Oggi torniamo a parlare di una rivista che avevamo messo da parte da qualche settimana: Dime Mystery Magazine, e per la precisione del primo racconto del numero di Settembre del 1944, Seven Keys to Murder, un intrigante murder mystery stile Dieci piccoli indiani, dovuto alla penna di Day Keene, uno tra i più prolifici giallisti dell'era dei pulp e non solo (sono numerosi i Gialli Mondadori con i suoi romanzi degli anni Cinquanta e Sessanta), che qui dimostra tutto il suo mestiere.
Rispetto al periodo dove l'avevamo lasciata, ovvero la metà degli anni Trenta, il momento del boom degli shudder pulps, dove l'orrore, il sesso e il macabro la facevano da padrona, adesso Dime Mystery è diventata una rivista che tiene fede al suo nome (in quegli anni fu molto attivo anche il grande Fredric Brown, per esempio), e presenta quindi principalmente dei gialli, in questo caso un perfetto "whodunit", che ruota attorno a un gruppo di persone riunite in una lussuosa villa costiera della Florida, per una ben strana eredità: un ricco dal passato molto oscuro, infatti, ha lasciato la sua eredità milionaria alla segretaria, che però potrà ottenerla soltanto se riuscirà a non farsi accusare di un crimine da uno degli ospiti della villa, che invece risulterà erede al suo posto. Per essere esclusi dalla strana partita a tempo, bisogna sopravvivere al delitto e cercare di incastrare gli altri al tuo posto. A cercare di risolvere il mistero, un investigatore privato appena tornato dall'inferno di un carcere di guerra giapponese, dopo essere stato uno degli ultimi a resistere a Bataan, travolto dai dubbi e roso dalla terribile esperienza.
Per quanto surreale, la vicenda di delitti che ruota attorno alla fantomatica eredità (che poi finirà in una bolla di sapone, perché i Federali interverranno per sequestrare le proprietà del defunto riccone, non proprio stinco di santo) è ben congegnata e ci sono tutte le caratteristiche del genere, dalle belle donne ammaliatrici o ingenue, l'attrice sul viale del tramonto, il fanatico religioso preda di fantasie ossessive non particolarmente devote, l'indiano d'India dal comportamento oscuro, il giovane scapestrato facilmente imputabile, e così via. Non vi rivelo l'assassino, ovviamente, nel caso qualcuno potesse un giorno procurarsi il racconto (magari nella futura edizione Radioarchives), ma vi consiglio di seguire l'autore, eccellente orchestratore di trame gialle vecchio stile (che non erano tali settant'anni fa, ovviamente ;)
Alla prossima
mercoledì 27 febbraio 2013
martedì 26 febbraio 2013
Un pulp al giorno: The Sky Buster
Puntata minore della nostra rubrica quotidiana, dedicata stavolta a un personaggio secondario di una delle riviste seriali che abbiamo esaminato qualche giorno fa, G-8 and his battle aces.
Praticamente tutte queste riviste dedicate a un personaggio principale presentavano una o più brevi storie di contorno, che lanciavano altri personaggi seriali di minor importanza. E' il caso del presente racconto, The Sky Buster, dedicato al pilota cowboy Smoke Wade, capitano dell'aviazione americana impegnata sul suolo francese contro le truppe del Kaiser, che ha la caratteristica di avere il suo Spad dipinto come il mustang pezzato con cui era solito controllare le mandrie nelle praterie del suo ranch natio. Comparso su decine di numeri della rivista e scritto dallo stesso Robert J.Hogan, già autore del titolo di punta della rivista, il personaggio si è recentemente meritato delle raccolte autonome a opera della Age of Aces Books, casa editrice specializzata nel recupero dei numerosi pulp aviatori di gran moda negli anni Trenta del secolo scorso.
Il racconto in questione è incentrato su di un novellino che ha la sfortuna di avere un cognome tedesco, Schiller, e perciò viene subito preso di mira da uno stolido maggiore perché temuto una spia. Wade dimostrerà come invece il ragazzo sia un vero americano, aiutandolo a completare una missione contro le linee tedesche, che procurerà una medaglia al giovane immigrato. Breve, ma ben scritto e interessante (il problema dei naturalizzati doveva essere effettivamente piuttosto sentito negli Stati Uniti, in particolar modo nel secondo conflitto mondiale - e il racconto è infatti del 1941, proprio del mese dell'entrata in guerra degli Stati Uniti).
A domani per una nuova avventura del fantastico mondo dei pulp!
Praticamente tutte queste riviste dedicate a un personaggio principale presentavano una o più brevi storie di contorno, che lanciavano altri personaggi seriali di minor importanza. E' il caso del presente racconto, The Sky Buster, dedicato al pilota cowboy Smoke Wade, capitano dell'aviazione americana impegnata sul suolo francese contro le truppe del Kaiser, che ha la caratteristica di avere il suo Spad dipinto come il mustang pezzato con cui era solito controllare le mandrie nelle praterie del suo ranch natio. Comparso su decine di numeri della rivista e scritto dallo stesso Robert J.Hogan, già autore del titolo di punta della rivista, il personaggio si è recentemente meritato delle raccolte autonome a opera della Age of Aces Books, casa editrice specializzata nel recupero dei numerosi pulp aviatori di gran moda negli anni Trenta del secolo scorso.
Il racconto in questione è incentrato su di un novellino che ha la sfortuna di avere un cognome tedesco, Schiller, e perciò viene subito preso di mira da uno stolido maggiore perché temuto una spia. Wade dimostrerà come invece il ragazzo sia un vero americano, aiutandolo a completare una missione contro le linee tedesche, che procurerà una medaglia al giovane immigrato. Breve, ma ben scritto e interessante (il problema dei naturalizzati doveva essere effettivamente piuttosto sentito negli Stati Uniti, in particolar modo nel secondo conflitto mondiale - e il racconto è infatti del 1941, proprio del mese dell'entrata in guerra degli Stati Uniti).
A domani per una nuova avventura del fantastico mondo dei pulp!
lunedì 25 febbraio 2013
Un pulp al giorno: The circle of Zero
Torniamo a parlare di Weinbaum, con un altro dei miei racconti preferiti, un piccolo gioiellino semisconosciuto in Italia (unica apparizione sul numero 1 di Robot Speciale, nel 1978): The circle of Zero, apparso per la prima volta sul numero di agosto del 1936 di Thrilling Wonder Stories.
Pur con personaggi diversi, e con note più malinconiche, il racconto si avvicina alle storie di Van Manderpootz, in quanto tra i protagonisti ci sono un eccentrico professore (dal profetico nome di Aurore de Neant), un suo vecchio studente, ridotto sul lastrico dalla crisi del '29, e la figlia del professore, futura sposa del suddetto.
L'incipit - un detto cinese (di cui non conosco la reale esistenza, peraltro) che recita
Pur con personaggi diversi, e con note più malinconiche, il racconto si avvicina alle storie di Van Manderpootz, in quanto tra i protagonisti ci sono un eccentrico professore (dal profetico nome di Aurore de Neant), un suo vecchio studente, ridotto sul lastrico dalla crisi del '29, e la figlia del professore, futura sposa del suddetto.
L'incipit - un detto cinese (di cui non conosco la reale esistenza, peraltro) che recita
"Se ci fosse una montagna alta un migliaio di miglia e
ogni mille anni un uccello la sorvolasse, limitandosi a sfiorarne la sommità
con la punta di un'ala, con il trascorrere di un numero inconcepibile di eoni,
la montagna sarebbe completamente consumata. Nonostante questo, quell'epoca
immensa non sarebbe che un secondo se confrontata con l'eternità..." - mette subito il lettore dell'umore giusto, per affrontare una storia basata sul tempo e sull'utilizzo del viaggio nel tempo per modificare il presente. Il professore, infatti, convince il giovane di aver trovato il modo, attraverso i vari stadi dell'ipnosi, per farlo viaggiare nel tempo, in uno degli infiniti mondi futuri che si sono già tutti verificati (visto che ritiene il tempo una concezione circolare, dove passato, presente e futuro si trovano su di un unico piano, e l'infinito racchiude infinite volte ogni possibile combinazione di atomi ed elementi, capace di riprodurre una persona e il suo mondo, in tutte le possibili sfumature), in modo da trovare il modo di superare il disagio attuale e vivere una vita ricca e felice con la fidanzata. Andrà esattamente come previsto, perché il giovane saprà sfruttare una finta ripresa del mercato azionario, per comprare a poco e vendere a tanto un pacchetto azionario, e poi vivere di rendita, secondo quanto aveva visto in una delle visioni oniriche dei suoi stati ipnotici. Ma per avere i soldi per l'acquisto, sarà lo stesso professore, per il bene della figlia, a uccidersi, per far incassare loro i soldi dell'assicurazione. Quando tutto sarà andato per il verso giusto, la figlia dirà al futuro marito, che il padre gli aveva sussurrato nel dormiveglia, tutto quanto lui aveva creduto di vedere in sogno! Eppure, tutto era andato come aveva visto.
Enigmatico, romantico, ricco di trovate linguistiche straordinarie (come "reincarnazione", che diventa "re in carnatione", ovvero, "dalla cosa nel garofano"!), è un racconto senza dubbio minore, ma che da sempre ha un posto speciale nel mio cuore di appassionato (essendo stata una delle mie prime letture in assoluto, di giovane nuovo adepto della fantascienza, all'inizio degli anni Ottanta, poco dopo le mie prime letture di Urania).
Ne risentirete parlare, se seguirete questo blog anche in futuro
Ascesa e declino dell'"Ombra"
Non parleremo di fantasy, di horror, di cinema o di pulp in quest'occasione. Per il cinquantesimo post del mio blog (in meno di due mesi!), ho deciso di far ritorno alla formula uno per parlare brevemente di una delle mie scuderie preferite da bambino e giovane adolescente: la Shadow. Quanti di voi la ricordano?
Il nome accattivante, la livrea nera (diventata perfino bianca negli ultimi, declinanti anni), la particolare conformazione del telaio della vettura della metà degli anni Settanta (quella guidata da Tom Pryce, lo sfortunato pilota inglese, deceduto a Kyalami in uno degli incidenti più assurdi e incredibili della storia della formula uno), hanno sempre esercitato un grande fascino sul sottoscritto, che pur non avendo mai tifato per nessuno dei suoi piloti in particolare (ero un grande tifoso di Niki Lauda e lui soltanto negli anni in cui ha corso), l'ha sempre ritenuta una scuderia simpatica e degna di considerazione.
Dall'esordio nel 1973 al ritiro nel 1980, la Shadow ha vinto un gran premio (con Alan Jones, nel 1977 - il pilota australiano, poi campione del mondo nel 1980, era subentrato al compianto Pryce dopo la sua morte) e sei volte si è piazzata sul podio, sempre al terzo posto (con i citati Jones e Pryce (2 volte), poi Jackie Oliver, George Follmer (pilota americano, il primo a portare al traguardo la vettura, nel gran premio del SudAfrica del 1973) e Jean Pierre Jarier.
E il SudAfrica è il gran premio che più di ogni altro ha segnato la breve storia di questa scuderia anglo-americana (nata negli Stati Uniti, infatti, ma ben presto spostata in Inghilterra come sede operativa): nel 1973, infatti, George Follmer e Jackie Oliver (quest'ultimo ritiratosi al quattordicesimo giro per problemi di motore), portavano all'esordio la macchina proprio sul circuito di Kyalami, che negli anni successivi avrebbe chiesto un grosso tributo di sangue alla squadra, portandosi via la vita del newyorkese Peter Revson nel 1974, in un incidente causato dal venir meno di una sospensione durante le prove del gran premio.
Il suo rimpiazzo, il citato Tom Pryce, avrebbe trovato la morte esattamente tre anni dopo, sullo stesso circuito, dopo essere stato colpito in pieno volto dall'estintore del commissario di pista che aveva attraversato la strada al suo sopraggiungere per andare a soccorrere Renzo Zorzi, la cui auto era avvolta dalle fiamme per una perdita di carburante (ma il pilota era già fuori e illeso), a sua volta ucciso all'istante per essere stato travolto dal povero Pryce. Ovviamente, visto che il destino può realmente essere crudele e dotato di un'ironia che nessuna fantasia umana, per quanto perversa, è in grado di immaginare, Zorzi era il compagno di squadra di Pryce... (dopo altri due gran premi avrebbe terminato la sua breve e ferale carriera in formula uno, con sette corse all'attivo e un solo punto conquistato).
E ancora in Sudafrica, con alla guida un altro pilota inglese, Geoffrey Lees, si chiuderà la comunque gloriosa parabola della scuderia, con il 13 posto al traguardo, prima di un manipolo di altri gran premi senza ottenere la qualifica, e infine il mesto ritiro.
Torneremo ancora a parlare di formula uno, con altri aneddoti di questo straordinario mondo, che tra breve riprendere la sua corsa ("criptata", accidenti a Sky!)
Il nome accattivante, la livrea nera (diventata perfino bianca negli ultimi, declinanti anni), la particolare conformazione del telaio della vettura della metà degli anni Settanta (quella guidata da Tom Pryce, lo sfortunato pilota inglese, deceduto a Kyalami in uno degli incidenti più assurdi e incredibili della storia della formula uno), hanno sempre esercitato un grande fascino sul sottoscritto, che pur non avendo mai tifato per nessuno dei suoi piloti in particolare (ero un grande tifoso di Niki Lauda e lui soltanto negli anni in cui ha corso), l'ha sempre ritenuta una scuderia simpatica e degna di considerazione.
Dall'esordio nel 1973 al ritiro nel 1980, la Shadow ha vinto un gran premio (con Alan Jones, nel 1977 - il pilota australiano, poi campione del mondo nel 1980, era subentrato al compianto Pryce dopo la sua morte) e sei volte si è piazzata sul podio, sempre al terzo posto (con i citati Jones e Pryce (2 volte), poi Jackie Oliver, George Follmer (pilota americano, il primo a portare al traguardo la vettura, nel gran premio del SudAfrica del 1973) e Jean Pierre Jarier.
E il SudAfrica è il gran premio che più di ogni altro ha segnato la breve storia di questa scuderia anglo-americana (nata negli Stati Uniti, infatti, ma ben presto spostata in Inghilterra come sede operativa): nel 1973, infatti, George Follmer e Jackie Oliver (quest'ultimo ritiratosi al quattordicesimo giro per problemi di motore), portavano all'esordio la macchina proprio sul circuito di Kyalami, che negli anni successivi avrebbe chiesto un grosso tributo di sangue alla squadra, portandosi via la vita del newyorkese Peter Revson nel 1974, in un incidente causato dal venir meno di una sospensione durante le prove del gran premio.
Il suo rimpiazzo, il citato Tom Pryce, avrebbe trovato la morte esattamente tre anni dopo, sullo stesso circuito, dopo essere stato colpito in pieno volto dall'estintore del commissario di pista che aveva attraversato la strada al suo sopraggiungere per andare a soccorrere Renzo Zorzi, la cui auto era avvolta dalle fiamme per una perdita di carburante (ma il pilota era già fuori e illeso), a sua volta ucciso all'istante per essere stato travolto dal povero Pryce. Ovviamente, visto che il destino può realmente essere crudele e dotato di un'ironia che nessuna fantasia umana, per quanto perversa, è in grado di immaginare, Zorzi era il compagno di squadra di Pryce... (dopo altri due gran premi avrebbe terminato la sua breve e ferale carriera in formula uno, con sette corse all'attivo e un solo punto conquistato).
E ancora in Sudafrica, con alla guida un altro pilota inglese, Geoffrey Lees, si chiuderà la comunque gloriosa parabola della scuderia, con il 13 posto al traguardo, prima di un manipolo di altri gran premi senza ottenere la qualifica, e infine il mesto ritiro.
Torneremo ancora a parlare di formula uno, con altri aneddoti di questo straordinario mondo, che tra breve riprendere la sua corsa ("criptata", accidenti a Sky!)
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domenica 24 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Raiders of the Red Death
Oggi festeggiamo la nostra prima incursione all'interno dei pulp che sfoggiano sulle copertine il nome del protagonista, i pulp seriali, che tanta parte hanno avuto nella costruzione dell'immaginario pulp del periodo (pensiamo per esempio a Doc Savage, Zorro, The Shadow, Buck Rogers e decine e decine di altri).
I nostri eroi sono il gruppo di aviatori americani facenti parte del Bat Staffel, ovvero G-8, the Master Spy, e i suoi tre aiutanti e compagni d'avventura, Bull, Nibby e Battle, conosciuti anche come i Battle Aces.
Nati nel 1934, i nostri eroi hanno conosciuto oltre un centinaio di avventure, ben all'interno degli anni della Seconda Guerra Mondiale, anche se le loro storie sono tutte ambientate nella Prima Guerra Mondiale.
Raiders of the Red Death è la loro novantesima avventura e risale al marzo del 1941, per la penna di Robert J.Hogan, specializzato in racconti aviatorii e loro creatore.
La trama vede il nostro G-8 fingersi un vecchio contadino tedesco, per andare a contattare una spia oltre le linee del nemico, viene preso prigioniero, ma riesce ovviamente a fuggire prima dell'esecuzione, a opera della sua nemesi, il perfido crucco The Raven (tanto simile al teschio rosso di Capitan America, da far pensare a una sua primogenitura per il personaggio poi diventato celeberrimo nei comics già degli anni Quaranta), che ha scoperto un gas capace di uccidere e miniaturizzare le proprie vittime.
Tornato al campo, G-8 e i suoi si mettono in caccia di un mega-zeppelin destinato a giungere nel profondo Egitto, dove probabilmente si annida il segreto del misterioso gas assassino. Dopo un violento duello aereo e un lunghissimo inseguimento, gli Spad dei Battle Birds distruggono il dirigibile tedesco, ma dopo che questi ha compiuto la sua missione. A questo punto, i nostri eroi sono costretti ad avventurarsi nel deserto egiziano e a trovare la piramide dimenticata, dove il gas letale emana direttamente dalle viscere della terra. Dopo qualche peripezia, G-8 e company porteranno a termine con successo la loro missione.
Nonostante la banalità e la scontatezza delle vicenda (e soluzioni narrative per la risoluzione dei momenti topici perfino risibili quanto a stupidaggine), devo dire che il breve romanzo scorre bene, con un ritmo che ancor oggi può risultare godibile, le punzecchiature fra i personaggi e la loro caratterizzazione, per quanto fumettistica, sono divertenti, insomma serial stereotipo quanto si vuole, ma in fondo in fondo passabile; mette perfino la voglia di leggere altre di queste avventure (cosa probabile, se continueranno a giungermi come lavoro di proofreading!).
Alla prossima!
I nostri eroi sono il gruppo di aviatori americani facenti parte del Bat Staffel, ovvero G-8, the Master Spy, e i suoi tre aiutanti e compagni d'avventura, Bull, Nibby e Battle, conosciuti anche come i Battle Aces.
Nati nel 1934, i nostri eroi hanno conosciuto oltre un centinaio di avventure, ben all'interno degli anni della Seconda Guerra Mondiale, anche se le loro storie sono tutte ambientate nella Prima Guerra Mondiale.
Raiders of the Red Death è la loro novantesima avventura e risale al marzo del 1941, per la penna di Robert J.Hogan, specializzato in racconti aviatorii e loro creatore.
La trama vede il nostro G-8 fingersi un vecchio contadino tedesco, per andare a contattare una spia oltre le linee del nemico, viene preso prigioniero, ma riesce ovviamente a fuggire prima dell'esecuzione, a opera della sua nemesi, il perfido crucco The Raven (tanto simile al teschio rosso di Capitan America, da far pensare a una sua primogenitura per il personaggio poi diventato celeberrimo nei comics già degli anni Quaranta), che ha scoperto un gas capace di uccidere e miniaturizzare le proprie vittime.
Tornato al campo, G-8 e i suoi si mettono in caccia di un mega-zeppelin destinato a giungere nel profondo Egitto, dove probabilmente si annida il segreto del misterioso gas assassino. Dopo un violento duello aereo e un lunghissimo inseguimento, gli Spad dei Battle Birds distruggono il dirigibile tedesco, ma dopo che questi ha compiuto la sua missione. A questo punto, i nostri eroi sono costretti ad avventurarsi nel deserto egiziano e a trovare la piramide dimenticata, dove il gas letale emana direttamente dalle viscere della terra. Dopo qualche peripezia, G-8 e company porteranno a termine con successo la loro missione.
Nonostante la banalità e la scontatezza delle vicenda (e soluzioni narrative per la risoluzione dei momenti topici perfino risibili quanto a stupidaggine), devo dire che il breve romanzo scorre bene, con un ritmo che ancor oggi può risultare godibile, le punzecchiature fra i personaggi e la loro caratterizzazione, per quanto fumettistica, sono divertenti, insomma serial stereotipo quanto si vuole, ma in fondo in fondo passabile; mette perfino la voglia di leggere altre di queste avventure (cosa probabile, se continueranno a giungermi come lavoro di proofreading!).
Alla prossima!
Un pulp al giorno: Parcels from Hell
Ed eccoci a una classica storia di vendetta infernale, tratta ancora una volta dalle pagine di Terror Tales, e precisamente dal numero di dicembre del 1935, a firma del praticamente sconosciuto E.G.Morris. Se avete visto il film del 1991 No control - Fuori Controllo, tratto dal romanzo francese Choice Cuts, avrete un'idea visiva di cosa vi aspetta in questa lettura.
La trama vede un medico folle di gelosia che uccide la moglie fedigrafa (o forse solo presunta tale) e poi uccide l'amante, facendolo a pezzi con il bisturi e poi seppellendolo in giardino, non senza che lo sventurato lanci una maledizione contro l'omicida. Il giorno dopo, il postino consegna una strano pacco, di cui il medico non riesce a leggere il mittente, che contiene un braccio dell'uomo che ha da poco ucciso; nei giorni successivi arriveranno anche un piede e la testa, e nel giro di poco tempo, la vittima riuscirà a vendicarsi totalmente del medico assassino, ripagandolo con la stessa moneta.
Forti richiami alla mano assassina vista al cinema per la prima volta nel 1924, con Horlack's Hande di Wiene (e derivata anch'essa dal romanzo di Renard), per un racconto derivativo, piuttosto truculento e macabro, ma assolutamente datato e di routine, un horror facilmente dimenticabile, in un panorama che, come avete visto se ci avete seguito nelle settimane precedenti, ha molto più da offrire.
La trama vede un medico folle di gelosia che uccide la moglie fedigrafa (o forse solo presunta tale) e poi uccide l'amante, facendolo a pezzi con il bisturi e poi seppellendolo in giardino, non senza che lo sventurato lanci una maledizione contro l'omicida. Il giorno dopo, il postino consegna una strano pacco, di cui il medico non riesce a leggere il mittente, che contiene un braccio dell'uomo che ha da poco ucciso; nei giorni successivi arriveranno anche un piede e la testa, e nel giro di poco tempo, la vittima riuscirà a vendicarsi totalmente del medico assassino, ripagandolo con la stessa moneta.
Forti richiami alla mano assassina vista al cinema per la prima volta nel 1924, con Horlack's Hande di Wiene (e derivata anch'essa dal romanzo di Renard), per un racconto derivativo, piuttosto truculento e macabro, ma assolutamente datato e di routine, un horror facilmente dimenticabile, in un panorama che, come avete visto se ci avete seguito nelle settimane precedenti, ha molto più da offrire.
sabato 23 febbraio 2013
Un pulp al giorno: It's dark in my Grave
No, non parleremo del capitano Schettino e delle sue celebri scuse la notte della tragedia della Concordia, ma di un inquietante e very disturbing racconto pulp, tanto breve quanto capace di rimescolarti lo stomaco con una serie di immagini (e di pensieri) sgradevoli nel volgere delle sue poche paginette.
Scritto dal praticamente sconosciuto nel nostro paese William Edmund Barrett (in realtà autore di oltre una ventina di romanzi, credo di genere mainstream, tre dei quali diventati perfino film, con attori del calibro di Bogart e Poitier) e apparso sul numero di Marzo del 1936 dell'ormai consueto Terror Tales.
E' la storia di quello che accade a un suicida dopo la morte, narrata in prima persona dallo stesso suicida. Be', l'autore deve essere un fervente cattolico, che non ama affatto i suicidi, e quello che accade loro è peggio dell'inferno dantesco, non per la ferocia della punizione, ma proprio per l'impossibilità di staccarsi, come le altre anime, dal contatto con il mondo che hanno rifiutato con la scelta di darsi volontariamente la morte. Dopo aver accettato la propria dipartita con fare agnostico, il defunto suicida attende con raziocinio quella che immagina essere la morte, ovvero, la mancanza di tutto, niente Dio, niente inferno, solo la fine. Non è così: prima una serie di strane, oscene creature, banchettano sul suo corpo, che la mente raziocinante sa essere solo un involucro vuoto, oramai, della cui distruzione dovrebbe fregarsene, ma invece non è così, e il morto prova un crescente disagio, l'impossibilità di slegarsi da quel luogo, la claustrofobia della tomba più e più profanata da orrende creature. Quando alla fine l'anima del suicida riesce a uscire dalla tomba, si trova circondata da innumerevoli altri suoi simili, tutti i morti suicidi che costituiscono una sorta di comunità di paria, esclusa dalla luce divina e impossibilitata a lasciare quel corpo che tanto hanno aborrito fino a privarlo della vita. Con l'angoscia a divorare quella che avrebbe dovuta essere ragione pura, il suicida si accorge di non essere ancora morto, perché qualcuno sta provando a salvarlo, dicendo che sarà dura che ce la faccia, perché per vivere adesso serve una forte volontà, che di solito i suicidi non hanno. Ma ora il tentato suicida grida con flebile voce "I want to live!".
E' una lettura che non ci si aspetta in un pulp, perché è decisamente tosta, oltremodo inquietante e altrettanto sgradevole (e molti dei miei lettori capiranno il perché), ma il racconto prende, avvince, ti tratta come l'anima del protagonista del racconto e non ti lascia sfuggire dalle sue pagine. Mai più ristampato (e ci credo!) e inedito in Italia, è una storia comunque da provare a leggere, per meditarci sopra.
La prossima volta, siate certi, proporremo un pulp meno sconvolgente.
Scritto dal praticamente sconosciuto nel nostro paese William Edmund Barrett (in realtà autore di oltre una ventina di romanzi, credo di genere mainstream, tre dei quali diventati perfino film, con attori del calibro di Bogart e Poitier) e apparso sul numero di Marzo del 1936 dell'ormai consueto Terror Tales.
E' la storia di quello che accade a un suicida dopo la morte, narrata in prima persona dallo stesso suicida. Be', l'autore deve essere un fervente cattolico, che non ama affatto i suicidi, e quello che accade loro è peggio dell'inferno dantesco, non per la ferocia della punizione, ma proprio per l'impossibilità di staccarsi, come le altre anime, dal contatto con il mondo che hanno rifiutato con la scelta di darsi volontariamente la morte. Dopo aver accettato la propria dipartita con fare agnostico, il defunto suicida attende con raziocinio quella che immagina essere la morte, ovvero, la mancanza di tutto, niente Dio, niente inferno, solo la fine. Non è così: prima una serie di strane, oscene creature, banchettano sul suo corpo, che la mente raziocinante sa essere solo un involucro vuoto, oramai, della cui distruzione dovrebbe fregarsene, ma invece non è così, e il morto prova un crescente disagio, l'impossibilità di slegarsi da quel luogo, la claustrofobia della tomba più e più profanata da orrende creature. Quando alla fine l'anima del suicida riesce a uscire dalla tomba, si trova circondata da innumerevoli altri suoi simili, tutti i morti suicidi che costituiscono una sorta di comunità di paria, esclusa dalla luce divina e impossibilitata a lasciare quel corpo che tanto hanno aborrito fino a privarlo della vita. Con l'angoscia a divorare quella che avrebbe dovuta essere ragione pura, il suicida si accorge di non essere ancora morto, perché qualcuno sta provando a salvarlo, dicendo che sarà dura che ce la faccia, perché per vivere adesso serve una forte volontà, che di solito i suicidi non hanno. Ma ora il tentato suicida grida con flebile voce "I want to live!".
E' una lettura che non ci si aspetta in un pulp, perché è decisamente tosta, oltremodo inquietante e altrettanto sgradevole (e molti dei miei lettori capiranno il perché), ma il racconto prende, avvince, ti tratta come l'anima del protagonista del racconto e non ti lascia sfuggire dalle sue pagine. Mai più ristampato (e ci credo!) e inedito in Italia, è una storia comunque da provare a leggere, per meditarci sopra.
La prossima volta, siate certi, proporremo un pulp meno sconvolgente.
venerdì 22 febbraio 2013
Il classico della settimana: La notte del demonio
Questa volta il classico della settimana si occupa di cinema e in particolare di una delle più pellicole della storia del genere horror, un vero capolavoro girato nel 1957 da Jacques Tourneur: La notte del demonio (Night of the Demon), tratto dal racconto Casting the Runes di M.R.James, uno dei grandi autori britannici di storie del soprannaturale.
Interpretato da Dana Andrews, Peggy Cummins e un satanico Niall McGinnis (la cui apparizione come clown armato di palloncini resta indelebile nella mente di chi prova un certo disagio davanti a quelle creature dal viso dipinto - in realtà alieni assassini giunti dalle profondità dello spazio, come tutti sapranno...), la pellicola è una sorta di seminario di come si sceneggia un film horror (qui Charles Bennett, già autore dello script per le due versioni de L'uomo che sapeva troppo di Hitchcock, e di molte altre pellicole), salvo la stupida introduzione iniziale (forzata dalla produzione) di un'apparizione "in carne e ossa" dell'entità demoniaca, evocata dallo stregone.
La trama è presto detta: uno studioso americano si reca in Inghilterra per partecipare a un convegno in cui si cerca di smascherare come fasullo un culto diabolico, guidato da Karswell; dopo aver eliminato inizialmente il principale relatore del convegno, e suo persecutore, grazie all'aiuto di un demone evocato con una pergamena, Karswell cerca di ripetere il delitto anche con il nuovo arrivato, che però riuscirà a sventare la minaccia, e il folle stregone pagherà il fio delle sue colpe.
Aldilà della trama, sostanzialmente schematica e se vogliamo banale, il film ti penetra lentamente dentro grazie alla splendida regia, all'attenta sceneggiatura, alla magica atmosfera della campagna inglese, al terrore che suscita il bianco e nero, ai dettagli, alle minuzie, alla tensione montante. Ben interpretato da un cast di livello e liricamente diretto dal grande Tourneur (che ricordiamo aveva già incantato con Il bacio della pantera, ma che al suo attivo ha anche parecchie altre grandi pellicole, nei generi più disparati - citando a caso Le catene della colpa - hard boiled con Robert Mitchum, Jane Greer e Kirk Douglas - La leggenda dell'arciere di fuoco - con Burt Lancaster e Virginia Mayo, spettacolare e spassoso adventure alla Robin Hood - e Tamara figlia della steppa - orrido titolo italiano per un curioso film sulla guerra partigiana in Russia durante la seconda guerra mondiale, con un ancora molto giovane Gregory Peck), La notte del demonio è uno di quei film che non si fanno più, un horror dove l'atmosfera conta infinitamente più della trama, dove la regia sovrasta gli effetti speciali, dove il "non vedo" è infinitamente più terrorizzante del "vedo".
Bello, bellissimo, da riscoprire e da rivedere più e più volte.
Interpretato da Dana Andrews, Peggy Cummins e un satanico Niall McGinnis (la cui apparizione come clown armato di palloncini resta indelebile nella mente di chi prova un certo disagio davanti a quelle creature dal viso dipinto - in realtà alieni assassini giunti dalle profondità dello spazio, come tutti sapranno...), la pellicola è una sorta di seminario di come si sceneggia un film horror (qui Charles Bennett, già autore dello script per le due versioni de L'uomo che sapeva troppo di Hitchcock, e di molte altre pellicole), salvo la stupida introduzione iniziale (forzata dalla produzione) di un'apparizione "in carne e ossa" dell'entità demoniaca, evocata dallo stregone.
La trama è presto detta: uno studioso americano si reca in Inghilterra per partecipare a un convegno in cui si cerca di smascherare come fasullo un culto diabolico, guidato da Karswell; dopo aver eliminato inizialmente il principale relatore del convegno, e suo persecutore, grazie all'aiuto di un demone evocato con una pergamena, Karswell cerca di ripetere il delitto anche con il nuovo arrivato, che però riuscirà a sventare la minaccia, e il folle stregone pagherà il fio delle sue colpe.
Aldilà della trama, sostanzialmente schematica e se vogliamo banale, il film ti penetra lentamente dentro grazie alla splendida regia, all'attenta sceneggiatura, alla magica atmosfera della campagna inglese, al terrore che suscita il bianco e nero, ai dettagli, alle minuzie, alla tensione montante. Ben interpretato da un cast di livello e liricamente diretto dal grande Tourneur (che ricordiamo aveva già incantato con Il bacio della pantera, ma che al suo attivo ha anche parecchie altre grandi pellicole, nei generi più disparati - citando a caso Le catene della colpa - hard boiled con Robert Mitchum, Jane Greer e Kirk Douglas - La leggenda dell'arciere di fuoco - con Burt Lancaster e Virginia Mayo, spettacolare e spassoso adventure alla Robin Hood - e Tamara figlia della steppa - orrido titolo italiano per un curioso film sulla guerra partigiana in Russia durante la seconda guerra mondiale, con un ancora molto giovane Gregory Peck), La notte del demonio è uno di quei film che non si fanno più, un horror dove l'atmosfera conta infinitamente più della trama, dove la regia sovrasta gli effetti speciali, dove il "non vedo" è infinitamente più terrorizzante del "vedo".
Bello, bellissimo, da riscoprire e da rivedere più e più volte.
Un pulp al giorno: Brink of infinity
Oggi parliamo di uno dei miei racconti preferiti di Stanley G.Weinbaum: Brink of Infinity, apparso sul numero di dicembre del 1936 di Thrilling Wonder Stories, poco tempo dopo la sua scomparsa. Il racconto non era stato pensato per la pubblicazione, perché si trattava in realtà di una riscrittura di un racconto ideato da George Allan England e pubblicato nel 1915 su All Story Weekly con il titolo The Tenth Question.
La trama è a un tempo semplice e geniale (o almeno, così mi appare, per quelli che sono i miei gusti): un professore di matematica viene rapito da un folle scienziato - un chimico rimasto sfigurato per un errore di calcolo - che gli consente un massimo di dieci domande per indovinare la quantità matematica o l'espressione numerica che sta pensando; se non ci riuscirà, ne pagherà le conseguenze, a nome di quella classe di studiosi che lo ha ridotto nelle condizioni in cui vive. Attraverso un crescendo di tensione e di artifici logici, il prigioniero riuscirà a trovare la risposta esatta (che ovviamente non riporto - anche se ci si può arrivare dal titolo).
Non ho avuto modo di leggere il racconto originale di England, ma senza dubbio concordo con la scelta della sorella Helen Weinbaum di pubblicare questo piccolo gioiellino del fratello, una storia ben scritta, molto affascinante e piena di tensione e di colpi di scena, che ti rende partecipe dei giochi logico matematici delle due menti in competizione, e offre una soluzione coerente con l'ipotesi di partenza.
Riparleremo di Weinbaum e dei suoi racconti inediti (questo lo sarà ancora per pochi mesi visto che rientra nel progetto Mellonta Tauta, del quale mi pregio di essere parte integrante) in altre puntate della nostra rubrica quotidiana sui pulp.
Stay tuned for more!
La trama è a un tempo semplice e geniale (o almeno, così mi appare, per quelli che sono i miei gusti): un professore di matematica viene rapito da un folle scienziato - un chimico rimasto sfigurato per un errore di calcolo - che gli consente un massimo di dieci domande per indovinare la quantità matematica o l'espressione numerica che sta pensando; se non ci riuscirà, ne pagherà le conseguenze, a nome di quella classe di studiosi che lo ha ridotto nelle condizioni in cui vive. Attraverso un crescendo di tensione e di artifici logici, il prigioniero riuscirà a trovare la risposta esatta (che ovviamente non riporto - anche se ci si può arrivare dal titolo).
Non ho avuto modo di leggere il racconto originale di England, ma senza dubbio concordo con la scelta della sorella Helen Weinbaum di pubblicare questo piccolo gioiellino del fratello, una storia ben scritta, molto affascinante e piena di tensione e di colpi di scena, che ti rende partecipe dei giochi logico matematici delle due menti in competizione, e offre una soluzione coerente con l'ipotesi di partenza.
Riparleremo di Weinbaum e dei suoi racconti inediti (questo lo sarà ancora per pochi mesi visto che rientra nel progetto Mellonta Tauta, del quale mi pregio di essere parte integrante) in altre puntate della nostra rubrica quotidiana sui pulp.
Stay tuned for more!
mercoledì 20 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Honeymoon Coffin
Ancora una volta dalle pagine di Terror Tales, precisamente dal numero di gennaio del 1935, viene questo Honeymoon Coffin, un classico finto horror (ovvero un mystery dove l'elemento fantastico viene meno con la spiegazione finale), scritto da Ben Judson, autore poco noto e non troppo prolifico attivo fra la metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, con campi di azioni variegati (ha pubblicato anche su riviste western e avventurose).
La vicenda, narrata in prima persona dal protagonista, riguarda - e come altrimenti! - una ricca eredità e una giovane coppia di sposi, che si reca nella magione del padre defunto del marito, che si trova coinvolto in una sorta di pazzia alluccinatoria, dove crede di rivedere lo spettro del padre che lo spinge a uccidere la moglie. Si scoprirà alla fine, che si tratta solo di un astuto complotto operato dal medico di famiglia per impadronirsi del castello, inizialmente orchestrato in combutta con la zia della sposa (quasi una goccia d'acqua, solo una decina d'anni più anziana), poi caduta a sua volta vittima delle brame del dottore, invaghitosi pazzamente della sosia più giovane.
Atmosfere tipiche di Poe, con tanto di sepolto vivo, e lessico e artifizi di trama assolutamente consoni alla ghost story vittoriana, ma una notevole sensazione di già visto, già letto, già saputo, che scontenta il lettore odierno (e credo anche quello dell'epoca). Niente di straordinario, anzi, un po' sotto la media.
La vicenda, narrata in prima persona dal protagonista, riguarda - e come altrimenti! - una ricca eredità e una giovane coppia di sposi, che si reca nella magione del padre defunto del marito, che si trova coinvolto in una sorta di pazzia alluccinatoria, dove crede di rivedere lo spettro del padre che lo spinge a uccidere la moglie. Si scoprirà alla fine, che si tratta solo di un astuto complotto operato dal medico di famiglia per impadronirsi del castello, inizialmente orchestrato in combutta con la zia della sposa (quasi una goccia d'acqua, solo una decina d'anni più anziana), poi caduta a sua volta vittima delle brame del dottore, invaghitosi pazzamente della sosia più giovane.
Atmosfere tipiche di Poe, con tanto di sepolto vivo, e lessico e artifizi di trama assolutamente consoni alla ghost story vittoriana, ma una notevole sensazione di già visto, già letto, già saputo, che scontenta il lettore odierno (e credo anche quello dell'epoca). Niente di straordinario, anzi, un po' sotto la media.
martedì 19 febbraio 2013
Un pulp al giorno: School for Terror
Oggi parliamo di un racconto tratto ancora una volta da Terror Tales, per la precisione dal numero di febbraio del 1936, a firma Evan Leigh, pseudonimo usato dal giallista Charles Ingerman per le sue storie più orrorifiche. Siamo davanti a uno slasher movie anni Ottanta ante litteram, con la classica, cinematograficamente parlando, vicenda ambientata in un dormitorio femminile universitario, con più o meno discinte sorority girls che cadono vittima del pazzo di turno. Narrato dal punto di vista di una protagonista femminile, il racconto sembra in tutto e per tutto, fin nella banalità della trama e nella stupidaggine dei dialoghi, una novelization di Sorority House Massacre, Slumber Party Massacre o altre "delizie" del genere. Quindi, se tutto in fondo si risolve bene, e il giovane professore promesso sposo della protagonista riesce ad avere la meglio sul depravato anziano preside del campus, prima che quest'ultimo riesca ad eliminare la protagonista, alcuni momenti della vicenda si rivelano passaggi da risata continua: la morte dell'anziana governante della casa per studentesse sembra tratta pari pari da una sequenza in stile Dead like me e l'autore la descrive con un linguaggio che non si riesce bene a capire quanto sia stupido o quanto volutamente ironico.
Come ogni buon shudder pulp, le descrizioni lubrico-sadiche abbondano, così come il soffermarsi sulle nudità delle varie studentesse, prima e dopo la loro morte, e per un racconto scritto quasi ottant'anni fa, la modernità della situazione e del linguaggio non è certo banale e sicuramente insolita (anche se, leggendo giornalmente almeno una di queste chicche, ormai mi sto abituando al fatto che vi era molta più libertà di espressione in quegli anni che non al giorno d'oggi).
Dopo qualche delusione, questo piccolo "gioiellino" pulp risolleva l'animo e spinge con maggior entusiasmo alle future letture nel genere.
Come ogni buon shudder pulp, le descrizioni lubrico-sadiche abbondano, così come il soffermarsi sulle nudità delle varie studentesse, prima e dopo la loro morte, e per un racconto scritto quasi ottant'anni fa, la modernità della situazione e del linguaggio non è certo banale e sicuramente insolita (anche se, leggendo giornalmente almeno una di queste chicche, ormai mi sto abituando al fatto che vi era molta più libertà di espressione in quegli anni che non al giorno d'oggi).
Dopo qualche delusione, questo piccolo "gioiellino" pulp risolleva l'animo e spinge con maggior entusiasmo alle future letture nel genere.
lunedì 18 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Satan's Roadhouse
Di nuovo sulle pagine di Terror Tales, per prendere un lungo racconto del numero di ottobre del 1934 a firma Carl Jacobi, uno dei grandi nomi del weird anni Trenta e Quaranta, discretamente noto anche in Italia e attivo fino ad anni relativamente recenti (è morto novantenne nel 1997), preso sotto le ali della Arkham House e di August Derleth, e quindi molto presente su Weird Tales.
Questo racconto presenta come protagonista Stephen Benedict, un personaggio "seriale", un detective che compare in alcune sue storie, ma un nome che Jacobi ha usato anche più volte come pseudonimo.
Vi si narra di una coppia di detective sulle tracce di una giovane cantante scomparsa, che finiscono in una specie di Titty Twister ante litteram nelle paludi della Louisiana, il Club Satan, dove un misterioso mulatto intrattiene i ricchi ospiti con spettacoli grandguignoleschi e uno stuolo di pitoni e serpenti di varie dimensioni. Si capisce subito che ci si trova in mezzo a un ambiente voodoo (il proprietario ha perfino il nom de plum Leaveau, lo stesso di una delle ultime regine voodoo di New Orleans) e in modo abbastanza classico, con pochi colpi di scena, si arriva alla resa dei conti finali con la strana coppia di detective che salva la ragazza dalle grinfie del perfido mulatto, che trova una triste fine stritolato dalla spire di un gigantesco serpente.
Aldilà di qualche tocco di sadismo assortito, il racconto scorre via facile, senza infamia e senza lode, piuttosto dozzinale, non certo una grande aggiunta alla fama del suo autore (qui ancora relativamente alle prime armi).
Avremo di meglio in altre occasioni, ne sono certo
Questo racconto presenta come protagonista Stephen Benedict, un personaggio "seriale", un detective che compare in alcune sue storie, ma un nome che Jacobi ha usato anche più volte come pseudonimo.
Vi si narra di una coppia di detective sulle tracce di una giovane cantante scomparsa, che finiscono in una specie di Titty Twister ante litteram nelle paludi della Louisiana, il Club Satan, dove un misterioso mulatto intrattiene i ricchi ospiti con spettacoli grandguignoleschi e uno stuolo di pitoni e serpenti di varie dimensioni. Si capisce subito che ci si trova in mezzo a un ambiente voodoo (il proprietario ha perfino il nom de plum Leaveau, lo stesso di una delle ultime regine voodoo di New Orleans) e in modo abbastanza classico, con pochi colpi di scena, si arriva alla resa dei conti finali con la strana coppia di detective che salva la ragazza dalle grinfie del perfido mulatto, che trova una triste fine stritolato dalla spire di un gigantesco serpente.
Aldilà di qualche tocco di sadismo assortito, il racconto scorre via facile, senza infamia e senza lode, piuttosto dozzinale, non certo una grande aggiunta alla fama del suo autore (qui ancora relativamente alle prime armi).
Avremo di meglio in altre occasioni, ne sono certo
domenica 17 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Take my hand and die!
Grande titolo per un altro breve racconto estratto da Terror Tales, dal numero di luglio/agosto del 1936 questa volta, a firma Cyryl Plunkett, autore piuttosto attivo nel genere mystery, e non solo, per tutta la decade.
E' la storia di un ricco uomo politico, candidato a una carica molto importante, che improvvisamente comincia ad avere dei vuoti di memoria assoluti e a trovare cadaveri sparsi nel proprio appartamento (prima il ragazzo dei giornali, poi una vecchia vicina, poi una giovane donna sconosciuta). Angosciato e convinto di avere una doppia personalità incontrollabile, un misterioso Hyde che compie efferati delitti alla totale insaputa del suo Io normale, l'uomo nasconde via via i vari cadaveri in una grotta segreta all'interno del parco della sua magione, e prosegue una vita normale, anche se preda del rimorso e della disperazione, finché un giorno, è proprio la sua segretaria personale a scomparire, e proprio mentre l'assistente per la campagna politica è arrivato a casa sua, e il figlio sedicenne ha visto il padre andare nel giardino insieme alla donna. Convinto di essere ormai stato preso con le mani nel sacco, l'uomo gioca una carta disperata e, in modo alquanto improbabile, trova la vittima legata e imbavagliata nell'armadio della camera degli ospiti. Mentre si chiede come possa uscire dalla situazione e sembra ormai pronto a consegnarsi alla polizia, nella stanza entra il figlio sedicenne, con la bava alla bocca e un coltello da cucina stretto in pugno: l'assassino è lui. Finirà in manicomio, amorevolmente accudito dal padre, che ha rinunciato alla carriera politica.
Il titolo è in realtà la cosa migliore di un racconto, fortunatamente breve, che si sviluppa in modo abbastanza poco probabile a una rilettura attenta (ci sono troppe situazioni forzate nella trama), ma che risulta comunque scritto piuttosto bene e sufficientemente ricco di momenti interessanti.
Alla prossima!
E' la storia di un ricco uomo politico, candidato a una carica molto importante, che improvvisamente comincia ad avere dei vuoti di memoria assoluti e a trovare cadaveri sparsi nel proprio appartamento (prima il ragazzo dei giornali, poi una vecchia vicina, poi una giovane donna sconosciuta). Angosciato e convinto di avere una doppia personalità incontrollabile, un misterioso Hyde che compie efferati delitti alla totale insaputa del suo Io normale, l'uomo nasconde via via i vari cadaveri in una grotta segreta all'interno del parco della sua magione, e prosegue una vita normale, anche se preda del rimorso e della disperazione, finché un giorno, è proprio la sua segretaria personale a scomparire, e proprio mentre l'assistente per la campagna politica è arrivato a casa sua, e il figlio sedicenne ha visto il padre andare nel giardino insieme alla donna. Convinto di essere ormai stato preso con le mani nel sacco, l'uomo gioca una carta disperata e, in modo alquanto improbabile, trova la vittima legata e imbavagliata nell'armadio della camera degli ospiti. Mentre si chiede come possa uscire dalla situazione e sembra ormai pronto a consegnarsi alla polizia, nella stanza entra il figlio sedicenne, con la bava alla bocca e un coltello da cucina stretto in pugno: l'assassino è lui. Finirà in manicomio, amorevolmente accudito dal padre, che ha rinunciato alla carriera politica.
Il titolo è in realtà la cosa migliore di un racconto, fortunatamente breve, che si sviluppa in modo abbastanza poco probabile a una rilettura attenta (ci sono troppe situazioni forzate nella trama), ma che risulta comunque scritto piuttosto bene e sufficientemente ricco di momenti interessanti.
Alla prossima!
sabato 16 febbraio 2013
Un pulp al giorno: The Green Glow of Death
Anche oggi restiamo su Weinbaum, con una rarità sconosciuta ai più: si tratta di una sua incursione nel campo del giallo romantico, The Green Glow of Death, apparso nel 1957 sulla rivista Crack Detective Magazine, un tardivo recupero di uno dei suoi pochi inediti (all'epoca della pubblicazione l'autore era morto da più di un ventennio).
E' la storia di un giovane agente assicurativo di una compagnia celebre per assicurare i più preziosi gioielli del mondo, che si trova coinvolto nel furto di un preziosissimo smeraldo a bordo di una nave che lo trasporta dall'Inghilterra agli Stati Uniti. Nel corso del viaggio, l'uomo potrà conoscere e innamorarsi (ricambiato) della bella ragazza incaricata di portare il gioiello al miliardario americano che lo ha acquistato, e restare coinvolto in una serie di furti (fra tentati e riusciti), coronati da un delitto. Alla fine, prima che il gioiello possa transitare per la dogana portuale e finire fuori dalla portata della legge, il giovane riuscirà a capire chi abbia commesso il furto e in che modo.
Quasi più una storia romantica che un giallo (come tale risulta molto all'acqua di rose), il racconto è gradevolmente sbarazzino e dimostra una volta di più la capacità narrativa del suo autore (che vi sia anche in questo caso la zampino della sorella Helen? Non risulta, ma non ce ne meraviglieremmo più di tanto), anche in una delle sue rare (non è stata l'unica, c'è anche un romanzo lungo scritto sotto uno pseudonimo femminile, che rientra nel campo del romance vero e proprio, e un giallo in collaborazione con Ralph Milne Farley, autore insieme al quale ha scritto anche un paio di racconti di fantascienza) escursioni in campi ben lontani dalla fantascienza, quello che lo ha reso giustamente famoso e indimenticabile.
Alla prossima!
E' la storia di un giovane agente assicurativo di una compagnia celebre per assicurare i più preziosi gioielli del mondo, che si trova coinvolto nel furto di un preziosissimo smeraldo a bordo di una nave che lo trasporta dall'Inghilterra agli Stati Uniti. Nel corso del viaggio, l'uomo potrà conoscere e innamorarsi (ricambiato) della bella ragazza incaricata di portare il gioiello al miliardario americano che lo ha acquistato, e restare coinvolto in una serie di furti (fra tentati e riusciti), coronati da un delitto. Alla fine, prima che il gioiello possa transitare per la dogana portuale e finire fuori dalla portata della legge, il giovane riuscirà a capire chi abbia commesso il furto e in che modo.
Quasi più una storia romantica che un giallo (come tale risulta molto all'acqua di rose), il racconto è gradevolmente sbarazzino e dimostra una volta di più la capacità narrativa del suo autore (che vi sia anche in questo caso la zampino della sorella Helen? Non risulta, ma non ce ne meraviglieremmo più di tanto), anche in una delle sue rare (non è stata l'unica, c'è anche un romanzo lungo scritto sotto uno pseudonimo femminile, che rientra nel campo del romance vero e proprio, e un giallo in collaborazione con Ralph Milne Farley, autore insieme al quale ha scritto anche un paio di racconti di fantascienza) escursioni in campi ben lontani dalla fantascienza, quello che lo ha reso giustamente famoso e indimenticabile.
Alla prossima!
venerdì 15 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Tidal Moon
Con oggi, iniziamo ogni tanto a prenderci una pausa dall'infinita serie di racconti tratti dagli shudder pulps che vado rivedendo per la Radioarchives, per fare qualche puntata in territorio fantascientifico, grazie a un altro lavoro che sto portando avanti con il gruppo di amici dei Mellonta Tauta (di cui sentirete parlare molto presto, in occasione dell'uscita del nostro primo lavoro, dedicato all'opera inedita o meno conosciuta di Stanley G.Weinbaum).
Proprio dalla penna di Weinbaum (in questo caso più che aiutato dalla sorella Helen, visto che Stanley ci aveva già lasciato da un paio di anni, giovanissima vittima di un male incurabile), esce questo Tidal Moon, pubblicato per la prima volta nel numero di dicembre del 1938 sulle pagine di Thrilling Wonder Stories, la terza grande rivista di fantascienza di quegli anni, dopo Amazing Stories e Astounding Stories, passata attraverso varie incarnazioni di titolo, e ora giunta a quella definitiva che l'accompagnerà fino alla sua chiusura, nel 1955.
Weinbaum è stato un grande autore di fantascienza, pur nella sua breve carriera, l'inventore dei primi alieni veramente alieni della storia della narrativa fantastica (con i suoi personaggi di A martian Odissey), e l'avevamo già incontrato in questo blog grazie al suo divertente personaggio del professor Manderpotz.
Questo racconto non è una delle gemme più preziose della sua breve carriera, ma resta abbastanza significativo del suo modo di intendere la fantascienza: avventura, fantasia creativa e, in questo caso - forse grazie all'intervento della sorella - amore. La vicenda si svolge su Ganimede, una delle lune gioviane, la cui violentissima gravità provoca spaventose inondazioni da cui si salva soltanto uno dei poli del pianeta, abitato da curiosissimi alieni locali (dalla testa simile a un gallinaccio e dotati di arti filamentosi simili a braccia), ma anche da coloni terrestri, perché sul satellite gioviano è stata scoperta una muffa, il cree, dalle straordinarie qualità curative. Il racconto narra la storia di un terrestre che lavora per la compagnia che raccoglie e lavora il materiale e lo trasporta sulla Terra, che durante uno dei suoi giri fra i villaggi dove si effettua la raccolta, si trova affiancato un altro terrestre che, sotto le mentite spoglie del turismo, vuole in realtà rubare il segreto della trasformazione della muffa da un tipo all'altro, perché su un altro satellite gioviano, Io, è stata scoperta una muffa analoga, ma di un colore diverso che non possiede capacità medicamentose. Saputo che il padre di una giovane e bella ragazza che vive in uno dei centri di raccolta di Ganimede è trovato il modo per ottenere muffe mediche anche da quelle che prima non lo erano, vi si è recato per sottrarre la formula e venderla alla compagnia che opera su Io. Ci riuscirà inutilmente, perché le muffe di Ganimede ottengono le loro qualità solo grazie alla conmpartecipazione di una sorta di formiche, che possono vivere solo nell'atmosfera ricca di ammoniaca del planetoide.
In mezzo a questa breve vicenda, briosamente narrata dalla coppia dei fratelli Weinbaum (perché sembra che Stanley avesse lasciato pochissimi appunti, forse qualche pagina, del racconto completo), si incastona una storia d'amore (fra il terrestre "buono" e la giovane ragazza, che lui aveva lasciato anni prima ragazzina e ora diventata una vera bomba sexy - come sempre nella narrativa pulp, e non solo) e i soliti strani incontri con creature aliene assolutamente straordinarie (come il pipistrello lenzuolo, una sorta di elefante volante con quattro grosse ali, e una specie di divoratore di rocce).
Divertente da leggere, come tutta la narrativa fantastica di Weinbaum, non è un capolavoro (non gli si avvicina neppure, a dire il vero), ma è gradevole e consigliato. Lo trovate in traduzione italiana come Marea Lunare su di un numero di Nova SF di una dozzina di anni fa (e forse dopo l'estate nel nostro volume dedicato a Weinbaum - dobbiamo ancora decidere se inserirlo o meno).
Sperando che questo primo incontro dettagliato con Weinbaum sia stato di vostro gradimento, vi prometto altre gemme di questo autore nei giorni a venire
Proprio dalla penna di Weinbaum (in questo caso più che aiutato dalla sorella Helen, visto che Stanley ci aveva già lasciato da un paio di anni, giovanissima vittima di un male incurabile), esce questo Tidal Moon, pubblicato per la prima volta nel numero di dicembre del 1938 sulle pagine di Thrilling Wonder Stories, la terza grande rivista di fantascienza di quegli anni, dopo Amazing Stories e Astounding Stories, passata attraverso varie incarnazioni di titolo, e ora giunta a quella definitiva che l'accompagnerà fino alla sua chiusura, nel 1955.
Weinbaum è stato un grande autore di fantascienza, pur nella sua breve carriera, l'inventore dei primi alieni veramente alieni della storia della narrativa fantastica (con i suoi personaggi di A martian Odissey), e l'avevamo già incontrato in questo blog grazie al suo divertente personaggio del professor Manderpotz.
Questo racconto non è una delle gemme più preziose della sua breve carriera, ma resta abbastanza significativo del suo modo di intendere la fantascienza: avventura, fantasia creativa e, in questo caso - forse grazie all'intervento della sorella - amore. La vicenda si svolge su Ganimede, una delle lune gioviane, la cui violentissima gravità provoca spaventose inondazioni da cui si salva soltanto uno dei poli del pianeta, abitato da curiosissimi alieni locali (dalla testa simile a un gallinaccio e dotati di arti filamentosi simili a braccia), ma anche da coloni terrestri, perché sul satellite gioviano è stata scoperta una muffa, il cree, dalle straordinarie qualità curative. Il racconto narra la storia di un terrestre che lavora per la compagnia che raccoglie e lavora il materiale e lo trasporta sulla Terra, che durante uno dei suoi giri fra i villaggi dove si effettua la raccolta, si trova affiancato un altro terrestre che, sotto le mentite spoglie del turismo, vuole in realtà rubare il segreto della trasformazione della muffa da un tipo all'altro, perché su un altro satellite gioviano, Io, è stata scoperta una muffa analoga, ma di un colore diverso che non possiede capacità medicamentose. Saputo che il padre di una giovane e bella ragazza che vive in uno dei centri di raccolta di Ganimede è trovato il modo per ottenere muffe mediche anche da quelle che prima non lo erano, vi si è recato per sottrarre la formula e venderla alla compagnia che opera su Io. Ci riuscirà inutilmente, perché le muffe di Ganimede ottengono le loro qualità solo grazie alla conmpartecipazione di una sorta di formiche, che possono vivere solo nell'atmosfera ricca di ammoniaca del planetoide.
In mezzo a questa breve vicenda, briosamente narrata dalla coppia dei fratelli Weinbaum (perché sembra che Stanley avesse lasciato pochissimi appunti, forse qualche pagina, del racconto completo), si incastona una storia d'amore (fra il terrestre "buono" e la giovane ragazza, che lui aveva lasciato anni prima ragazzina e ora diventata una vera bomba sexy - come sempre nella narrativa pulp, e non solo) e i soliti strani incontri con creature aliene assolutamente straordinarie (come il pipistrello lenzuolo, una sorta di elefante volante con quattro grosse ali, e una specie di divoratore di rocce).
Divertente da leggere, come tutta la narrativa fantastica di Weinbaum, non è un capolavoro (non gli si avvicina neppure, a dire il vero), ma è gradevole e consigliato. Lo trovate in traduzione italiana come Marea Lunare su di un numero di Nova SF di una dozzina di anni fa (e forse dopo l'estate nel nostro volume dedicato a Weinbaum - dobbiamo ancora decidere se inserirlo o meno).
Sperando che questo primo incontro dettagliato con Weinbaum sia stato di vostro gradimento, vi prometto altre gemme di questo autore nei giorni a venire
giovedì 14 febbraio 2013
Un pulp al giorno: The Beautiful Dead
Anche oggi parliamo di Mary Dale Buckner, alias Donald Dale, con un racconto apparso sul numero di marzo aprile 1937 della rivista Terror Tales.
The Beautiful Dead è un eccellente racconto breve che narra in prima persona le vicende di un uomo, ossessionato collezionista di opere belle, in particolare statuette femminili, che si innamora, ricambiato, di una donna così bella da averne timore, perché teme che la sua brama di bellezza possa portarlo a compiere atti indicibili per stabilire se la ama veramente come donna, o ne ama solo l'involucro. Dopo aver avuto un terribile incubo premonitore in cui immagina di togliere con un bisturi il volto dell'amata, riceve la strana visita di un principe orientale, che si dice pronto a fargli vedere due straordinari esempi di maschere mortuarie, talmente belli da sembrare vivi. Seguono alcune pagine piene di fascino misterioso, in cui il comportamento del protagonista sembra averlo portato, sulla scorta di una droga o una malia operata dal principe, all'efferata azione del sogno. Non è stato così, come scopre in fondo, dopo un confronto con il deluso orientale, che però riuscirà a sfuggire: ma il racconto si chiude con il dubbio del protagonista se non sarebbe forse meglio non sposare la fidanzata, perché il suo incubo era venuto prima dell'arrivo del principe Zazoul, e forse dentro di lui si annida un killer potenziale.
Interessante esempio di shudder pulp, finalmente privo di happy ending, che conferma la Dale come autrice da tener d'occhio (potrebbe valer la pena procurarsi questa antologia http://www.amazon.co.uk/The-Beautiful-Dead-Other-Stories/dp/1605436194)
A domani per un'altra avventura in salsa pulp!
The Beautiful Dead è un eccellente racconto breve che narra in prima persona le vicende di un uomo, ossessionato collezionista di opere belle, in particolare statuette femminili, che si innamora, ricambiato, di una donna così bella da averne timore, perché teme che la sua brama di bellezza possa portarlo a compiere atti indicibili per stabilire se la ama veramente come donna, o ne ama solo l'involucro. Dopo aver avuto un terribile incubo premonitore in cui immagina di togliere con un bisturi il volto dell'amata, riceve la strana visita di un principe orientale, che si dice pronto a fargli vedere due straordinari esempi di maschere mortuarie, talmente belli da sembrare vivi. Seguono alcune pagine piene di fascino misterioso, in cui il comportamento del protagonista sembra averlo portato, sulla scorta di una droga o una malia operata dal principe, all'efferata azione del sogno. Non è stato così, come scopre in fondo, dopo un confronto con il deluso orientale, che però riuscirà a sfuggire: ma il racconto si chiude con il dubbio del protagonista se non sarebbe forse meglio non sposare la fidanzata, perché il suo incubo era venuto prima dell'arrivo del principe Zazoul, e forse dentro di lui si annida un killer potenziale.
Interessante esempio di shudder pulp, finalmente privo di happy ending, che conferma la Dale come autrice da tener d'occhio (potrebbe valer la pena procurarsi questa antologia http://www.amazon.co.uk/The-Beautiful-Dead-Other-Stories/dp/1605436194)
A domani per un'altra avventura in salsa pulp!
mercoledì 13 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Playground of the tiny killers
Torniamo al Dime Mystery Magazine del febbraio 1938 per un racconto indubbiamente piuttosto sconvolgente, che uno non si aspetterebbe certo di trovare in una rivista risalente a oltre settant'anni fa. Parleremo di Playground of the tiny killers, scritto da John H.Knox (autore da una carriera piuttosto lunga - sul Fiction Mags Index, la Bibbia per il nostro tipo di ricerca, compaiono racconti che vanno dai primi anni Venti ai primi anni Sessanta - legata principalmente a racconti orrorifici o del mistero), che non ha particolari pregi dal punto di vista narrativo, ma è piuttosto straordinario nel porre al centro della trama una banda di ragazzini omicidi (ben prima di Small Assassin di Ray Bradbury) e soprattutto degli adulti che non si peritano di ferire senza troppe remore gli aggressori (e l'autore pare "divertirsi" nel dettagliare le ferite inferte).
La vicenda ruota attorno a un misterioso parco giochi in un quartiere difficile, dove lavora come sorvegliante e insegnante la fidanzata del protagonista. Dopo che la donna ha inscenato una versione sui generis di Sogno di una notte di mezz'estate, le creature evocate nello spettacolo sembrano prendere vita e cominciare a portare la morte all'interno del parco circostante (vittime sono senzatetto, prostitute, ma anche semplici coppie in cerca di privacy o sfortunati passanti).
Come quasi sempre accade nei racconti di questa rivista, quella che inizialmente sembra una storia soprannaturale, si conclude con una spiegazione del tutto profana, e la macchinazione (operata come sempre per una questione di interesse solido, ovvero un mucchio di bei dindi) viene svelata, dopo la solita escalation di avvenimenti, secondo lo stile cliffhanging che, come avrete capito, è insito geneticamente in questo tipo di narrativa.
Pezzo quindi non particolarmente pregevole dal punto di vista della qualità letteraria, ma comunque interessante per le ragioni sopra descritte.
Stay tuned for more!
La vicenda ruota attorno a un misterioso parco giochi in un quartiere difficile, dove lavora come sorvegliante e insegnante la fidanzata del protagonista. Dopo che la donna ha inscenato una versione sui generis di Sogno di una notte di mezz'estate, le creature evocate nello spettacolo sembrano prendere vita e cominciare a portare la morte all'interno del parco circostante (vittime sono senzatetto, prostitute, ma anche semplici coppie in cerca di privacy o sfortunati passanti).
Come quasi sempre accade nei racconti di questa rivista, quella che inizialmente sembra una storia soprannaturale, si conclude con una spiegazione del tutto profana, e la macchinazione (operata come sempre per una questione di interesse solido, ovvero un mucchio di bei dindi) viene svelata, dopo la solita escalation di avvenimenti, secondo lo stile cliffhanging che, come avrete capito, è insito geneticamente in questo tipo di narrativa.
Pezzo quindi non particolarmente pregevole dal punto di vista della qualità letteraria, ma comunque interessante per le ragioni sopra descritte.
Stay tuned for more!
martedì 12 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Lovers in a Tomb
Ecco un racconto breve che mi ha veramente sorpreso in senso positivo: Lovers in a Tomb, apparso sul numero di settembre/ottobre 1936 di Terror Tales. L'autore è Dale Clark, pseudonimo di Ronal Kayser, eminentemente autori di storie mystery, attivo dalla metà degli anni Trenta in poi e particolarmente prolifico.
L'idea del racconto è tipicamente pulp: un dottore pazzoide è convinto di aver trovato il siero della giovinezza, ma, dopo una serie di esperimenti condotti sui cani e finiti in malo modo, viene espulso dalla comunità scientifica, perde le elezioni a sindaco e si ritira in una lussuosa villa con parco. Qui, ospita le coppiette in cerca di intimità, cacciate dai parchi cittadini dal sindaco bacchettone. Il problema è che numerose coppie di giovani vengono trovate morte nelle loro auto, apparentemente suicide. Una coppia di giornalisti si introduce nel parco, in cerca di uno scoop; la prima cosa che notano, oltre al vecchio e orrido guardiano del parco, è come l'intera struttura sia costellata di oscene statue di stile greco, ma raffiguranti orribili vecchi, uomini e donne, nudi secondo i canoni della scultura classica, ma impegnati in attività ludiche e amorose tipiche della giovinezza, che stonano in maniera stridente con l'età avanzata in cui lo scultore li ha rappresentati.
Durante l'appostamento, i due vengono storditi e rapiti da sconosciuti. Al risveglio, la donna si trova nuda sotto un'enorme campana di vetro, mentre l'uomo è legato a un tavolo operatorio, con un medico pazzo dal volto coperto se non per delle fessure degli occhi, che delira riguardo all'aver scoperto la causa dell'invecchiamento dei corpi, e l'aver inventato un gas capace di riprodurre gli effetti della vecchiaia; ben presto, ne dà dimostrazione inondando la campana di vetro di in gas nero come la pece; quando il fumo si dirada, un'orrenda vecchia si contorce nuda al posto della bella giornalista. Davanti agli occhi sconvolti dell'uomo, il medico dichiara di avere anche un antidoto, ma che vuole essere pagato cinquecento dollari.
Sicuro che l'uomo, non potrà mai rischiare la vita della compagna, il medico lo libera, perché possa andare in banca a prendere il denaro, ma il fotoreporter, una volta libera, aggredisce il medico e, liberatosi della megera che gli si avvinghia contro dandogli del pazzo, lo mette fuori gioco: scopre così che non si tratta del medico, ma dal vecchio guardiano del parco che, sfruttando le dicerie sugli esperimenti del dottore - da tempo segregato nella villa e ridotto all'impotenza - ha messo in atto il piano di estorsione con l'aiuto della vecchia moglie; la giornalista, al momento dell'introduzione del fumo nella campana di vetro, veniva portata in un'altra stanza attraverso una parete girevole, e la decrepita moglie del guardiano ne prendeva il posto. Una volta avuto il denaro, i due eliminavano la coppia di giovani, inscenando i suicidi.
Delizioso raccontino che racchiude in sé l'essenza dello shudder pulp, aiutato da una trama ingegnosa, una scrittura scorrevole, e alcuni tocchi alquanto particolari - come le statue - e una battuta finale (che dice come in fondo tutta l'umanità viva sotto un'immensa campana di vetro che lentamente introduce in noi le tossine della morte e della vecchiaia, e che gli innamorati si amano sì, ma già dentro una tomba) che ti tocca.
E' anche il primo racconto della nostra rassegna che introduce in modo palese la figura del mad doctor, caposaldo della narrativa dell'orrore e del mistero di quei magici anni. Sono certo che ne incontreremo decine di altri nella nostra collezione giornaliera.
Alla prossima!
L'idea del racconto è tipicamente pulp: un dottore pazzoide è convinto di aver trovato il siero della giovinezza, ma, dopo una serie di esperimenti condotti sui cani e finiti in malo modo, viene espulso dalla comunità scientifica, perde le elezioni a sindaco e si ritira in una lussuosa villa con parco. Qui, ospita le coppiette in cerca di intimità, cacciate dai parchi cittadini dal sindaco bacchettone. Il problema è che numerose coppie di giovani vengono trovate morte nelle loro auto, apparentemente suicide. Una coppia di giornalisti si introduce nel parco, in cerca di uno scoop; la prima cosa che notano, oltre al vecchio e orrido guardiano del parco, è come l'intera struttura sia costellata di oscene statue di stile greco, ma raffiguranti orribili vecchi, uomini e donne, nudi secondo i canoni della scultura classica, ma impegnati in attività ludiche e amorose tipiche della giovinezza, che stonano in maniera stridente con l'età avanzata in cui lo scultore li ha rappresentati.
Durante l'appostamento, i due vengono storditi e rapiti da sconosciuti. Al risveglio, la donna si trova nuda sotto un'enorme campana di vetro, mentre l'uomo è legato a un tavolo operatorio, con un medico pazzo dal volto coperto se non per delle fessure degli occhi, che delira riguardo all'aver scoperto la causa dell'invecchiamento dei corpi, e l'aver inventato un gas capace di riprodurre gli effetti della vecchiaia; ben presto, ne dà dimostrazione inondando la campana di vetro di in gas nero come la pece; quando il fumo si dirada, un'orrenda vecchia si contorce nuda al posto della bella giornalista. Davanti agli occhi sconvolti dell'uomo, il medico dichiara di avere anche un antidoto, ma che vuole essere pagato cinquecento dollari.
Sicuro che l'uomo, non potrà mai rischiare la vita della compagna, il medico lo libera, perché possa andare in banca a prendere il denaro, ma il fotoreporter, una volta libera, aggredisce il medico e, liberatosi della megera che gli si avvinghia contro dandogli del pazzo, lo mette fuori gioco: scopre così che non si tratta del medico, ma dal vecchio guardiano del parco che, sfruttando le dicerie sugli esperimenti del dottore - da tempo segregato nella villa e ridotto all'impotenza - ha messo in atto il piano di estorsione con l'aiuto della vecchia moglie; la giornalista, al momento dell'introduzione del fumo nella campana di vetro, veniva portata in un'altra stanza attraverso una parete girevole, e la decrepita moglie del guardiano ne prendeva il posto. Una volta avuto il denaro, i due eliminavano la coppia di giovani, inscenando i suicidi.
Delizioso raccontino che racchiude in sé l'essenza dello shudder pulp, aiutato da una trama ingegnosa, una scrittura scorrevole, e alcuni tocchi alquanto particolari - come le statue - e una battuta finale (che dice come in fondo tutta l'umanità viva sotto un'immensa campana di vetro che lentamente introduce in noi le tossine della morte e della vecchiaia, e che gli innamorati si amano sì, ma già dentro una tomba) che ti tocca.
E' anche il primo racconto della nostra rassegna che introduce in modo palese la figura del mad doctor, caposaldo della narrativa dell'orrore e del mistero di quei magici anni. Sono certo che ne incontreremo decine di altri nella nostra collezione giornaliera.
Alla prossima!
Il classico della settimana: Diplomacy
Oggi inauguro un'ulteriore rubrica, che spero possa raccogliere il plauso dei miei lettori: il classico della settimana (indicazione temporale mooooolto indicativa, visto che talvolta infittirò le uscite, diradandole in altre occasioni - questo blog non è fatto per scadenze precise!), dedicato di volta in volta a un gioco, un libro, un film, un fumetto, un disco, che hanno fatto la storia del genere.
Iniziamo, con il progenitore del wargame moderno: Diplomacy.Nato addirittura negli anni Cinquanta del secolo scorso, Diplomacy è un gioco strategico diplomatico ambientato nell'Europa immediatamente precedente al primo conflitto mondiale, per 2-7 giocatori (ovviamente, visto che la base del gioco sono la trattativa diplomatica e le pugnalate alla schiena degli altri giocatori, più si è, più ci si diverte).
La plancia del gioco è divisa in numerose zone di terra e di mare, dove i giocatori manovrano le poche pedine a disposizione, che rappresentano eserciti o flotte. Il gioco procede in maniera molto semplice: ogni unità può muoversi di uno spazio o restare ferma; se si muove, può dichiarare un semplice spostamento in zona libera o assalire una zona occupata da un avversario; se sta ferma, può supportare l'attacco o la difesa di un'unita amica (o momentaneamente alleata). Dal momento che il gioco non prevede l'uso di dadi o di tabelle per la risoluzione del combattimento, l'unico modo di conquistare terreno è ottenere la superiorità numerica nella zona dove ci si vuole spostare. Per far questo, dopo pochissime mosse è assolutamente necessaria la collaborazione di uno o più compagni/rivali. Ah, dimenticavo: il gioco prevede una risoluzione delle mosse in contemporanea, e gli ordini alle proprie unità vanno dati per scritto.
Perfetto per il gioco online in tempo reale, attraverso le chat, il gioco si sviluppava ben presto come perfetto gioco postale (ben prima di quello della Terra di Mezzo, che almeno alcuni di voi avranno giocato ruotando attorno a Stratagemma, grazie alla splendida iniziativa di Alessandro Ivanoff e della Das Production, e alla sconfinata passione e capacità di reclutamento - altro che il vecchio Zio Sam con il dito puntato! - dimostrata all'epoca da Mirella Vicini - nonostante un disdegno iniziale neppure troppo nascosto - e molti altri) e per decenni si è diffuso in tutto il mondo come tale, prima di passare alla versione telematica della posta (anche per l'oggettiva difficoltà della partita face to face, visto l'alto numero di giocatori richiesto e il continuo parlamentare fra giocatori, che richiede stanze separate - o comunque enormi saloni - per le trattative e tempi biblici per giocare)
Semplicissimo nelle basi, il gioco possiede un fascino del tutto particolare e senza dubbio è stato una pietra miliare nel genere wargamistico, pur non essendolo veramente.
Personalmente, ricordo di aver avuto occasione di giocare poche volte partite con un numero sufficiente di giocatori (ne ho giocate tante in 2-3 giocatori, ma è tutta una cosa diversa, poco divertente), e di essermi infuriato più volte (bisogna giocarlo con lo spirito giusto, altrimenti è un gioco distruggi amicizie). Ammetto di non averlo mai amato in modo particolare (non sono fatto per doppiogiochismo e pugnalate alla schiena - sarei un pessimo giocatore di poker, credo), ma non posso non riconoscerne l'importanza e i meriti (tanto che è stato comunque il primo wargame in scatola che abbia mai comprato da solo, nel 1982, nel mitico scantinato - per così dire - della Marzocco di Firenze, autentico ricettacolo di gioielli preziosi in quel periodo, all'indomani del fallimento della SPI - nell'edizione della Mondadori Giochi).
Innumerevoli le sue filiazioni, fin dai primi tempi (ricordiamo almeno Machiavelli della Avalon Hill, per l'ambientazione rinascimentale), nessuna delle quali riesce però a competere con l'originale (anche se può risultare più interessante e completa). Diplomacy è un po' come gli scacchi: lo si impara velocemente, difficilmente se ne diventa padroni assoluti e si trovano sempre nuove sfide, nuove strategie, date dalle molteplici sfaccettature dell'animo umano, per natura propenso al tradimento per interesse (visione forse un po' pessimistica della natura dell'uomo, ma temo fondamentalmente vera).
E' tutto per questa volta, tornate a trovarci per altri "capolavori" del genere!
Iniziamo, con il progenitore del wargame moderno: Diplomacy.Nato addirittura negli anni Cinquanta del secolo scorso, Diplomacy è un gioco strategico diplomatico ambientato nell'Europa immediatamente precedente al primo conflitto mondiale, per 2-7 giocatori (ovviamente, visto che la base del gioco sono la trattativa diplomatica e le pugnalate alla schiena degli altri giocatori, più si è, più ci si diverte).
La plancia del gioco è divisa in numerose zone di terra e di mare, dove i giocatori manovrano le poche pedine a disposizione, che rappresentano eserciti o flotte. Il gioco procede in maniera molto semplice: ogni unità può muoversi di uno spazio o restare ferma; se si muove, può dichiarare un semplice spostamento in zona libera o assalire una zona occupata da un avversario; se sta ferma, può supportare l'attacco o la difesa di un'unita amica (o momentaneamente alleata). Dal momento che il gioco non prevede l'uso di dadi o di tabelle per la risoluzione del combattimento, l'unico modo di conquistare terreno è ottenere la superiorità numerica nella zona dove ci si vuole spostare. Per far questo, dopo pochissime mosse è assolutamente necessaria la collaborazione di uno o più compagni/rivali. Ah, dimenticavo: il gioco prevede una risoluzione delle mosse in contemporanea, e gli ordini alle proprie unità vanno dati per scritto.
Perfetto per il gioco online in tempo reale, attraverso le chat, il gioco si sviluppava ben presto come perfetto gioco postale (ben prima di quello della Terra di Mezzo, che almeno alcuni di voi avranno giocato ruotando attorno a Stratagemma, grazie alla splendida iniziativa di Alessandro Ivanoff e della Das Production, e alla sconfinata passione e capacità di reclutamento - altro che il vecchio Zio Sam con il dito puntato! - dimostrata all'epoca da Mirella Vicini - nonostante un disdegno iniziale neppure troppo nascosto - e molti altri) e per decenni si è diffuso in tutto il mondo come tale, prima di passare alla versione telematica della posta (anche per l'oggettiva difficoltà della partita face to face, visto l'alto numero di giocatori richiesto e il continuo parlamentare fra giocatori, che richiede stanze separate - o comunque enormi saloni - per le trattative e tempi biblici per giocare)
Semplicissimo nelle basi, il gioco possiede un fascino del tutto particolare e senza dubbio è stato una pietra miliare nel genere wargamistico, pur non essendolo veramente.
Personalmente, ricordo di aver avuto occasione di giocare poche volte partite con un numero sufficiente di giocatori (ne ho giocate tante in 2-3 giocatori, ma è tutta una cosa diversa, poco divertente), e di essermi infuriato più volte (bisogna giocarlo con lo spirito giusto, altrimenti è un gioco distruggi amicizie). Ammetto di non averlo mai amato in modo particolare (non sono fatto per doppiogiochismo e pugnalate alla schiena - sarei un pessimo giocatore di poker, credo), ma non posso non riconoscerne l'importanza e i meriti (tanto che è stato comunque il primo wargame in scatola che abbia mai comprato da solo, nel 1982, nel mitico scantinato - per così dire - della Marzocco di Firenze, autentico ricettacolo di gioielli preziosi in quel periodo, all'indomani del fallimento della SPI - nell'edizione della Mondadori Giochi).
Innumerevoli le sue filiazioni, fin dai primi tempi (ricordiamo almeno Machiavelli della Avalon Hill, per l'ambientazione rinascimentale), nessuna delle quali riesce però a competere con l'originale (anche se può risultare più interessante e completa). Diplomacy è un po' come gli scacchi: lo si impara velocemente, difficilmente se ne diventa padroni assoluti e si trovano sempre nuove sfide, nuove strategie, date dalle molteplici sfaccettature dell'animo umano, per natura propenso al tradimento per interesse (visione forse un po' pessimistica della natura dell'uomo, ma temo fondamentalmente vera).
E' tutto per questa volta, tornate a trovarci per altri "capolavori" del genere!
lunedì 11 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Lovely Lady of Death
Iniziamo, con questo racconto, l'esame di un altra celebre rivista pulp anni Trenta, una fra le rivali della mitica Weird Tales, una dei membri dei cosiddetti Shudder Pulps: Terror Tales. Nata nel 1934 e proseguita fino al 1941, la pubblicazione della rivista ha visto al suo interno scrittori di discreta fama, nel genere, come Paul Ernst, Wyatt Blassingame, Hugh B.Cave, Nat Schachner, Arthur Leo Zagat, Arthur J.Burks, e numerosi altri che abbiamo già incontrato nella nostra rassegna.
Il racconto che abbiamo scelto per iniziare l'analisi della rivista è Lovely Lady of Death, scritto dal misconosciuto Donald Dale, pseudonimo di Mary Dale Buckner, autrice la cui carriera si colloca nel breve spazio di tempo compreso fra la metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, tutta su riviste di genere weird. Il racconto in questione, apparso nel numero di luglio agosto del 1937, richiama subito alla mente un classico del cinema horror uscito solo un anno prima (ed esso stesso di derivazione letteraria, in quanto tratto da Abraham Merritt): La bambola del diavolo di Tod Robbins.
E' la vicenda di un giovane medico, sul punto di sposare la sua fidanzata fin dai tempi del college, chiamato nella strana casa di un inquietante ispanico, Manuel Ortiz, la cui bellissima moglie, da tempo sofferente per un male che il medico ritiene immaginario, è appena morta senza nessuna spiegazione apparente, tranne una minuscola ferita, simile al graffio di una spilla, proprio sotto la gola.
Ortiz, fuori di sé per la perdita, promette vendetta ai danni del medico, che, non particolarmente scosso dall'accaduto, anche se ovviamente dispiaciuto per la morte della donna, torna a casa per potersi preparare per il matrimonio. Poco dopo riceve la visita di una strano e inquiatante mendicante, che gli vende una bellissima statuetta di legno di una donna in punta di piedi con le mani protese a coppa sopra la testa, a reggere una misteriosa sfera di cristallo. Estasiato dalla bellezza dell'oggetto, pur con qualche riluttanza, il medico lo acquista e lo regala alla futura sposa. Celebrate le nozze, la coppia inizia a subire continue minacce, da un'entità misteriosa che sembra uscire di notte dalla sfera stessa, finché, dopo aver ucciso per sbaglio la sorella del protagonista, rimasta a dormire nel letto generalmente occupato dalla moglie, la mostruosa creatura rapisce Myra - la moglie del dottore - e il medico stesso si trova alla mercé del mostro, che altri non è che il crudele ispanico, negromante e stregone che ha trovato il modo di stringere un patto con il demonio e tornare fin dalle viscere dell'inferno (si è infatti ucciso, con un rito sacrificale, il giorno stesso della morte della moglie); ma con un gesto disperato, il medico riesce a catapultare il proprio corpo legato contro il tavolo che sostiene la statuetta, che crolla sul pavimento e si infrange, distruggendo con se stessa il mostro infernale, un attimo prima che Myra venga per sempre risucchiata nel suo mondo.
Classico esempio di horror del periodo, appena sfiorato dalle connotazioni sadico-deprevate altrove evidenziate e tipiche della narrativa degli Shudder Pulps - forse perché scritto da una donna -, resta un racconto di discreta fattura, anche se assolutamente stereotipato e privo di reali colpi di scena per un lettore odierno. Non ha senso chiedersi delle azioni una più stupida dell'altra che vengono compiute dai protagonisti (esattamente come non ha senso porsi le medesime domande quando si assiste a una pellicola slasher anni Ottanta-Novanta: ci si lascia portare dal flusso della vicenda e si chiudono entrambi gli occhi davanti alle improbabilità), e se lo si legge con il giusto spirito, la lettura risulta perfino godibile.
Molti altri esempi del genere nelle prossime settimana
Il racconto che abbiamo scelto per iniziare l'analisi della rivista è Lovely Lady of Death, scritto dal misconosciuto Donald Dale, pseudonimo di Mary Dale Buckner, autrice la cui carriera si colloca nel breve spazio di tempo compreso fra la metà degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, tutta su riviste di genere weird. Il racconto in questione, apparso nel numero di luglio agosto del 1937, richiama subito alla mente un classico del cinema horror uscito solo un anno prima (ed esso stesso di derivazione letteraria, in quanto tratto da Abraham Merritt): La bambola del diavolo di Tod Robbins.
E' la vicenda di un giovane medico, sul punto di sposare la sua fidanzata fin dai tempi del college, chiamato nella strana casa di un inquietante ispanico, Manuel Ortiz, la cui bellissima moglie, da tempo sofferente per un male che il medico ritiene immaginario, è appena morta senza nessuna spiegazione apparente, tranne una minuscola ferita, simile al graffio di una spilla, proprio sotto la gola.
Ortiz, fuori di sé per la perdita, promette vendetta ai danni del medico, che, non particolarmente scosso dall'accaduto, anche se ovviamente dispiaciuto per la morte della donna, torna a casa per potersi preparare per il matrimonio. Poco dopo riceve la visita di una strano e inquiatante mendicante, che gli vende una bellissima statuetta di legno di una donna in punta di piedi con le mani protese a coppa sopra la testa, a reggere una misteriosa sfera di cristallo. Estasiato dalla bellezza dell'oggetto, pur con qualche riluttanza, il medico lo acquista e lo regala alla futura sposa. Celebrate le nozze, la coppia inizia a subire continue minacce, da un'entità misteriosa che sembra uscire di notte dalla sfera stessa, finché, dopo aver ucciso per sbaglio la sorella del protagonista, rimasta a dormire nel letto generalmente occupato dalla moglie, la mostruosa creatura rapisce Myra - la moglie del dottore - e il medico stesso si trova alla mercé del mostro, che altri non è che il crudele ispanico, negromante e stregone che ha trovato il modo di stringere un patto con il demonio e tornare fin dalle viscere dell'inferno (si è infatti ucciso, con un rito sacrificale, il giorno stesso della morte della moglie); ma con un gesto disperato, il medico riesce a catapultare il proprio corpo legato contro il tavolo che sostiene la statuetta, che crolla sul pavimento e si infrange, distruggendo con se stessa il mostro infernale, un attimo prima che Myra venga per sempre risucchiata nel suo mondo.
Classico esempio di horror del periodo, appena sfiorato dalle connotazioni sadico-deprevate altrove evidenziate e tipiche della narrativa degli Shudder Pulps - forse perché scritto da una donna -, resta un racconto di discreta fattura, anche se assolutamente stereotipato e privo di reali colpi di scena per un lettore odierno. Non ha senso chiedersi delle azioni una più stupida dell'altra che vengono compiute dai protagonisti (esattamente come non ha senso porsi le medesime domande quando si assiste a una pellicola slasher anni Ottanta-Novanta: ci si lascia portare dal flusso della vicenda e si chiudono entrambi gli occhi davanti alle improbabilità), e se lo si legge con il giusto spirito, la lettura risulta perfino godibile.
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domenica 10 febbraio 2013
Un pulp al giorno: Picnic of the Damned
Altro giorno, altro racconto, tratto sempre dalla pagine di Dime Mystery Magazine, settembre 1935. Questa volta vi porta a un ben strano picnic nei boschi del New England, accompagnati da Arthur J.Burks (autore particolarmente prolifico in moltissimi generi, da noi conosciuto per qualche racconto apparso su Weird Tales). Benvenuti al Picnic of the Damned.
E' la storia di una combriccola di amici che si ferma in un boschetto circondato da alte mura per un picnic. Prima di cominciare, gli amici decidono di esplorare la zona in cerca del posto adatto al pranzo, e divisisi in coppie, iniziano l'esplorazione. La coppia dei protagonisti si trova improvvisamente da sola, incapace di trovare la strada per uscire da quello strano boschetto, con l'uomo - che si chiama Cain... nome appropriato, come vedremo - che si ferisce addirittura i palmi delle mani come con delle stimmate, perché le mura sono piene di vetri e cocci rotti per impedire a qualcuno di poterle scalare. Incapaci di trovare l'uscita e apparentemente di farsi sentire dagli amici nonostante le grida, i due si imbattono in uno strano "frate", mezzo sdentato e con una benda sopra un occhio, che li guida con una lanterna fino a un sentiero che dovrebbe portarli fuori dal labirinto in cui sono inavvertitamente entrati. Lasciata l'inquietante compagnia, i due futuri sposini (la ragazza, Claire, è una sorta di beghina, una Lucia Mondella del New England, tutta casa e chiesa) scoprono con orrore una visione mostruosa: uno dei loro amici è stato crocifisso nudo a un albero, ed è già morto, mentre ai suoi piedi, completamente nuda, giace Moira, la fidanzata, ridotta a relitto piangente, dopo aver subito un'indicibile violenza da parte di sconosciuti; per l'intera notte, lo strano trio procede nel buio, vessato dalle minacce di voci roche e inquietanti, immerso in un incubo senza fine, con la sola presenza delle stimmate a salvarli dalla sorte subita dalla coppia di amici (e presumibilmente da tutti gli altri). All'alba, però, il sole scaccia le ombre dei demoni notturni, e la coppia (Moira è andata dispersa durante l'interminabile calvario) ritrova l'uscita e la macchina. Proprio in quel mentre, vedono arrivare le tre macchine dei loro amici, compreso quelli che avevano visto morti e deliranti durante la notte, che gli spiegano di aver semplicemente giocato loro un brutto tiro, anche perché hanno scoperto da un agricoltore vicino, che il posto dove li avevano lasciati era una specie di cimitero per tutte le streghe bruciate vive a Salem e dintorni alla fine del Seicento. Cain non crede però di aver avuto soltanto allucinazioni e convince la polizia a passare al setaccio il posto: saranno scoperti il frate guercio e una combriccola di suoi accoliti, oltre ai corpi seviziati di numerose vittime delle loro violenze. Ringraziando la Provvidenza, il precedentemente ateo Renzo... ehm, Cain, potrà abbracciare la futura moglie, grazie alla cui preghiera avevano avuto salva la vita (povero te!).
L'insopportabile sottofondo manzoniano - con il tema della Provvidenza e della preghiera - rende scarsamente godibile un racconto che altrimenti avrebbe meritato plausi ben maggiori: Burks scrive abbastanza bene, la storia è sufficientemente truce e disperata da prendere il lettore per quasi due terzi, ma poi scade in un finale banale e poco plausibile, infestato dalla presenza del divino ad ogni costo. Si finisce per parteggiare per i poveri frati depravati, ma ovviamente il lieto fine è d'obbligo, anche in racconti così "spinti".
Avremo qualcosa di più godibile nel prossimo futuro.
E' la storia di una combriccola di amici che si ferma in un boschetto circondato da alte mura per un picnic. Prima di cominciare, gli amici decidono di esplorare la zona in cerca del posto adatto al pranzo, e divisisi in coppie, iniziano l'esplorazione. La coppia dei protagonisti si trova improvvisamente da sola, incapace di trovare la strada per uscire da quello strano boschetto, con l'uomo - che si chiama Cain... nome appropriato, come vedremo - che si ferisce addirittura i palmi delle mani come con delle stimmate, perché le mura sono piene di vetri e cocci rotti per impedire a qualcuno di poterle scalare. Incapaci di trovare l'uscita e apparentemente di farsi sentire dagli amici nonostante le grida, i due si imbattono in uno strano "frate", mezzo sdentato e con una benda sopra un occhio, che li guida con una lanterna fino a un sentiero che dovrebbe portarli fuori dal labirinto in cui sono inavvertitamente entrati. Lasciata l'inquietante compagnia, i due futuri sposini (la ragazza, Claire, è una sorta di beghina, una Lucia Mondella del New England, tutta casa e chiesa) scoprono con orrore una visione mostruosa: uno dei loro amici è stato crocifisso nudo a un albero, ed è già morto, mentre ai suoi piedi, completamente nuda, giace Moira, la fidanzata, ridotta a relitto piangente, dopo aver subito un'indicibile violenza da parte di sconosciuti; per l'intera notte, lo strano trio procede nel buio, vessato dalle minacce di voci roche e inquietanti, immerso in un incubo senza fine, con la sola presenza delle stimmate a salvarli dalla sorte subita dalla coppia di amici (e presumibilmente da tutti gli altri). All'alba, però, il sole scaccia le ombre dei demoni notturni, e la coppia (Moira è andata dispersa durante l'interminabile calvario) ritrova l'uscita e la macchina. Proprio in quel mentre, vedono arrivare le tre macchine dei loro amici, compreso quelli che avevano visto morti e deliranti durante la notte, che gli spiegano di aver semplicemente giocato loro un brutto tiro, anche perché hanno scoperto da un agricoltore vicino, che il posto dove li avevano lasciati era una specie di cimitero per tutte le streghe bruciate vive a Salem e dintorni alla fine del Seicento. Cain non crede però di aver avuto soltanto allucinazioni e convince la polizia a passare al setaccio il posto: saranno scoperti il frate guercio e una combriccola di suoi accoliti, oltre ai corpi seviziati di numerose vittime delle loro violenze. Ringraziando la Provvidenza, il precedentemente ateo Renzo... ehm, Cain, potrà abbracciare la futura moglie, grazie alla cui preghiera avevano avuto salva la vita (povero te!).
L'insopportabile sottofondo manzoniano - con il tema della Provvidenza e della preghiera - rende scarsamente godibile un racconto che altrimenti avrebbe meritato plausi ben maggiori: Burks scrive abbastanza bene, la storia è sufficientemente truce e disperata da prendere il lettore per quasi due terzi, ma poi scade in un finale banale e poco plausibile, infestato dalla presenza del divino ad ogni costo. Si finisce per parteggiare per i poveri frati depravati, ma ovviamente il lieto fine è d'obbligo, anche in racconti così "spinti".
Avremo qualcosa di più godibile nel prossimo futuro.
sabato 9 febbraio 2013
Un pulp al giorno: I married a Madman
Stamani ci avviciniamo a un altro numero di Dime Mystery Magazine, quello del febbraio del 1938, per cogliere un piccolo gioiellino, dal titolo straordinario: I married a madman, scritto da quel Frederick C.Davis, di cui avevamo già parlato in passato, per il suo personaggio di Bill Brent, il would be reporter costretto a tenere la rubrica della posta del cuore per poter lavorare al giornale.
La presente storia, invece, è un classicissimo esempio di damsel in distress, narrato in prima persona dalla stessa protagonista, che, per potersi procurare i soldi necessari a far difendere il proprio fratello (accusato di aver ucciso la moglie) dal miglior avvocato del Paese, accetta di diventare sposa di un eccentrico (e probabilmente folle) ricco ex-compagno di scuola, che vive recluso in una sorta di castello bunker, sorvegliato a vista da uno stuolo di medici e guardie del corpo.
L'uomo deve necessariamente procreare un figlio entro tempi molto brevi, o perderà tutti i suoi averi, per un'infida clausola dell'eredità paterna, così cerca disperatamente una donna che possa adempiere a questo incarico (uso volutamente una terminologia ben poco romantica, visto quello che l'uomo e i suoi tutori intendono fare); la giovane protagonista accetta, in cambio di una cifra sostanziosa, ma non sa che l'uomo è diventato una specie di belva completamente folle, che uccide le consorti durante l'amplesso (o così qualcuno vuol far credere). Dopo le consuete sofferenze e torture (parte necessaria dello script di ognuno di questi racconti - in questo caso meno bieche e riprovevoli del solito, perché Davis è un buonissimo scrittore), si viene a scoprire che il bestiale omicida non è il poveretto (mezzo demente e conservato tale dai farmaci dei medici), ma uno delle persone che ruotano attorno all'erede, nella speranza di poter conservare il denaro.
Nel frattempo, la protagonista guadagna anche un fidanzato e tutto finisce a tarallucci e vino.
Davis è un bravo autore pulp e, anche se continuo largamente a preferire il mystery atipico con protagonista Bill Brent, il racconto si lascia leggere senza particolari problemi.
Ne vedremo altri, nei prossimi giorni. Stay tuned!
La presente storia, invece, è un classicissimo esempio di damsel in distress, narrato in prima persona dalla stessa protagonista, che, per potersi procurare i soldi necessari a far difendere il proprio fratello (accusato di aver ucciso la moglie) dal miglior avvocato del Paese, accetta di diventare sposa di un eccentrico (e probabilmente folle) ricco ex-compagno di scuola, che vive recluso in una sorta di castello bunker, sorvegliato a vista da uno stuolo di medici e guardie del corpo.
L'uomo deve necessariamente procreare un figlio entro tempi molto brevi, o perderà tutti i suoi averi, per un'infida clausola dell'eredità paterna, così cerca disperatamente una donna che possa adempiere a questo incarico (uso volutamente una terminologia ben poco romantica, visto quello che l'uomo e i suoi tutori intendono fare); la giovane protagonista accetta, in cambio di una cifra sostanziosa, ma non sa che l'uomo è diventato una specie di belva completamente folle, che uccide le consorti durante l'amplesso (o così qualcuno vuol far credere). Dopo le consuete sofferenze e torture (parte necessaria dello script di ognuno di questi racconti - in questo caso meno bieche e riprovevoli del solito, perché Davis è un buonissimo scrittore), si viene a scoprire che il bestiale omicida non è il poveretto (mezzo demente e conservato tale dai farmaci dei medici), ma uno delle persone che ruotano attorno all'erede, nella speranza di poter conservare il denaro.
Nel frattempo, la protagonista guadagna anche un fidanzato e tutto finisce a tarallucci e vino.
Davis è un bravo autore pulp e, anche se continuo largamente a preferire il mystery atipico con protagonista Bill Brent, il racconto si lascia leggere senza particolari problemi.
Ne vedremo altri, nei prossimi giorni. Stay tuned!
venerdì 8 febbraio 2013
Spies like us!
Il venerdì ludico questa volta estrae dal cilindro un vecchissimo gioco della SPI, pubblicato subito prima del suo fallimento (o inglobamento nella TSR che dir si voglia) e presto riapparso con il logo della celebre casa editrice del Wisconsin.
Spies è un gioco da 3 a 5 giocatori, che simula la guerra di spie intercorsa fra le potenze europee nel periodo immediatamente precedente il secondo conflitto mondiale. Le nazioni in campo sono Germania, Italia, Russia, Francia e Gran Bretagna. Scopo del gioco, cercare di mantenere in patria i propri segreti e nel contempo sottrarre e portare nella propria capitale quelli delle altre nazioni.
Su di una variopinta mappa dell'Europa, i giocatori muovono le proprie pedine spia e le proprie forze di polizia, per cercare di portare a termine il compito sopra indicato.
Ci sono 7 turni di gioco e la partita, una volta messi dei paletti al tempo a disposizione di ogni giocatore per effettuare le proprie mosse, dovrebbe concludersi in circa 3 ore (sì, come gioco di società è piuttosto lungo, ma d'altra parte si tratta di un ibrido che possiede ancora molte delle caratteristiche tipiche del wargame).
Dopo aver sistemato i propri segreti e quelli nei paesi neutrali, la partita inizia: in ogni turno, il giocatore di mano prima di tutto può decidere di giocare una tessera evento (necessaria per accumulare pedine azione - il fulcro del gioco - e denaro - altro elemento fondamentale), poi può risistemare la propria polizia nazionale (magari pescando qualche spia nemica) e quindi iniziare a muovere e ad agire con le proprie spie. Ciascuna spia può in un turno muoversi un massimo di 5 spazi e giocare quante pedine azione desidera (nel limite massimo dei 12 punti azioni disponibili in ogni turno per ciascun giocatore - credetemi, sono molto pochi: in genere si riescono a sfruttare non più di un paio delle 5/6 spie a disposizione); le pedine azione consentono tutta una serie di cose (dal cercare di rubare il segreto, a reclutare nuove spie, a eliminare spie nemiche, ad evitare di essere sgamati dalla polizia, etc.), ma hanno un costo sia in punti azione (di solito 1 punto per azione) e, soprattutto, in denaro: nei primi turni la mancanza di denaro si farà sentire molto e costringerà i giocatori a cercare di mettere subito al sicuro alcuni dei segreti rubati per avere subito denaro, a costo di ottenere meno punti vittoria (visto che la consegna di un segreto dà un moltiplicatore di punti vittoria che cresce - per la Gran Bretagna anche in modo esponenziale - con l'andare avanti della partita).
Avevo giocato questo gioco (vecchio di più di 30 anni ormai) tantissimi anni fa, almeno una ventina, e me lo ricordavo piuttosto interessante: confermo l'impressione, è un ottimo gioco, che necessiterebbe di una trasformazione almeno parziale in gioco di carte (le pedine azione necessitano un tale passaggio, per rendere più scorrevole e rapido lo sviluppo della partita), ma che soffre di un'eccessiva lunghezza e della necessità di avere cinque giocatori (in meno, diventa sostanzialmente squilibrato a favore delle potenze che si trovano la nazione fantoccio vicina).
Forse non è per tutti, ma il mio gruppo ieri sera si è divertito molto (pur avendo dovuto arrestare la partita a 2/3 dello sviluppo per ragioni di tempo) e consiglio il gioco - se riuscito a trovarlo su Ebay - a tutti gli appassionati del periodo o di un gioco da tavolo non banale, ma nemmeno eccessivamente complesso, e che amano una partita in cui si gioca veramente contro gli altri giocatori, e dove restarsene in disparte - a meno di non essere la Gran Bratagna e avere in casa tutti segreti particolarmente preziosi - non porta da nessuna parte. Bisogna rischiare e saper colpire al momento opportuno. Una piacevole riscoperta
Spies è un gioco da 3 a 5 giocatori, che simula la guerra di spie intercorsa fra le potenze europee nel periodo immediatamente precedente il secondo conflitto mondiale. Le nazioni in campo sono Germania, Italia, Russia, Francia e Gran Bretagna. Scopo del gioco, cercare di mantenere in patria i propri segreti e nel contempo sottrarre e portare nella propria capitale quelli delle altre nazioni.
Su di una variopinta mappa dell'Europa, i giocatori muovono le proprie pedine spia e le proprie forze di polizia, per cercare di portare a termine il compito sopra indicato.
Ci sono 7 turni di gioco e la partita, una volta messi dei paletti al tempo a disposizione di ogni giocatore per effettuare le proprie mosse, dovrebbe concludersi in circa 3 ore (sì, come gioco di società è piuttosto lungo, ma d'altra parte si tratta di un ibrido che possiede ancora molte delle caratteristiche tipiche del wargame).
Dopo aver sistemato i propri segreti e quelli nei paesi neutrali, la partita inizia: in ogni turno, il giocatore di mano prima di tutto può decidere di giocare una tessera evento (necessaria per accumulare pedine azione - il fulcro del gioco - e denaro - altro elemento fondamentale), poi può risistemare la propria polizia nazionale (magari pescando qualche spia nemica) e quindi iniziare a muovere e ad agire con le proprie spie. Ciascuna spia può in un turno muoversi un massimo di 5 spazi e giocare quante pedine azione desidera (nel limite massimo dei 12 punti azioni disponibili in ogni turno per ciascun giocatore - credetemi, sono molto pochi: in genere si riescono a sfruttare non più di un paio delle 5/6 spie a disposizione); le pedine azione consentono tutta una serie di cose (dal cercare di rubare il segreto, a reclutare nuove spie, a eliminare spie nemiche, ad evitare di essere sgamati dalla polizia, etc.), ma hanno un costo sia in punti azione (di solito 1 punto per azione) e, soprattutto, in denaro: nei primi turni la mancanza di denaro si farà sentire molto e costringerà i giocatori a cercare di mettere subito al sicuro alcuni dei segreti rubati per avere subito denaro, a costo di ottenere meno punti vittoria (visto che la consegna di un segreto dà un moltiplicatore di punti vittoria che cresce - per la Gran Bretagna anche in modo esponenziale - con l'andare avanti della partita).
Avevo giocato questo gioco (vecchio di più di 30 anni ormai) tantissimi anni fa, almeno una ventina, e me lo ricordavo piuttosto interessante: confermo l'impressione, è un ottimo gioco, che necessiterebbe di una trasformazione almeno parziale in gioco di carte (le pedine azione necessitano un tale passaggio, per rendere più scorrevole e rapido lo sviluppo della partita), ma che soffre di un'eccessiva lunghezza e della necessità di avere cinque giocatori (in meno, diventa sostanzialmente squilibrato a favore delle potenze che si trovano la nazione fantoccio vicina).
Forse non è per tutti, ma il mio gruppo ieri sera si è divertito molto (pur avendo dovuto arrestare la partita a 2/3 dello sviluppo per ragioni di tempo) e consiglio il gioco - se riuscito a trovarlo su Ebay - a tutti gli appassionati del periodo o di un gioco da tavolo non banale, ma nemmeno eccessivamente complesso, e che amano una partita in cui si gioca veramente contro gli altri giocatori, e dove restarsene in disparte - a meno di non essere la Gran Bratagna e avere in casa tutti segreti particolarmente preziosi - non porta da nessuna parte. Bisogna rischiare e saper colpire al momento opportuno. Una piacevole riscoperta
Un pulp al giorno: On the Homicide of the Street
Oggi torniamo a parlare di Dime Detective, con un altro racconto tratto dal numero di marzo del 1946, scritto da Julius Long (autore nemmeno troppo prolifico e legato a varie testate mystery o hard boiled, come Black Mask e Detective Story), parte di un ciclo (non so quanto lungo) di racconti legati al personaggio di Clarence Darrow Mort (C.D. per gli amici), un avvocato espertissimo nel tirar fuori dai guai tutti i suoi clienti accusati dei più turpi delitti (alla Perry Mason, insomma).
La storia inizia con Mort che riesce, tramite un cavillo legale, a far assolvere un assassino reo confesso, finendo nel contempo per restare senza un soldo (il cliente è troppo povero per pagarlo), in galera per oltraggio alla corte (la caratteristica principale di Mort è quella di non avere peli sulla lingua e di non saperla tenere mai a freno), e subito invischiato in una serie di intricate vicende che lo porteranno a scoprire perché il cliente appena liberato sia finito a sua volta ucciso. Aiutato da un divertito e divertente cast di comprimari, Mort (personaggio per molti versi simile a Holmes di Elementary) riuscirà a risolvere il caso, assicurare il vero colpevole alla giustizia e ottenere anche la dovuta ricompensa (per la gioia del socio, piuttosto stufo di dover tirar fuori soldi per le varie sciocchezze compiute dall'amico).
Scritto veramente bene, con un personaggio particolarmente riuscito come protagonista e uno stuolo di caratterizzazione dannatamente pulp, il racconto in questione è un piccolo gioiellino di un numero della rivista che ne comprende almeno un altro (il Some like 'em dead di Frederick C.Davis, di cui abbiamo parlato nel post dedicato a Bill Brent) e nel complesso vale proprio il prezzo di acquisto (nel caso dovesse apparire a 2.99 dollari nel catalogo della Radioarchives).
La storia inizia con Mort che riesce, tramite un cavillo legale, a far assolvere un assassino reo confesso, finendo nel contempo per restare senza un soldo (il cliente è troppo povero per pagarlo), in galera per oltraggio alla corte (la caratteristica principale di Mort è quella di non avere peli sulla lingua e di non saperla tenere mai a freno), e subito invischiato in una serie di intricate vicende che lo porteranno a scoprire perché il cliente appena liberato sia finito a sua volta ucciso. Aiutato da un divertito e divertente cast di comprimari, Mort (personaggio per molti versi simile a Holmes di Elementary) riuscirà a risolvere il caso, assicurare il vero colpevole alla giustizia e ottenere anche la dovuta ricompensa (per la gioia del socio, piuttosto stufo di dover tirar fuori soldi per le varie sciocchezze compiute dall'amico).
Scritto veramente bene, con un personaggio particolarmente riuscito come protagonista e uno stuolo di caratterizzazione dannatamente pulp, il racconto in questione è un piccolo gioiellino di un numero della rivista che ne comprende almeno un altro (il Some like 'em dead di Frederick C.Davis, di cui abbiamo parlato nel post dedicato a Bill Brent) e nel complesso vale proprio il prezzo di acquisto (nel caso dovesse apparire a 2.99 dollari nel catalogo della Radioarchives).
giovedì 7 febbraio 2013
Un pulp al giorno: A child for Satan
Vado ancora a pescare dal Dime Mystery Magazine del settembre del 1935, per recuperare un truce racconto di sabba diabolici e maledizioni familiari che durano un millennio, A Child for Satan, scritto da Chandler H.Whipple (autore quasi sconosciuto in Italia, ma estremamente prolifico in generi oltremodo diversi - o forse no - quali gli horror sadico-truculenti che infarcivano le pagine di Horror Stories, Terror Tales e gli altri Shudder Pulps del periodo, e le storie romantico-avventurose pubblicate su Rangeland Romance, Thrilling Love e simili), e facente parte del ciclo della Maledizione degli Harcourts, che comprende sei diversi racconti, tutti apparsi su Dime Mystery Magazine.
Il racconto in esame è ambientato in un villaggio nei pressi di Salem nel periodo della caccia alle streghe, e narra del tentativo del perfido nobile fiorentino Pirelli (pensa un po' te...) di estenguire una volta per tutte la famiglia rivale degli Harcourt, ormai ridotta al giovane John e al figlio di pochi mesi. L'infernale creatura (diventata una sorta di demone infernale, capace di assumere le sembianze di chi vuole), dopo aver (apparentemente) eliminato il capofamiglia, cerca di costringere la giovane e bella moglie Elizabeth a cedere sua sponte il pargoletto al messo di Satana (da qui il termine "pargoletto" richiamato per associazione di idee con Carducci e l'Inno a Satana... guardate che labirinti assurdi percorre la mente...), sottoponendola ad atroci torture e terrificanti ordalie (descritte nel dettaglio, così come le "divertenti" procedure indiane per scuoiare vivo un essere umano - era questa una parte importante della narrativa pulp di questo tipo di riviste, che avevano un loro pubblico piuttosto ampio), cui la madre orgogliosa si sottopone pur di preservare l'immortalità dell'anima del figlioletto; ma quando il bieco Formigoni... ehm, Pirelli (scusate il lapsus... eh, questi labirinti mnemonici cosa ci fanno scrivere!) si accinge a scuoiare vivo il bimbo, la donna cede e acconsente a battezzare il piccolo nel nome del Maligno (e che sarà mai!); ma nel mezzo del sabba fra figure incappucciate e demoni dipinti di rosso, la donna decide di sacrificare la vita del figlio, pur di salvargli l'anima, afferra un coltello e si accinge a trapassare il corpicino, quando lo schianto degli spari degli archibugi rompe l'incanto; Elizabeth fugge con in braccio il bimbo, ma travolta dalla paura e dalla stanchezza, cade al suolo svenuta: al risveglio si troverà fra le braccia del marito, erroneamente creduto morto dal demone (che come ogni demone letterario è un vero imbecille e si affida ad aiutanti di serie Z - nel caso, pessimi pellerossa agghindati da creature infernali, che si lasciano sfuggire la preda e, pur di non comunicarlo al padrone per non incorrere nella sua ira, gli sostituiscono il cadavere di un altro sventurato - che, tanto, scuoiato, risulta irriconoscibile per tutti), che, dopo aver assistito all'impiccagione del Pirelli (ma non era un demone capace di assumere qualsiasi sembianza?!? Come caspita fa a farsi catturare da un manipolo di puritani armati di archibugi?!? Mistero dei lieto fine...), decide che forse è meglio tirarlo giù dalla forca, impalarlo e dargli fuoco, tanto per essere sicuri di rimandare la maledizione a qualche generazione successiva... cosa che puntualmente avviene.
Storia modesta, ma lettura a tratti divertente, anche se non tra le migliori del fascicolo in esame. Ne sentirete molte altre, se vi va di ascoltarle.
Il racconto in esame è ambientato in un villaggio nei pressi di Salem nel periodo della caccia alle streghe, e narra del tentativo del perfido nobile fiorentino Pirelli (pensa un po' te...) di estenguire una volta per tutte la famiglia rivale degli Harcourt, ormai ridotta al giovane John e al figlio di pochi mesi. L'infernale creatura (diventata una sorta di demone infernale, capace di assumere le sembianze di chi vuole), dopo aver (apparentemente) eliminato il capofamiglia, cerca di costringere la giovane e bella moglie Elizabeth a cedere sua sponte il pargoletto al messo di Satana (da qui il termine "pargoletto" richiamato per associazione di idee con Carducci e l'Inno a Satana... guardate che labirinti assurdi percorre la mente...), sottoponendola ad atroci torture e terrificanti ordalie (descritte nel dettaglio, così come le "divertenti" procedure indiane per scuoiare vivo un essere umano - era questa una parte importante della narrativa pulp di questo tipo di riviste, che avevano un loro pubblico piuttosto ampio), cui la madre orgogliosa si sottopone pur di preservare l'immortalità dell'anima del figlioletto; ma quando il bieco Formigoni... ehm, Pirelli (scusate il lapsus... eh, questi labirinti mnemonici cosa ci fanno scrivere!) si accinge a scuoiare vivo il bimbo, la donna cede e acconsente a battezzare il piccolo nel nome del Maligno (e che sarà mai!); ma nel mezzo del sabba fra figure incappucciate e demoni dipinti di rosso, la donna decide di sacrificare la vita del figlio, pur di salvargli l'anima, afferra un coltello e si accinge a trapassare il corpicino, quando lo schianto degli spari degli archibugi rompe l'incanto; Elizabeth fugge con in braccio il bimbo, ma travolta dalla paura e dalla stanchezza, cade al suolo svenuta: al risveglio si troverà fra le braccia del marito, erroneamente creduto morto dal demone (che come ogni demone letterario è un vero imbecille e si affida ad aiutanti di serie Z - nel caso, pessimi pellerossa agghindati da creature infernali, che si lasciano sfuggire la preda e, pur di non comunicarlo al padrone per non incorrere nella sua ira, gli sostituiscono il cadavere di un altro sventurato - che, tanto, scuoiato, risulta irriconoscibile per tutti), che, dopo aver assistito all'impiccagione del Pirelli (ma non era un demone capace di assumere qualsiasi sembianza?!? Come caspita fa a farsi catturare da un manipolo di puritani armati di archibugi?!? Mistero dei lieto fine...), decide che forse è meglio tirarlo giù dalla forca, impalarlo e dargli fuoco, tanto per essere sicuri di rimandare la maledizione a qualche generazione successiva... cosa che puntualmente avviene.
Storia modesta, ma lettura a tratti divertente, anche se non tra le migliori del fascicolo in esame. Ne sentirete molte altre, se vi va di ascoltarle.
mercoledì 6 febbraio 2013
La saga dei ritornanti
Questa volta ci occupiamo di una serie televisiva francese, Les Revenants, miniserie di (mi sembra) 8 puntate, che affronta in modo tipicamente transalpino il fantastico. La trama verte sul pullman di una gita scolastica (apparentemente con ragazzi di varie classi ed età) che finisce in uno strapiombo e quindi sul fondo del bacino artificiale di una diga: tutti morti.
Dopo qualche anno, una sera, una delle ragazzine facenti parti della gita, torna tranquillamente al paese alpino di provenienza, entra in casa, si scusa con la mamma per il ritardo e se ne va quatta quatta in camera sua, non rendendosi assolutamente conto di quanto è avvenuto.
Nel frattempo, invece, il paese è stato completamente stravolto dalla tragedia, la vita per qualcuno è andata avanti, per altri no (si sono distrutte famiglie, infranti matrimoni, etc. etc.) e il ritorno della ragazza (e di altri personaggi) inizia a portare nuovi mutamenti nel luogo.
In una serie di flashback, vediamo come l'incidente sia stato provocato da un fantomatico (è il caso di dirlo) bambinetto, comparso in mezzo a un tornante della strada alpina, proprio mentre l'autista del pullman era impegnato a cercare di rimandare al proprio posto a sedere la ragazzina (che si era finta la gemella per prender parte alla gita, mentre l'altra conosceva la sua "prima volta" in compagnia di un coetaneo all'insaputa dei genitori).
Misteri che si intrecciano ad altri, nella consueta lentezza e riflessività d'Oltralpe, che rende la visione a tratti piacevole ed intrigante, ad altri del tutto insopportabile. Certo, la voglia di conoscere la soluzione di qualcuno di questi enigmi c'è, ma credo che procederò molto lentamente - a mia volta - nella visione. Ci sono decisamente cose più interessanti
Dopo qualche anno, una sera, una delle ragazzine facenti parti della gita, torna tranquillamente al paese alpino di provenienza, entra in casa, si scusa con la mamma per il ritardo e se ne va quatta quatta in camera sua, non rendendosi assolutamente conto di quanto è avvenuto.
Nel frattempo, invece, il paese è stato completamente stravolto dalla tragedia, la vita per qualcuno è andata avanti, per altri no (si sono distrutte famiglie, infranti matrimoni, etc. etc.) e il ritorno della ragazza (e di altri personaggi) inizia a portare nuovi mutamenti nel luogo.
In una serie di flashback, vediamo come l'incidente sia stato provocato da un fantomatico (è il caso di dirlo) bambinetto, comparso in mezzo a un tornante della strada alpina, proprio mentre l'autista del pullman era impegnato a cercare di rimandare al proprio posto a sedere la ragazzina (che si era finta la gemella per prender parte alla gita, mentre l'altra conosceva la sua "prima volta" in compagnia di un coetaneo all'insaputa dei genitori).
Misteri che si intrecciano ad altri, nella consueta lentezza e riflessività d'Oltralpe, che rende la visione a tratti piacevole ed intrigante, ad altri del tutto insopportabile. Certo, la voglia di conoscere la soluzione di qualcuno di questi enigmi c'è, ma credo che procederò molto lentamente - a mia volta - nella visione. Ci sono decisamente cose più interessanti
Un pulp al giorno: Once upon a tomb
Oggi parliamo di un breve racconto apparso sul numero di Marzo del 1946 della rivista Dime Detective Magazine, scritto da Henry Norton, autore poco noto in Italia, dedicato in particolare alla narrativa poliziesca, rimasto sulla scena per una decina di anni scarsi, negli anni Quaranta del secolo scorso.
Questo Once upon a tomb introduce il personaggio di Pinero Pershing (il nome, ammetterete, che è splendido - nella tradizione del nome e cognome allitterante, che tanta fortuna ha avuto da sempre nella creazione dei personaggi della fiction popolare, e di cui abbiamo parlato in un post precedente), un simpatico e intraprendente studioso di genealogia, che si trova coinvolto in un intrigo per l'assegnazione di un'eredità milionaria (con i delitti che ruotano attorno a una falsa lapide, che in realtà esiste veramente). Stereotipi a go-go (dalla bionda con gli occhi azzurri, classica femme fatale dal cuore tenero, che finisce inevitabilmente per cadere tra le braccia del protagonista, al maschilismo che ne permea ogni pagina, in perfetta tradizione hard boiled), ma umorismo di fondo particolarmente apprezzabile e storiella dignitosa, nella migliore tradizione del genere.
Pur non essendo inizialmente un amante del genere, le letture che vado effettuando mi stanno facendo scoprire un mondo che conoscevo, in verità, molto, molto poco, e mi sto rendendo conto che invece merita molta maggiore attenzione. La rivista in questione contiene dei veri gioiellini (questo racconto non è il migliore, ma è comunque molto valido) e se, come sembra, a breve ne faranno una versione ebook, consiglio a quelli che leggono narrativa anche in lingua originale di non perderselo (i prezzi degli epub-mobi-pdf sono decisamente accessibilissimi, $2.99 sul sito ufficiale, qualcosa di più su Amazon, e credetemi, ne vale veramente la pena).
Questo Once upon a tomb introduce il personaggio di Pinero Pershing (il nome, ammetterete, che è splendido - nella tradizione del nome e cognome allitterante, che tanta fortuna ha avuto da sempre nella creazione dei personaggi della fiction popolare, e di cui abbiamo parlato in un post precedente), un simpatico e intraprendente studioso di genealogia, che si trova coinvolto in un intrigo per l'assegnazione di un'eredità milionaria (con i delitti che ruotano attorno a una falsa lapide, che in realtà esiste veramente). Stereotipi a go-go (dalla bionda con gli occhi azzurri, classica femme fatale dal cuore tenero, che finisce inevitabilmente per cadere tra le braccia del protagonista, al maschilismo che ne permea ogni pagina, in perfetta tradizione hard boiled), ma umorismo di fondo particolarmente apprezzabile e storiella dignitosa, nella migliore tradizione del genere.
Pur non essendo inizialmente un amante del genere, le letture che vado effettuando mi stanno facendo scoprire un mondo che conoscevo, in verità, molto, molto poco, e mi sto rendendo conto che invece merita molta maggiore attenzione. La rivista in questione contiene dei veri gioiellini (questo racconto non è il migliore, ma è comunque molto valido) e se, come sembra, a breve ne faranno una versione ebook, consiglio a quelli che leggono narrativa anche in lingua originale di non perderselo (i prezzi degli epub-mobi-pdf sono decisamente accessibilissimi, $2.99 sul sito ufficiale, qualcosa di più su Amazon, e credetemi, ne vale veramente la pena).
Un pulp al giorno: They dine in darkness
Voglio cominciare una nuova rubrica, un piccolo assaggino giornaliero della mirabolante e straordinaria narrativa pulp anni Trenta e Quaranta.
Essendo impegnato nell'incarico di proof-reader per la Radioarchives, ho ampia disponibilità di storie da raccontarvi e aneddoti da riferire, e spero che questo breve appuntamento quotidiano (magari!) possa riscuotere il vostro interesse.
Inizierò quindi da questa storia, They dine in Darkness, apparsa sul numero di Settembre del 1935 di Dime Mystery Magazine, e dovuta all'estro e alle capacità inventive di Arthur Leo Zagat (prolifico autore pulp, spesso in coppia con Nat Schachner, e attivo in generi diversi, ma di solito legati al fantastico).
E' la storia di una giovane donna che, per conoscere il fato del marito scomparso due anni prima durante un naufragio, apparentemente causato dalla stessa compagnia armatrice per riscuotere i proventi dell'assicurazione, si offre come segretaria a uno strano personaggio - che occupa un ufficio di un palazzo sul punto di essere demolito e quindi privo di altri inquilini, dove i ratti scorrazzano tranquillamente nei corridoi bui e umidi - nella speranza di trovare i documenti che possano confermare la sua ipotesi e punire i colpevoli. In mezzo a una serie di eventi inquietanti e una narrazione tesa e opprimente, la ragazza - che crede di essere finita in mezzo a un incubo mostruoso fatto di creature di Frankenstein e ratti giganteschi - riuscirà non solo a dimostrare la propria tesi, ma anche a ritrovare il marito, orrendamente sfigurato, ma ancora vivo e vegeto.
Ottimo esempio di narrativa pulp dell'orrore, appartenente al filone delle "damsels in distress" - che consentiva agli autori di stimolare gli aspetti più voyeouristici e depravati dei lettori (attraverso descrizioni piuttosto truculente e sadiche, nell'esempio in questione, dei banchetti dei topi giganti - in realtà capibara - oppure attraverso le torture fisiche inflitte alla protagonista, che finisce inesorabilmente per trovarsi coperta di ferite e con gli abiti a brandelli) - il racconto di Zagat mostra i punti di forza e i limiti della narrativa di genere: scrittura affrettata, piena di errori sintattici e di ripetizioni, ma indubbiamente capace di avvincere e di portare il lettore nella direzione desiderata (in questo caso, sviarlo verso il soprannaturale, quando in realtà ci troviamo semplicemente davanti a un mystery tradizionale, grazie a un'ottima costruzione dell'ambiente e all'opprimente claustrofobia che l'autore riesce a evocare con le sue parole, fin a partire dall'ottimo titolo - sui titoli delle riviste pulp farò un pezzo nei prossimi giorni, perché merita).
Molti esempi del genere a seguire nei prossimi giorni
Essendo impegnato nell'incarico di proof-reader per la Radioarchives, ho ampia disponibilità di storie da raccontarvi e aneddoti da riferire, e spero che questo breve appuntamento quotidiano (magari!) possa riscuotere il vostro interesse.
Inizierò quindi da questa storia, They dine in Darkness, apparsa sul numero di Settembre del 1935 di Dime Mystery Magazine, e dovuta all'estro e alle capacità inventive di Arthur Leo Zagat (prolifico autore pulp, spesso in coppia con Nat Schachner, e attivo in generi diversi, ma di solito legati al fantastico).
E' la storia di una giovane donna che, per conoscere il fato del marito scomparso due anni prima durante un naufragio, apparentemente causato dalla stessa compagnia armatrice per riscuotere i proventi dell'assicurazione, si offre come segretaria a uno strano personaggio - che occupa un ufficio di un palazzo sul punto di essere demolito e quindi privo di altri inquilini, dove i ratti scorrazzano tranquillamente nei corridoi bui e umidi - nella speranza di trovare i documenti che possano confermare la sua ipotesi e punire i colpevoli. In mezzo a una serie di eventi inquietanti e una narrazione tesa e opprimente, la ragazza - che crede di essere finita in mezzo a un incubo mostruoso fatto di creature di Frankenstein e ratti giganteschi - riuscirà non solo a dimostrare la propria tesi, ma anche a ritrovare il marito, orrendamente sfigurato, ma ancora vivo e vegeto.
Ottimo esempio di narrativa pulp dell'orrore, appartenente al filone delle "damsels in distress" - che consentiva agli autori di stimolare gli aspetti più voyeouristici e depravati dei lettori (attraverso descrizioni piuttosto truculente e sadiche, nell'esempio in questione, dei banchetti dei topi giganti - in realtà capibara - oppure attraverso le torture fisiche inflitte alla protagonista, che finisce inesorabilmente per trovarsi coperta di ferite e con gli abiti a brandelli) - il racconto di Zagat mostra i punti di forza e i limiti della narrativa di genere: scrittura affrettata, piena di errori sintattici e di ripetizioni, ma indubbiamente capace di avvincere e di portare il lettore nella direzione desiderata (in questo caso, sviarlo verso il soprannaturale, quando in realtà ci troviamo semplicemente davanti a un mystery tradizionale, grazie a un'ottima costruzione dell'ambiente e all'opprimente claustrofobia che l'autore riesce a evocare con le sue parole, fin a partire dall'ottimo titolo - sui titoli delle riviste pulp farò un pezzo nei prossimi giorni, perché merita).
Molti esempi del genere a seguire nei prossimi giorni
E chiamiamola Roma!
Molto in ritardo rispetto ai tempi di uscita, approfittando dei frequenti turni notturni di lavoro di Giulia, ho iniziato a vedere una serie televisiva dedicata alla fase finale di Roma Repubblicana, al lungo e controverso periodo delle guerre civili: Rome.
Pur sapendo dell'esistenza di questa serie (nella quale ha peraltro posto lo zampino in varie forme anche il grande John Milius), l'avevo sempre un po' snobbata, sia appunto per una qual certa puzza al naso - da cultore della materia - nei confronti di una serie televisiva americana (o ammerrigana, per tenerci in tono), sia perché a Giulia non poteva fregare di meno di vederla (e avevamo decine di altri telefilm da seguire); poi, in modo quasi casuale, dietro consiglio di uno dei miei allievi (facendo seguito a una chiacchierata riguardo al romanzo su Cesare e i marziani, di cui forse avete letto in un post di qualche tempo fa), mi sono deciso a vederla, e ho visto quindi la prima puntata.
Come immaginavo, il mio rifiuto preventivo non era del tutto ingiustificato (anche perché nel frattempo, in realtà, avevo visto qualche puntata della prima serie di Spartacus, restandone convinto il giusto, insomma): se si sorvola sulla scarsa attendibilità storica di molte delle cose che si vedono nella prima puntata e si lascia passare sotto silenzio la strana compressione degli eventi che viene fatta (tra la resa di Vercingetorige e il preludio al dado è tratto passono un paio d'anni), il telefilm si lascia giusto giusto vedere, senza sollevare entusiasmi esagitati e nemmeno la voglia di prendere un forcone e inseguire con furia omicida gli autori. Le cose che senza dubbio mi lasciano più perplesso sono la caratterizzazione dei personaggi e la scelta degli attori per interpretarli: in particolare, stonano incredibilmente le caratterizzazioni di Catone (che nella realtà avrebbe avuto meno di 50 anni e qui è presentato come decisamente anziano) e Cicerone (che avrebbe avuto 55/56 anni e nella fiction sembra decisamente molto più giovane), ma lo stesso Pompeo Magno sembra molto più vecchio di quanto non fosse, Bruto un po' troppo giovane, Ottaviano Augusto era ancora un bambinetto (era nato nel 63, quindi avrebbe avuto al massimo 13 anni al momento del suo improbabile viaggio in Gallia (nella realtà ne fece uno verso la Spagna, ormai diciassettenne, nel 46 a.C. per raggiungere lo zio) e non gli alcuni di più che dimostra il protagonista del serial. Insomma, direi che non ci siamo sotto nessun punto di vista.
Se invece ci si distacca maggiormente dal realismo storico e si osserva il telefilm nel suo svolgersi a prescindere, Rome si lascia vedere, non eccede (come il successivo Spartacus in effettacci da videogame - almeno per ora), e scorre abbastanza piacevole.
Immagino di dovergli dedicare ancora qualche puntata, prima di cassarlo del tutto o rivedere parzialmente in meglio, il mio giudizio fin qui sospeso.
Pur sapendo dell'esistenza di questa serie (nella quale ha peraltro posto lo zampino in varie forme anche il grande John Milius), l'avevo sempre un po' snobbata, sia appunto per una qual certa puzza al naso - da cultore della materia - nei confronti di una serie televisiva americana (o ammerrigana, per tenerci in tono), sia perché a Giulia non poteva fregare di meno di vederla (e avevamo decine di altri telefilm da seguire); poi, in modo quasi casuale, dietro consiglio di uno dei miei allievi (facendo seguito a una chiacchierata riguardo al romanzo su Cesare e i marziani, di cui forse avete letto in un post di qualche tempo fa), mi sono deciso a vederla, e ho visto quindi la prima puntata.
Come immaginavo, il mio rifiuto preventivo non era del tutto ingiustificato (anche perché nel frattempo, in realtà, avevo visto qualche puntata della prima serie di Spartacus, restandone convinto il giusto, insomma): se si sorvola sulla scarsa attendibilità storica di molte delle cose che si vedono nella prima puntata e si lascia passare sotto silenzio la strana compressione degli eventi che viene fatta (tra la resa di Vercingetorige e il preludio al dado è tratto passono un paio d'anni), il telefilm si lascia giusto giusto vedere, senza sollevare entusiasmi esagitati e nemmeno la voglia di prendere un forcone e inseguire con furia omicida gli autori. Le cose che senza dubbio mi lasciano più perplesso sono la caratterizzazione dei personaggi e la scelta degli attori per interpretarli: in particolare, stonano incredibilmente le caratterizzazioni di Catone (che nella realtà avrebbe avuto meno di 50 anni e qui è presentato come decisamente anziano) e Cicerone (che avrebbe avuto 55/56 anni e nella fiction sembra decisamente molto più giovane), ma lo stesso Pompeo Magno sembra molto più vecchio di quanto non fosse, Bruto un po' troppo giovane, Ottaviano Augusto era ancora un bambinetto (era nato nel 63, quindi avrebbe avuto al massimo 13 anni al momento del suo improbabile viaggio in Gallia (nella realtà ne fece uno verso la Spagna, ormai diciassettenne, nel 46 a.C. per raggiungere lo zio) e non gli alcuni di più che dimostra il protagonista del serial. Insomma, direi che non ci siamo sotto nessun punto di vista.
Se invece ci si distacca maggiormente dal realismo storico e si osserva il telefilm nel suo svolgersi a prescindere, Rome si lascia vedere, non eccede (come il successivo Spartacus in effettacci da videogame - almeno per ora), e scorre abbastanza piacevole.
Immagino di dovergli dedicare ancora qualche puntata, prima di cassarlo del tutto o rivedere parzialmente in meglio, il mio giudizio fin qui sospeso.
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