più figo, o perché c'è dietro una spiegazione logica? Sono curioso di conoscerla...), ma le improbabilità storiche o gli errori marchiani affollano da sempre la cinematografia mondiale (ammerigana in particolare...) e nonostante questo, tappandosi bocca, orecchie e naso (lasciamo aperti almeno gli occhi, e spegniamo il cervello) si riescono a vedere - divertendosi anche - film come Il Gladiatore e (sfioro l'eresia... preparate il rogo) Troy.
Sospendo quindi il giudizio su Revolution, in attesa di vedere se varrà la pena vedere qualche altra puntata al rientro in massa delle serie di ritorno dalle vacanze (sono già in attesa delle ultime puntate della stagione di Haven, del ritorno di Castle, Criminal Minds, Elementary, Arrow e - ebbene sì, alimentate il rogo già allestito in precedenza - Glee), ma non ne sentirò troppo la mancanza se poi non potrò farlo.

sabato 5 gennaio 2013

Ripper Street: sulle orme dello Squartatore

Jack è tornato, o almeno così sembra nelle prime scene della nuova miniserie targata BBC, Ripper Street, freschissima di messa in onda e di visione. Il fatto che non lo sia veramente, forse lascia un qualche amaro in bocca ai fan del più celebre serial killer della storia, ma si tratta di una mancanza da poco, perché la prima puntata (tutta imperniata sui primordi della fotografia pornografica e sul prototipo degli "snuff movies" prima ancora della nascita accertata dei film veri e propri) è piuttosto efficace, ficcante, ben recitata, da un cast all English (salvo Adam Rothenberg nel ruolo di Homer Jackson, ex medico dell'esercito statunitense ed anche ex agente dell'agenzia Pinkerton) e abbastanza ben calata nelle atmosfere della Londra del tardo Ottocento, su stilemi che ricordano da un lato i recenti film holmesiani dell'ex signor Madonna, dall'altro il lordume malato della Whitechapel di From Hell.
Parlando del cast, menzione speciale per Jerome Flynn (il Bronn del Trono di spade), nel ruolo del sergente Bennett Drake (costantemente impegnato in incontri di pugilato clandestini).
La prima impressione è valida, dunque, con i soliti difetti riscontrati in altre pellicole similari (in specie prostitute troppo belle per essere credibili, come nel citato From Hell), ma per il resto una trama decente (per quanto piuttosto telefonata e in fin dei conti imitativa), buona recitazione, personaggi interessanti e con scheletri nell'armadio forse anche molto ingombranti, che probabilmente si scopriranno pian piano (come è giusto che sia).
Aspettiamo fiduciosi la seconda puntata, per vedere se le premesse saranno consolidate, o se tutto si scioglierà nel piattume (trattandosi di produzione BBC gli auspici sono buoni).

La "febbre" del venerdì sera

No, non vi parlerò di John Travolta, dei Bee Gees e della Disco anni Settanta. Vi parlerò invece di Horse Fever, divertente gioco da tavolo della Cranio Creations, provato ieri sera per la prima volta dal mio gruppo ludico del venerdì.
La prima impressione del gioco non è delle migliori per colpa di una grafica quantomeno opinabile (ma non sono certo il più adatto a dare giudizi a riguardo) e una preparazione del gioco non eccessivamente user friendly (proprio per la scelta molto retrò per la grafica di carte, tabellone, etc.), ma se si supera la tentazione di rimettere tutto a posto e riproporre per l'ennesima volta Seven Wonders, si arriva a non pentirsi per niente della scelta effettuata.
Il gioco tratta del mondo delle corse dei cavalli ed è in sostanza un gioco di scommesse, coronato da una serie di fasi dai sistemi abbastanza intriganti e vari, e una corsa piuttosto coinvolgente, dove ogni giocatore può cercare di facilitare le cose per i cavalli della sue scuderie, o comunque per quelli su cui ha scommesso (gli unici che producono i punti vittoria necessari al successo finale), e ostacolare i concorrenti.
C'è abbastanza varietà da sollecitare diversi tipi di strategia (io, per esempio, dopo aver avuto una parte iniziale della partita segnata da totali insuccessi sia nelle scommesse sia come scuderia, e aver rischiato fino all'ultimo secondo il fallimento per l'impossibilità di ripagare un prestito, grazie a punti ottenuti con le carte obbiettivo, sono riuscito a strappare un secondo posto finale nella classifica, del tutto inatteso prima dell'ultima gare). Il sistema di bilanciamento del gioco (che costringe ogni giocatore ad affettuare puntate minime pari al numero di punti vittoria in possesso in quel momento) rende possibili ribaltoni, e la fase del posizionamento delle carte azione segrete per favorire/sfavorire i vari cavalli in concorso è spesso esilarante (o almeno così è stato nella partita di ieri). Anche l'interazione di gioco non è male, per quanto non sia al livello di un Bang o di un Munchkin (tanto per citare i primi due titoli a giro per la mente).
Ne avevo sentito parlare bene, ma dopo varie delusioni per giochi altrimenti osannati (tipo Bohnanza, tanto per fare un nome tra i giochi assolutamente distrutti dal nostro gruppo di gioco), la prima impressione aveva quasi infilato nel dimenticatoio anche questo titolo. Sono invece contento di aver giocato e probabilmente il gioco sarà riproposto in una delle prossime serate.


giovedì 3 gennaio 2013

Memorie di guerra... da tavolo (o da pc)

Ultimamente mi è presa la fissa per la versione online di Memoir '44, mitico gioco di Richard Borg e della Days of Wonder, nato da una costola del capolavoro che è stato Battle Cry della Avalon Hill/Hasbro, e presto esploso sul mercato internazionale (grazie anche all'ambientazione: la seconda guerra mondiale tira tanto, ma tanto di più della guerra civile americana, nonostante i gusti personali del vostro intrattenitore).
Ho giocato molto poco alla versione da tavolo, ma ho scoperto l'esistenza della versione online, fatta realmente molto bene. Iscrivendosi al gioco e acquistandolo tramite Steam (non costa nulla, in realtà) si ottiene la possibilità di giocare in solitario (contro un AI decisamente più che dignitosa, e generalmente molto fortunata nel lancio dei dadi, anche se spesso inutilmente offensiva - nel senso di votata all'attacco, non che vi faccia pernacchie e mosse intimidatorie) per tutto il tempo che si vuole a due scenari gratuiti, più 50 crediti spendibili per giocare altri scenari (ce ne sono decine, al costo di 2 o 3 crediti cadauno) sia in solitario che contro altri appassionati sparsi per il mondo (per comodità e connessione ballerina finora ho sempre giocato in solitario).
Il gioco è divertente, relativamente vario (ma per questo intervengono i numerosi scenari, che danno modo di provare un po' tutti gli eserciti previsti nel gioco) e graficamente molto attraente. Completare uno scenario una volta sapute le regole richiede meno di 20 minuti ed è tempo speso bene.
Finiti i 50 crediti concessi dal gioco, c'è la possibilità - ovviamente - di comprarne altri, con tre tipi di pacchetti (da 5 a 30 euro), che ampliano notevolmente le possibilità e le ore di gioco (il pacchetto da 30 euro, comprende, oltre a 1000 crediti - che danno modo di giocare per mesi, immagino - anche la possibilità di usare l'editor del gioco per costruirsi i propri scenari ed eventualmente condividerli; per ora non ho effettuato l'acquisto, ma non escludo di poterlo fare in seguito).
Insomma, se vi piacciono i giochi di guerra, ma non avete tempo per giocare un wargame "serio", questa variante online dell'ottimo gioco di Borg è un'ottima alternativa alla versione da tavolo e con una spesa nulla o comunque inferiore a quella della sola scatola base vi consente di giocare per tantissime ore, e volendo sfidare avversari da tutto il mondo (si vede che non ho più un negozio di giochi da tavolo, eh?)

Rondò....bostoniano

Tifosi dei Celtics, ammesso che qualcuno di voi mi legga, perdonate il pessimo gioco di parole con cui apro questo post. L'ovvio riferimento al tanto osannato (e da me mai digerito, neppure nei momenti migliori) playmaker Rajon Rondo (che sembra più il nome di un eroe bonelliano - notare l'iniziale ripetuta - che non di un autentico giocatore di basket) ci introduce a una disamina dell'andamento dei verdi della Baia del Tea Party in questa prima parte di stagione.
I numeri e l'andamento delle partite indicano cifre fallimentari, con un record ben al di sotto della linea di galleggiamento, in una division dove quest'anno vanno forte (o abbastanza forte) quasi tutte (perfino i rinati Nets) e anche Toronto, rotto Bargnani, inizia a vincere con una qualche costanza. Notizie non migliori arrivano dal resto della Conference. Se non si inizia a vincere (e in fretta), quest'anno i playoff li fanno gli altri.
La cessione di Ray Allen (il mitico "He got game" di spikeleeiana memoria - e pensare che Spike tifa NY...) non ha portato ad arrivi importanti, i big three (mettiamoci dentro Rondo, visto che molti lo ritengono un big) sono quasi sempre poco big, con Pierce e Garnett ormai anzianotti (nonostante qualche limitata buona performance del primo, e il rendimento abbastanza costante - ma di livello solo medio - del secondo) e nessuna nuova esplosione più o meno attesa (con un calo anzi di uno dei punti saldi del buon campionato scorso, Brandon Bass).
Vedo grigio, molto grigio. Speriamo di sbagliarmi e che la squadra NBA per cui tifo da sempre, sappia tornare in fretta a buoni livelli (mi contento dei playoff).
Almeno, finora posso più che consolarmi in Italia con la sorpresa Varesa in vetta su tutti, dopo anni di predominio nero-verde.

E se Giulio Cesare avesse affrontato gli alieni?

Incuriositi dal titolo? Lo sarete ancora di più dopo aver letto questo post.
Come forse alcuni di voi sapranno, da ormai qualche anno rientro nel novero dei lettori/recensori per i concorsi letterari della Delos Books (editore con cui ho collaborato come traduttore per le collane di fantascienza e gialle), e dopo aver letto decine e decine di inutili romanzi fantasy (Tolkien ha rovinato il genere, nonostante quello che si dica, con l'invenzione delle maledette trilogie... qualsivoglia fesso con velleità letterarie non si mette a scrivere niente di genere fantasy se non lo ha prima pensato in almeno tre volumi, rendendo ancor più indegeribile tematiche "ribollite" più e più volte, con esiti esiziali per la salute psico-fisica del recensore), stavolta mi sono imbattuto in un autentico gioiellino, che spera riuscirà in qualche modo a vedere la luce, perché merita plausi superiori a quanto possa avergli dato in fase di scheda critica.
Senza far nomi e senza scendere troppo nel dettaglio, mi sono trovato di fronte a un piccolo gioiellino di narrativa fantastica in salsa ucronica, con Cesare divenuto semplice (si fa per dire) imprenditore navale e commerciale nel Mediterraneo, inviso a Catone (l'Uticense) e a buona parte degli optimates, sul punto di scendere in campo (ma non è il Berlusca... lui non va a donnine e fa le corna nelle foto per far ridere gruppi di scout... è un cinico e abilissimo Napoleone, che ha capito cosa conta realmente nel mondo) e di mettere a frutto le sue capacità di inventore (ah già... dimenticavo... il buon Cesare ha importato dalla Cina la polvere da sparo, quindi le legioni romane hanno le armi da fuoco, e ha pure scoperto il modo di imbrigliare l'energia del vapore, costruendo treni e velivoli sperimentali). L'improvviso arrivo dei Tripodi marziani di Wells sulle falde del Vesuvio aprirà le porte a nuovi, imprevedibili scenari (tra cui la ricomparsa sulla scena di Pompeo Magno, offeso esule volontario nel Piceno dopo il ritorno dalle campagne in Asia) e a possibili sviluppi futuri (il mondo creato dall'autore si presta a tanti, tantissimi spunti che spero tanto vengano sfruttati).
La genialità del romanzo, aldilà dell'ambientazione molto ben curata dal punto di vista storico, anche se forse più simile alla Roma delle serie televisive degli ultimi anni che non a quella che traspare dalla documentazione in nostro possesso, e alla necessaria sospensione dell'incredulità per molte scelte letterarie (tutte godibilissime a livello citazionistico), è nel trattarsi di romanzo epistolare: tutta la narrazione si svolge attraverso lettere e documenti, verbali senatori, manifesti elettorali, proclami, etc. E tutto funziona alla perfezione: i personaggi che ne derivano sono proprio quelli che ci si possono immaginare, con un Cicerone mastelliano, pronto a offrirsi all'una o l'altra fazione, pur di conservare il cadreghino, Catone dipinto come un appassionato e un po' folle difensore dello status quo, Pompeo come un generale stolido, ma efficace, Catullo, poeta umanissimo e per nulla perfido, veramente cotto per la sua Clodia/Lesbia, e via di questo tenore, con una notevole attenzione rivolta anche ai personaggi femminili, le varie mogli e figlie dei protagonisti, che si ritagliano un loro spazio preciso, importante e decisivo nello svolgimento della vicenda.
L'unico difetto è una lunga inutile appendice, in cui l'autore ha voluto spiegare il suo metodo di lavoro, ma spero che in caso di pubblicazione tutto questo venga tagliato: un esperto del settore molte cose le capisce e già le sa, i profani non hanno bisogno che gli vengano smontati i sogni e le fantasie.
Altro elemento, e qui chiudo, che mi ha fatto adorare il romanzo, è l'aver introdotto, all'inizio di ogni capitolo, brani della vita di Cesare di Plutarco, alcuni assolutamente autentici (tradotti in italiano, ovviamente), diversi altri inventati di sana pianta. Bene: è stato talmente bravo da rendere spesso l'imitazione - quando l'argomento lo consente - perfino migliore dell'originale! Tanto di cappello, nella speranza che questo bel romanzo veda in qualche modo la luce.
Nella speranza che questo breve post, vi metta la voglia di leggervi anche la vera storia romana del periodo, per capire di chi si parla.

Seven Wonders e altre amenità ludiche

Da un paio di mesi a questa parte il nuovo gioco boom del nostro gruppo di gioco è senza dubbio Seven Wonders, giocato con entrambe le sue espansioni principali: Leaders e Cities.
Per chi non lo conosce, si tratta di un boardgame da 2 a 7 giocatori (noi lo giochiamo generalmente in 5, e direi che funziona molto bene), in cui la fanno da padrona le carte. Il sistema si basa infatti su una sorta di draft stile torneo di Magic, in modo che ciascun giocatore, in ogni turno, gioca una carta dalla propria mano e passa poi le restanti al giocatore alla sua sinistra (o alla sua destra, a seconda di quale delle tre Ere/fasi di gioco si tratti), ricevendone altre al loro posto.
La bellezza del gioco sta nella varietà delle strategie, visto che ci sono molti modi diversi di fare punti. L'interazione è piuttosto limitata, quasi nulla a dire il vero, e questo è forse un difetto per chi ama i giochi in cui si compete direttamente con gli avversari, ma nel complesso il sistema funziona, una partita dura veramente poco (sapendo giocare, ci si mette intorno a 30/40 minuti con le espansioni - che diversificano, ma allungano leggermente il gioco).
Ne esiste anche una versione da PC (scaricabile da boardgamegeek, se non erro), che pur se limitata al solo gioco base, consente di giocare piuttosto bene (le AI sono decenti) e di affinare le strategie per le partite face to face.

Molto meno riuscito, per adesso, è stato l'approccio con un gioco sostanzialmente simile (pur con le dovute diversità): Race for the Galaxy. La versione base, giocata per ora solo in 4 (domani dovremmo provarla in 5), è risultata piuttosto fallimentare: qui l'interazione con gli altri è proprio nulla (difetto grave per molti del mio gruppo) e aspetto solo di provare l'espansione Ribelli contro Impero, per vedere se riusciamo a salvare almeno in parte l'incauto acquisto (lo credevo diverso e ho preso gioco base e due espansioni senza nemmeno provarlo).
Ne esiste un'ottima versione per PC, con tutte le espansioni disponibili (sempre da Boardgamegeek).

Altre amenità ludiche a seguire


Storia confidenziale della letteratura italiana...UN MUST!!!!

Sto terminando la lettura del secondo volume della "Storia confidenziale della letteratura italiana" di Giampaolo Dossena, forse noto a qualcuno di voi anche (e soprattutto, direi) come enigmista e autore di diversi libri sul mondo del gioco come il Dizionario dei giochi con le parole (edito da Garzanti), Giochi da tavolo (edito da Mondadori) e l'Enciclopedia dei Giochi (3 volumi della UTET).
Ho preso i volumi in biblioteca, per provare ad approcciarmi in modo diverso al (ri)studio dei principali autori in funzione esame per il megaconcorso fantozziano per le cattedre per l'insegnamento (infatti, se non credo di aver bisogno di particolare ripasso per affrontare la prova scritta - e auspicabilmente, orale - di latino, mi sento alquanto carente nella letteratura italiana, che, a parte Manzoni e qualcosa di Dante e Petrarca, non ho più avuto modo di studiare o insegnare nel dettaglio da quasi un trentennio a questa parte - esami universitari sostenuti fra il 1985 e il 1986 sulle opere di Machiavelli e sul Petrarca latino delle Seniles, poi quasi il vuoto totale, con l'ultimo quinquennio salesiano in cui a parte i Promessi Sposi e rime sparse di autori vari, da Pascoli a Palazzeschi, passando per Leopardi, Dante e pochi altri, non ho potuto insegnare molto, vista la peculiarità del mio incarico... sarei prontissimo a insegnare letteratura inglese, se solo avessi i titoli per farlo!!!). Bene: ho fatto la scelta giusta, perché i volumi sono irresistibilmente ganzi da leggere, anche per i poco avvezzi alla letteratura, a causa dei brutti ricordi scolastici.
Dossena, che non è certo pedante e prolisso nella sua narrazione, si avvicina al mondo meraviglioso della nostra letteratura in modo giocoso, anomalo, straordinario, seguendo passo passo, anno per anno, poi anche mese per mese, il suo svolgersi misterioso e affascinante, intessendo una ragnatela di citazioni, di aneddoti, di passaggi apparentemente sconclusionati e stravaganti, lontani anni luce dai polpettoni misterici, settari, da addetti ai lavori, che sono la gran parte dei testi, scolastici e non, che trattano la storia della nostra scrittura e dei nostri autori. Dossena non si perita di tirar giù dagli altari polverosi, su cui albergano da secoli, i mostri sacri (e in effetti mostruosi apparivano e appaiono alla gran parte dei liceali costretti a studiarseli) della letteratura italiana: dice pane al pane e vino al vino e con un linguaggio a tratti decisamente irresistibile, ci accompagna in un viaggio erudito e particolare alla ricerca delle origini della nostra storia letteraria, fra San Francesco e Jacopone da Todi, fra Federico II e l'università bolognese, fra la Firenze comunale e la Francia papale, parlandoci (anche male) di Dante, di Petrarca, di Boccaccio e di una pletora di minori, mostrandocene pregi e difetti ed invitando a leggerli o rileggerli sotto una prospettiva diversa.
Ne risulta quindi un percorso fiabesco nel labirintico intrico della poesia minore del Duecento o del Trecento, pieno zeppo di aneddoti e di battute, di parentesi su parentesi, di citazioni su citazioni (sarà per questo che lo adoro?), a caccia di un Dante perennemente incazzato, di un Petrarca che si inventa di sana pianta una donna da amare chiamandola Laura (con ancora maggior fantasia di quanto fatto da Dante con le sue donne-specchio), di Boccaccio che non fa altro che lamentarsi e perseguitare il Petrarca (che con abilità degna di miglior causa riesce spesso a sfuggirli nel suo eterno peregrinare).
E' grazie a Dossena e alle sue citazioni che ho scoperto e apprezzato più di quanto non avrei mai creduto possibile Salimbene da Parma e in particolare la Cronica dell'Anonimo Romano, coevo di Cola di Rienzo, la descrizione della cui morte è assolutamente degna di un film splatter contemporaneo.
Insomma, mi sono divorato i primi due volumi e non vedo l'ora di completare l'opera con i due successivi, che ci portano fino al Seicento.
Forse una lettura del genere, troppo fuori dagli schemi pedagogici imbastiti dai vari ministeri della Pubblica Istruzione (ma vogliamo fare un elenco dei ministri dell'ultimo ventennio: Iervolino, D'Onofrio, Berlinguer, Moratti, Fioroni, Gelmini, Profumo... insomma, il circo), non mi servirà a nulla per il suddetto concorso, ma senza dubbio è risultata divertente, istruttiva, costruttiva, necessaria.
Provate a cercarla in qualche biblioteca: vale la pena.

Presentazione... il perché di un titolo

Salve a tutti,
Benvenuti nel mio blog, una sorta di diario anomalo, uno zibaldone di pensieri (per citare Leopardi), infarcito di tutte le mie passioni. Ci troverete quindi post dedicati al mondo dei giochi da tavolo, dei wargames, del cinema, dei telefilm, dei fumetti, della musica, della fantascienza, dell'horror, del fantasy, del fantastico in generale, ma anche dedicati alla letteratura latina, a quella greca, a quella italiana, a quella inglese, a quella americana, alla narrativa pulp, al basket, al calcio, alla formula uno, alla storia militare, a un sacco e una sporta di altre cose.
Cercherò di essere divertente, istruttivo, curioso, inventivo e spero di riuscire in questo compito.
Non aspettatevi cadenze precise, perché non ci saranno: in alcuni giorni potrò postare venti post e poi non intervenire più per una settimana se non più.
Seguirò l'istinto, la passione, il gusto del momento.
 Gran parte dei post saranno in italiano, ma non mancheranno post in inglese, specialmente se riguardanti le mie attività ludiche rivolte al mercato estero (ovvero i miei wargames e i miei giochi di simulazione sportiva).
Seguitemi, commentate con coraggio e senza peli sulla lingua (io non ne avrò): spero di divertirmi e farvi divertire, di incuriosirvi e farmi incuriosire, di farvi conoscere qualcosa di nuovo, di diverso, di elettrizzante, di anomalo, e di ottenerne in cambio qualcosa di analogo, un'emozione, un ricordo, un'opinione, un momento di gioia o di tristezza, qualcosa che mi faccia pensare, qualcosa di vivo (o di non morto creativo).

Due parole sul titolo: è un gioco di parole (invero stupido) sull'assonanza fra il nome del celeberrimo scrittore americano e la variante dialettale toscana di po'. Dovrebbe già darvi il senso di quello che troverete.

E quindi, iniziamo subito, citando una famosa canzone:

Welcome to the jungle
We got fun n' games
We got everything you want
Honey, we know the names
We are the people that can find
Whatever you may need
If you got the money, honey
We got your disease